I più attenti fra di voi se ne saranno accorti, forse alcuni hanno già partecipato: non diciamolo troppo ad alta voce, ma stanno tornando i concerti. Certo, c’è il coprifuoco e devono iniziare prima, ma mi sono già capitate situazioni in cui i gruppi cominciavano al pomeriggio e alla sera sul presto era già tutto finito: facciamo finta che sia la norma, speriamo ancora per poco. Fra i primi concerti che mi sono apparsi davanti agli occhi ce n’è uno che me li ha fatti brillare (ma mannaggia a me non ci sono andato): Bloom di Mezzago, locale storico della Brianza dove, per dire, hanno suonato i Kyuss, sul palco cinque band fra cui Muschio e Bacon’s Chaos, che chi segue il blog da un po’ di tempo già conosce. Eventi con così tanti gruppi tutti insieme sono caratteristici delle serate organizzate da Tutto il nostro sangue, un manipolo di ragazzi che dal 2017 organizza mensilmente concerti che spaziano fra rock, hardcore, indie, punk e cantautorato, il tutto con etica diy e supportando esclusivamente la scena indipendente. Come si fa a non volergli bene?
Sono stato sola ad una delle loro serate, nel 2019, perché a certe cose io ci arrivo tardi. Mi sono goduto un pout-pourri di band fra cui Treccani e Bruuno, che vi consiglio caldamente, e ho potuto scambiare qualche parola con Andrea Pezzotta, uno delle menti dietro a Tutto il nostro sangue: non potrebbe essere altrimenti, visto che l’ultimo album della sua band Requiem for Paola P. si intitola in maniera molto simile.
Col sangue ha a che fare anche il racconto di Danilo Di Prinzio, nuova penna che ha deciso di donare una storia alla causa della musica bella e indipendente. Nato nel 1972 a Guardiagrele, antico borgo alle pendici della Majella, Danilo dice di aver bruciato una laurea in filosofia prima di iniziare a lavorare per un’impresa di costruzioni, lavoro durante il quale approfitta delle pause per scrivere racconti e poesie. Amante della musica, di Scarface e di Modigliani, nei periodi travagliati legge Faulkner, in quelli quieti McCarthy e negli altri corre in moto. Nei suoi scritti, già premiati in vari concorsi (vincitore del concorso Podcastory “Un bicchiere di vino” con il racconto Del vino, una storia e del Premio letterario di poesia e narrativa Amor mio con la poesia Tu, finalista all’edizione 2020 del Premio letterario Zeno con il raccontoElezione al rango di contemplatore della luna, con la poesia Fugacità ha ottenuto la menzione speciale della giuria alla ventiseiesima edizione del Premio nazionale di poesia inedita “Ossi di Seppia” e all’edizione 2020 del Premio Letterario Clepsama, concorso quest’ultimo dove già nel 2019 aveva raggiunto la finale con il racconto Mereo), esplora le grandi domande dell’uomo sulla vita, l’amore, il senso ultimo dell’esistenza e il potere metafisico dell’arte creativa. Potete leggere suoi racconti su RivistaBlam, Waste, Fuco (su cui è apparso anche La Pandafeche, incluso nell’antologia L’horror ai tempi del Lockdown), Racconti dal crocevia e presto su Salmace, mentre una sua silloge poetica intitolata Una pietra al centro del senso è stata pubblicata nella collana Aonia di Pav Edizioni.
Formatisi nel 2006 dall’incontro fra membri di altre formazioni momentaneamente in stallo, i Requiem for Paola P. devono il loro nome a un pomeriggio domenicale di zapping televisivo, una sigla che rappresenta un canto funebre rivolto a chi la testa l’ha messa sotto la sabbia e ricorda loro ogni giorno ciò che non vogliono diventare. Il primo disco Simplicity esce nel 2008, autoprodotto come tutto il resto della loro discografia, cantato perlopiù in inglese e intriso di punk e di altri elementi che lasciano già presagire sviluppi più personali, confermati dall’uscita due anni dopo di Tutti appesi. Qui il cantato passa definitivamente all’italiano, i testi e gli intrecci vocali fra le voci di Andrea e Claudio si fanno più elaborati e la loro musica assume i contorni di un emocore con suoni più decisi della media. Bisognerà aspettare sei anni e qualche cambio di formazione per ascoltare l’ennesima evoluzione, concentrata nei dieci brani di Sangue del nostro sangue: alla seconda voce (nonché a chitarra e synth) arriva Baba, aggiungendo con le sue parti urlate pacchi di enfasi che in un brano come questo apparirebbero evidenti anche a un sordo, il suono si fa ancora più duro e grezzo e gli arrangiamenti si fanno più articolati. Fiore all’occhiello ulteriore della produzione è la cover, composizione apocalittica di tre incisioni del 1500, e visto che sarebbe un delitto non mostrarvela ve la piazzo qui.
Del nostro parlare moderno, prima traccia del disco (a cui si spera che presto diano un seguito), è un lento incedere verso un’esplosione che si percepisce sottopelle, accompagnata da visioni evocative e dal sapore biblico. Ho associato il brano al testo di Danilo perché ci ho trovato un’atmosfera simile, un rimando di immagini che, pur non corrispondendo perfettamente, si incastrano nei punti giusti: il “che dovrei fare” urlato da Andrea sul finire del brano potrebbe essere quello che rimane in gola al protagonista del racconto, roso dai dubbi e dai sensi di colpa che lo colgono alla fine di un atto violento di cui non vediamo i dettagli e le ragioni, ma solo le conseguenze. Trovate il racconto come al solito dopo il brano, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).
Gemme, di Danilo Di Prinzio
Le nocche gocciolano, le gocce si confondono con la terra, la macchia resta per un istante, si vede dall’alto dello sguardo dell’uomo con la testa china, gli avambracci sulle ginocchia, le mani che penzolano, abbandonate, sanguinanti. Un’altra goccia stilla dal pugno. Un pensiero scende dal cranio, come una lacrima attraverso il viso, si mischia alla porpora della vita, e poi muore. Con la terra.
I pensieri gli si attorcigliano nella testa, come filo spinato. Poi sforza la massa di marmo del suo corpo e si ritrova in piedi, vacilla, rimane fermo per riprendere possesso dello spazio in cui si trova. Si sente colto da una debolezza imprevista, una forza oscura muove da quell’abisso, cerca di trascinarlo dentro, lo afferra per il cervello che è come artigliato da mani le cui dita sono schegge di vetro. Fruga con lo sguardo attraverso il buio, tagliato da lamine di luce in un caos di pulviscolo polveroso.
Perché di colpo sente che non avrebbe dovuto farlo? Cos’è questa aria putrefatta che gli paralizza il respiro? Non è lei che giace nell’altra stanza, non può essere lei. Lei non c’è. Adesso guarderà di là della porta e non troverà nulla. Non la vedrà schiacciata sul pavimento della biblioteca dove lavora. Eppure è ancora lì, acciambellata in un angolo, le mani sul viso, le dita, piccole e sporche.
La sagoma rincattucciata muove la testa verso l’uomo, lo guarda appena, è svuotata da ogni timore, nessuno potrebbe oltrepassare ciò che è già stato ferocemente oltrepassato.
Lo sguardo… Lo sguardo trafigge il mostro, sembra che gli stia ripetendo quelle parole…
fai quello che devi fare
taci
so che non hai colpa, non puoi avere colpa
ho detto di stare zitta
che senso avrebbe la vita altrimenti? Dio…
Ora basta, il mostro grida.
…non è un dito puntato, in una pena che non aspetta altro che di essere inflitta
no… no… taci.
Non è in tutto questo… Lui… Lui è dentro il martirio stesso…
Ti prego stai zitta, ma lui non grida più…
Io ti ho già perdonato, ti perdono, perché non sai quello che fai perché non sai quello che fai… e nemmeno si accorge di averlo ripetuto…
Adesso le sente conflagrare dentro, le parole sono carne, le sente emergere dalla stessa carne, le sente bruciare. Lui è dentro il martirio stesso. Lui è dentro il martirio stesso. Lui è dentro il martirio stesso. Riecheggiano tra le pareti del cranio come l’eco di una bomba esplosa dentro una caverna. Quindi era anche dentro la morte dell’unica persona che abbia mai amato, dentro quel respiro che mancava, quell’urlo che giaceva inascoltato. Perché il corpo non si muoveva? Dopo aver giocato, come se null’altro al mondo fosse stato creato che per la felicità di un gioco infinito, perché il serpente l’aveva morso? Dove si trovava la bocca magica che cullava la quiete, i sorrisi, le corse per i campi, tra i prati, sul ponte di legno costruito con tanta fatica per passare di là dal fiume? E perché questo Dio di cui parla la ragazza piegata dalla sua violenza, è così capace di misericordia?
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C’è un momento molto significativo nel primo episodio della terza stagione di Master of None, serie creata dal comico statunitense Aziz Ansari. Denise (Lena Waithe), amica di lunga data del protagonista Dev (interpretato da Ansari stesso), sta cercando di avere un figlio con la moglie Alicia (Naomi Ackie), anche se sarebbe meglio dire che è Alicia a spingere per avere un figlio. Le due donne decidono di contattare un amico in comune, Darius (Anthony Welsh), per proporgli di donare loro il suo sperma: questi accetta, e in una bizzarra serata viene accolto dalla coppia in casa per il “prelievo”. Prima di lasciarlo solo con una bottiglia di vino, un po’ di cibo, una rosa e qualche candela per fare atmosfera Denise e Alicia fanno notare all’amico che sul tavolo, oltre al recipiente per lo sperma, c’è anche un tablet per visionare comodamente qualche film porno: è una scena strana, quasi surreale, perché si percepisce l’imbarazzo con cui le due donne cercano di mettere a suo agio Darius, non capendo esattamente cosa potrebbe metterlo a suo agio; allo stesso tempo anche il disagio di lui è palese, al centro di una situazione che probabilmente non aveva immaginato in quel modo.
Non è così normale vedere in una serie televisiva l’imbarazzo femminile di fronte all’incognita della sessualità maschile, perché la rappresentazione dell’uomo rispetto a qualunque cosa abbia a che fare con il sesso raramente viene mostrata in situazioni così intime. Aggiungiamoci che, di norma, nella vita reale è molto più facile trovare uomini che non si interessano della sessualità femminile, ma che sono prodighi di consigli rispetto a ciò che una donna dovrebbe fare col proprio corpo: qualcosa però sta cambiando, e se vogliamo usare un iperbole il Darius spaesato sul divano si fa simbolo di ogni uomo moderno, spaesato di fronte a un mondo in cui lo stereotipo del maschio Alpha sta finalmente diventando antiquato.
Letture utili, anche per me che ce l’ho in casa ma non l’ho ancora affrontato
Sono tempi bizzarri, lo dice anche Ansari nel suo speciale del 2019 Right Now. Capace di mediare ottimamente tra humor e riflessione, il comico analizza la questione del politically correct, mostrandone le complessità e puntando il dito sia contro i bianchi, che si fanno portabandiera dell’inclusione come se il razzismo l’avessero scoperto loro, che contro sé stesso e le proprie battute, invecchiate male e molto velocemente. Sono tempi bizzarri, tanto bizzarri che Ansari, dopo aver inserito nella seconda stagione della sua serie un caso di molestie sessuali, si è trovato a sua volta nella stessa situazione nella vita reale: Master of None era già in stand-by fino a data da destinarsi, pausa necessaria per raccogliere le idee e capire come (e se) portare avanti le avventure di Dev, ma a maggior ragione vedere il seguito di una serie incentrata sulle relazioni del protagonista, con l’autore finito al centro delle cronache in pieno periodo Me Too, appariva sempre più difficile.
E invece, con ben poco preavviso, Netflix ha rilasciato cinque nuovi episodi: Moments in love, questo il sottotitolo di una stagione che appare come una sorta di spinoff incentrato suDenise (l’attrice Lena Waithe ha cofirmato tutte le puntate) e sulla sua relazione con la moglie Alicia. Ambientata qualche anno più in là rispetto alla seconda stagione, chiusasi senza dirimere tutti i dubbi sul futuro della relazione di Dev con la Francesca interpretata da Alessandra Mastronardi, la serie riprende le fila del discorso mostrandoci una Denise diventata famosa come scrittrice, installatasi con la moglie in una casa di campagna e impegnata nella stesura del secondo libro che, parafrasando Caparezza, è sempre il più difficile nella carriera di un artista. Presto emergeranno dei problemi che porteranno ad allontanamenti, riavvicinamenti e a una gravidanza tanto voluta quanto complicata.
Master of None è stata sempre una serie abile nell’alternare ironia e sentimento. Alcuni episodi in particolare, penso al nono della prima stagione (Mattine) o all’ottavo della seconda stagione (Il Ringraziamento), erano emblematici della capacità di Ansari e del suo sodale Alan Yang di andare molto più in là della facile risata, puntando anche esteticamente a un prodotto molto più maturo di quel che ci si sarebbe potuti aspettare da un comico. Nei nuovi episodi questa tensione verso l’autorialità viene estremizzata: pochissima comicità, tempi enormemente dilatati e situazioni drammatiche affrontate con sensibilità. Funziona? Nì.
È innegabile che i dialoghi siano ancora una volta un punto di forza della serie. Sia nei momenti di complicità che nei litigi gli scambi dialettici tra le protagoniste sono una gioia per chiunque cerchi della credibilità: è facile entrare nelle loro esistenze, capire la scontrosità a suo modo tenera di Denise e le legittime rivendicazioni di Alicia, moglie premurosa stanca di essere solo un bell’oggetto nella vita della compagna. La loro storia coinvolge perché le attrici riescono a renderle vere, come due amiche per cui facciamo il tifo ma che ci tocca rimanere a osservare impotenti mentre vanno avanti con la loro vita, amandosi e perdendosi come capita a volte anche alle coppie migliori. Ansari mostra i piccoli dettagli, la routine quotidiana, andando ancor più nel profondo di quanto non avesse fatto col già citato episodio Mattine: aiuta a entrare in sintonia, funziona a lungo, ma se il detto “il gioco è bello quando dura poco” è abusato ma sempre attuale un motivo ci sarà, e Ansari non lo capisce.
La mia fidanzata mi ha fatto notare che una stagione come questa non potrebbe esistere senza la piattaforma che la ospita, ovvero senza il binge watching che Netflix e soci hanno reso prassi comune. Se i precedenti episodi di Master of None si attestavano su una durata da serie comedy, venti-trenta minuti con un’unica eccezione, la terza stagione alterna episodi brevi ad altri di un’ora scarsa, tutti caratterizzati da un ritmo lento e da inquadrature fisse che stazionano sulle protagoniste più a lungo di quanto ci si aspetterebbe, cifra stilistica che, in misura minore, già avevamo avuto modo di apprezzare in passato. Quando però si arriva a una scena estenuante in cui Alicia, davanti alla lavatrice di una lavanderia a gettoni, rimane immobile a sorbirsi insieme a noi la Danza Kuduro sparata a tutto volume nel locale vien da chiedersi se Ansari non abbia calcato troppo la mano, stiracchiando il materiale a disposizione fino al limite massimo. Basta guardare il primo episodio della seconda stagione (Il ladro), con il suo neanche tanto velato citazionismo neorealista, per accorgersi che l’autore ama il cinema europeo: reiterare la stessa scelta registica di continuo però aiuta l’immedesimazione solo finché non subentra la noia, che spesso fa capolino e spingerebbe quasi alla resa se non fosse che le protagoniste sono caratterizzate troppo bene e che…be’, sono solo cinque episodi ed è già cominciato il prossimo, vuoi non vederlo?
L’arco narrativo esplorato in questa stagione è completo, coerente nell’incoerenza di alcune scelte che Denise e Alicia compiono e che, paradossalmente, le rendono più vere e umane, simili a noi con i loro piccoli e grandi difetti. E Dev? Appare anche lui, “guest star” nella serie che lo vedeva protagonista e senza farci nemmeno una bella figura.
Se il successo ha baciato Denise per Dev le cose vanno all’opposto: tornato a vivere dai suoi, ancora alle prese con una carriera da attore che non accenna a decollare, è pure tristemente bloccato in una relazione infelice che tira fuori il peggio di lui. Il punto in cui, nel primo episodio, litiga con la fidanzata davanti a Denise e Alicia, ammutolite di fronte a quello sfogo, porta l’elefante nella stanza allo scoperto: quanto di Dev c’è in quella cattiveria gratuita, e quanto di un Ansari ansioso di martirizzarsi in pubblico per i suoi errori nella vita privata? Non lo sapremo mai, e in fondo non importa.
Quasi all’inizio dell’articolo ho parlato di Right Now, lo show con cui Ansari è tornato in scena dopo le accuse di molestie sessuali mosse contro di lui. Ci tiene a iniziare facendo le proprie scuse per quell’errore, ma lo fa sbagliando quasi del tutto il tono: centra il discorso su sé stesso e sul proprio dolore, parla pochissimo della vittima e conclude affermando che, grazie a lui, altre persone hanno potuto interrogarsi sui limiti del consenso in un rapporto. Non ci fa una gran figura, peggio anche di quella del suo personaggio in quella lite citata appena sopra. Questa terza stagione mi ha fatto pensare a un episodio di South Park di qualche anno fa, in cui Randy Marsh partecipa a un quiz televisivo e, con grande dimostrazione di idiozia più che di consapevole razzismo, utilizza la N-word in diretta nazionale: Stan, imbarazzato, cerca di fare ammenda per le colpe del padre scusandosi per quel comportamento con il compagno di classe nero Token, ma di fronte all’ indifferenza di quest’ultimo si indispettisce. Ciò che intuisce Stan nell’arco dell’episodio, dopo aver messo in discussione la propria tolleranza, è che non potrà mai sapere come ci si sente ad avere la pelle nera, cosa vuol dire far parte di una comunità schiavizzata per secoli e ancora ben lontana dal riuscire ad avere pari diritti non solo sulla carta: “ho capito, non posso capire” è l’esclamazione con cui ammette che ogni tanto, quando si ha il privilegio dalla propria parte, bisognerebbe solo rimanere in silenzio.
Aziz Ansari di intolleranza ne ha provata parecchia sulla sua pelle, ce l’ha mostrata parzialmente in Master of None (l’episodio Indiani in TV della prima stagione) e ne fa parecchi esempi in Right Now. Anche lui però si è scontrato con qualcosa che non capiva fino in fondo, e anziché perpetrare l’errore di scusarsi in maniera goffa e imbarazzante ha preferito fare un passo indietro: si è fatto aiutare nella scrittura di una stagione incentrata sulle donne, si è nascosto dietro la macchina da presa mostrandosi il minimo indispensabile. Me lo immagino ammettere come Stan che non può capire, e il suo silenzio come uomo aiuta l’opera a farsi poetica.
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Questa settimana analizzeremo un paradosso, quello del gatto di Schröedinger. Perché, vi chiederete, dovrei parlarvi di un paradosso della fisica in un blog che cerca di fare divulgazione musicale? Perché, vi dico io, dovreste esservi già accort* che ho una passione per i cappelli introduttivi lunghi e contorti, ma se non volete starmi a sentire (leggere?) potete passare al prossimo paragrafo dove (forse) sarò più concreto. Secondo l’illustre luminare della fisica se io metto un gatto in una scatola e ce lo lascio per un tempo indefinito, assieme a una capsula di cianura che può essere rotta da un martelletto collegato a una reazione nucleare che può o meno avvenire, finché non apro la scatola il gatto sarà considerabile sia vivo che morto (potrebbe essere spiegata meglio di così, ma sono un perito elettrotecnico che una volta ha fulminato un compagno di classe durante un’esercitazione per cui perdonate l’approssimazione). Pensate, un gatto potenzialmente immortale! Certo farà una vita di merda, e non è tutto: sfruttando un altro paradosso, ovvero quello che vede il gatto cadere sempre in piedi e la fetta di pane imburrato sempre dal lato del burro, potremmo ottenere un connubio gatto-fetta di pane che ruoterà all’infinito su sé stesso a mezz’aria, fornendo energia illimitata e gratuita per tutto il tempo della sua (potenzialmente infinita) vita. Per sedare le proteste animaliste potremmo sfruttare un altro paradosso, quello degli emo, che vede un emo (categoria ormai quasi estinta caratterizzata dall’ascoltare pop-punk ad alto tasso di lacrime dipinte sul viso, tipo i My chemical romance) soffrire quando è felice ma essere felice quando soffre, in una costante catena di insoddisfazione che ci impedirebbe, in qualunque caso, di essere utile al gatto emo (esistono gatti emo?) anche staccandolo dalla fetta di pane imburrato. Ecco, ora vi ho abbastanza contorto il cervello e potete passare oltre (sono disponibile per chiunque pensi che brevettare questo crimine contro l’umanità, o la gattità, sia eticamente corretto).
I MiSaCheNevica, resident band della settimana, sono un po’ come il gatto di Schrödinger: non pubblicano nulla dal 2013, anno di uscita del loro primo disco Come pecore in mezzo ai lupi, ma non hanno mai ufficialmente annunciato il loro scioglimento; a gennaio 2019, per i sei anni dall’uscita del disco, hanno postato una foto sul loro profilo facebook pronosticando una possibile reunion, non si sa se avvenuta o meno e non si sa come visto che non si sono mai ufficialmente sciolti; sempre nel 2019 pubblicano un ultimo post, e da lì un silenzio che me li fa considerare allo stesso tempo attivi non attivi (in fondo anche la mia band non pubblica niente da eoni, e siamo ancora idealmente attivi anche se con un computer al posto del batterista). Un silenzio che mi rende mooolto triste (un po’ come il panda molestie sessuali), perché la band vicentina composta da Walter Zanon, Antonio Marco Miotti e Marco Amore l’ho conosciuta e amata fin dall’Ep d’esordio, La mia prima guerra fredda, uscito nel 2010 e licenziato, come il successivo disco, da Dischi Soviet Studio. Mi capitarono in mano per caso a scopo recensione, come tante cose belle, e il loro rock pop tanto nineties (non per niente il primo estratto del loro disco si intitola Figlio illegittimo di Kurt Cobain) mi conquistò grazie soprattutto ai testi, capaci di una profondità ed una originalità rare: che si parli di reimmaginare il mito del vampiro (La crisi dei vampiri) o di analizzare la moda che porta ad “avere nostalgia di qualsiasi cosa” (Retromania) la penna dei MiSaCheNevica è sempre puntuale e precisa nel trovare un punto di vista inusuale e capace di far riflettere, con una vena disillusa che ancora riesce a essere critica più che arresa. Se mi sentite, cari Walter, Antonio e Marco, battete un colpo di cassa e ditemi che potrò ascoltare un vostro secondo disco.
La partita di calcetto infrasettimanale, settima traccia del loro album, contiene in sé la voglia di non arrendersi al mondo per come potrebbe andare, contemplando allo stesso tempo le difficoltà di una generazione, la propria, nel realizzare qualcosa di costruttivo. L’esempio perfetto è la partita di calcetto infrasettimanale del titolo, che già si fa fatica a organizzare quella figuriamoci a fare qualcosa che abbia importanza, ma la chiusura pone ‘accento sulla necessità di porsi almeno delle domande: “è tempo per la mia generazione di mettersi in discussione/il mondo nuovo ne ha un bisogno atroce”. Forse il mondo non aveva bisogno del mio racconto, in cui ho messo in scena una ipotetica conversazione telefonica fra due amici alle prese con la decisione, mooooolto ardua, fra il giocare una partita di calcetto e il partecipare a una manifestazione: lo trovate subito dopo il brano, se pensate ne valga la pena, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).
Motivazione
«Pronto?»
«Oi fra com’è? Tutto bene?»
«Solito, niente di nuovo. Tu?»
«A posto dai. Va’ che abbiamo un problema per domani, ci danno il pacco in due».
«In che senso?»
«Per il calcetto. C’è il tipo che gioca sempre con la maglia rossa che non può venire, e visto che portava anche il portiere ce l’abbiamo in culo. Te riesci a trovare qualcuno?»
«Ma non hai avvisato che non si giocava? C’abbiamo la manifestazione domani!»
«Domani? Ma non era domenica?»
«Eh il cazzo domenica, è domani».
«Ma non potevi dirmelo settimana scorsa? Io ho detto a tutti alla prossima, mica mi ricordavo».
«Cazzo ne so io che alla prossima vuol dire settimana prossima, poteva voler dire anche fra un mese».
«Sì ma io dico sempre alla prossima per intendere settimana prossima»
«Va be’ diglielo, sarà mica sta tragedia».
«Ma c’è uno che ha già preso la babysitter per la figlia, mica posso fargli spendere i soldi per un cazzo».
«Ma scusa se non gioca può dirle di non andare, no?»
«Ma se l’ha già contattata poi non è che da un giorno all’altro può dirle di non andare scusa, che modi di merda sono?»
«Ma poi la babysitter deve andare a chiamare? Non ce l’ha una moglie questo qua?»
«Cazzo vuol dire, la moglie non si può fare i fatti suoi? Solo perché è una donna deve star sempre dietro ai figli?»
«Ma mica intendevo quello».
«Potrà ben andare a fare compere o dalla parrucchiera, no?».
«Eh bravo, è arrivato il femminista, chi è che ci va giù con gli stereotipi adesso? Comunque domani manifestazione, non possiamo mancare».
«No?»
«Ma oh! Ma ti senti? Ci son cose più importanti del calcetto!»
«Ma se non so bene neanche per cos’è! Mi hai detto solo che è qualcosa per le associazioni di quartiere, io manco ci vivo in quel quartiere!»
«Ma mica solo di quel quartiere pirla! È una manifestazione di supporto alle associazioni che fanno volontariato e che lo stato non si caga, è una cosa importante».
«Ma ci sarà già un sacco di gente, se anche non andiamo noi mica muore nessuno».
«Sì, e se fanno tutti sto ragionamento si trovano in quattro gatti. Dai manda un cazzo di messaggio e di’ che domani non si gioca. Passo a prenderti per le tre ok?»
«Vabbè dai. Però possiamo fare una cosa?»
«Cosa?»
«C’andiamo di corsa. Così faccio un po’ di moto, sto tutta settimana seduto e il calcetto mi serve per non farmi venire la pancetta. Tanto se anche siamo in pantaloncini chi se ne frega no?»
«Se c’andiamo in bici?»
«Io la bici devo ancora farla mettere a posto, non riesco mai a trovare il tempo».
«E andiamoci di corsa allora, troviamoci a metà strada però».
«Dai ok, poi domani ci mettiamo d’accordo».
«Dai a domani fra, buona serata».
«Ah aspetta!»
«Che c’è?»
«Porta da fumare. Ce ne hai no?»
«Certo che ce l’ho da fumare, che cazzo ci andiamo a fare alla manifestazione se non possiamo fumare mentre protestiamo?»
«Bravo fra, a domani».
«A domani!»
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La prima volta che ho letto qualcosa di Raymond Carver sono rimasto incantato. Era il 2014, per motivi che sfiorano il masochismo avevo deciso di fare una vacanza a nuoto e, causa ragioni di spazio, l’unico libro che mi ero portato dietro era il pdf di Di cosa parliamo quando parliamo d’amore: tempo di leggere il primo racconto, Perché non ballate?, ed era già amore.
Potremmo parlare per ore di quanto quei racconti furono influenzati dall’editing “censorio” di Gordon Lish o di come l’etichetta di scrittore minimalista a Carver non sia mai piaciuta, ma la cosa essenziale è che per tutta la sua carriera, anche quando ha cominciato a dilungarsi come più gli piaceva, Carver ha mantenuto sempre un invidiabile equilibrio fra sottrazione e necessità. Ho sentito svariate persone addentro al mondo della letteratura affermare che questo tipo di scrittura ha creato danni, e li capisco bene: mentre lo scrittore originario di Clatskaine, Oregon, era abilissimo a raccontare storie apparentemente banali rendendole universali, un numero sterminato di suoi emuli ha provato a fare lo stesso, intasando le case editrici di testi che erano solamente noiosi.
Perdonami, Minimum Fax, per il mio pdf illegale
Pensando a un corrispettivo musicale della corrente letteraria minimalista (che, al pari di chi faceva grunge, era la classica nicchia a cui tutti non erano orgogliosi di appartenere) direi che cantautori e folk singers sono quelli che si prestano di più a questo azzardato parallelo. Immaginate l’espressione più scarna di queste due categorie, chitarra-voce o al massimo piano-voce, e nei casi migliori avrete piccole storie che si appoggiano a una musica che mette in risalto i punti gusti: sottrazione e necessità, come in Carver.
Nei nuovi lavori di Flame Parade e Grecale, usciti entrambi nei primi mesi del 2021, ci sono due brani che riescono a raggiungere questo equilibrio. I primi ci riescono con Thunder clap, brano malinconico e avvolgente che chiude l’Ep Echoes, il secondo con I muri di casa, quinta traccia del disco d’esordio Le solite scuse. In entrambi i casi si tratta di canzoni che si reggono musicalmente su pochi elementi e che hanno testi composti da frasi evocative ma non dettagliate, capaci di far entrare in un’atmosfera intima e accogliente anche se con caratteristiche diverse.
Quello dei Flame Parade, band indie-folk toscana arrivata alla quarta uscita dopo l’Ep Berlin (2015) e i dischi A new home (2016) e Cosmic gathering (2020) è un caso particolare. Echoes, uscito ad aprile per l’etichetta Materiali Sonori, è infatti un Ep di quattro pezzi di cui solo il primo, River, è inedito: i restanti brani, già contenuti nel disco precedente, vengono rivisitati seguendo la linea minimale della traccia d’apertura, portando a un risultato molto diverso dall’originale ma di notevole impatto. Se River è un buon esempio di ballata chitarra-voce, a cui i riverberi donano maggiore morbidezza, le cose migliori arrivano dai vecchi brani, in cui il ritmo che li caratterizzava viene sacrificato per andare in esplorazione di uno spazio sonoro che si fa forza della rarefazione. Il binomio finale in particolare è da applausi: Kangaroo subisce solo lievi modifiche rispetto alla sua precedente incarnazione, ma la voce di Letizia Bonchi crea assieme ai synth un connubio di grande intensità che la rende più vitale; su Thunder clap la band opera invece una vera e propria metamorfosi, mettendo il focus sul piano, sulla voce di Mattia Calosci e rinforzando il tutto con inserti d’archi che danno spessore nei punti giusti e creano, come già accennato in precedenza, un raro equilibrio fra ciò che doveva esser detto e le note necessarie per articolare il discorso sonoro.
Discorso diverso per Grecale, moniker dietro cui si cela il cantautore pugliese Andrea Chiapparino. Atto d’amore verso le proprie origini, tanto che in due brani (Venerdì e Gelsi) vengono usati campioni di marce funebri tradizionali, Le solite scuse (uscito a febbraio per l’etichetta Spazio Dischi) è un disco in cui l’autore cerca di trovare una difficile sintesi fra folk e pop contemporaneo, non riuscendo appieno nell’operazione. La già citata I muri di casa, di gran lunga il brano migliore del lotto, riesce ad affascinare concentrandosi sull’essenzialità degli elementi, voce e chitarra arpeggiata coadiuvati da un timido synth in sottofondo, ma rimane un caso isolato all’interno del disco: Venerdì e Stupida si concentrano sul lato pop sintetico senza dire niente di nuovo all’interno del genere, la title track (connotata da un testo che unisce efficacemente le suggestioni bibliche del martirio di Santa Lucia con il tema, purtroppo sempre attuale, del femminicidio) si trascina abbastanza stancamente mentre Mai e Gelsi giocano in maniera più convincente con gli inserti elettronici, creando affastellamenti sonori mai sovrabbondanti ma su cui la voce esile e quasi sempre sussurrata di Andrea non si lega alla perfezione. A chiudere il disco è Abbracciami, traccia per soli voce e piano che, sulla carta, è quanto di più vicino a I muri di casa, ma nei fatti non replica quel risultato: il testo è più descrittivo che evocativo, privo di un pathos che nemmeno la musica riesce a creare, chiudendo sottotono un disco dalle idee interessanti ma ancora troppo acerbo.
Carver sarebbe orgoglioso di questi due progetti? Non è possibile rispondere a una domanda del genere, ma certo sia Flame Parade che Grecale sono riusciti a trovare, almeno per un brano, il giusto rapporto fra sottrazione e necessità. La band toscana sembra aver già capito come replicare questa formula con la giusta dose di ispirazione, il cantautore pugliese invece deve ancora registrare il tono: attendo con curiosità i loro prossimi lavori, nel frattempo vedrò di dedicarmi alla lettura di Vuoi stare zitta per favore?, che mi guarda tentatore dallo scaffale della libreria.
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Non sono un grande esperto di musica elettronica. Per anni il genere l’ho evitato come la peste, a causa di lunghi e prolungati ascolti nella macchina di un amico dell’ala più tamarra e commerciale di quel contesto (esemplificata da ciò che passava su Disco Radio), poi ho scoperto che esisteva anche molta sperimentazione e ho cominciato a esplorare in maniera caotica e casuale. Ho qualche ascolto consolidatosi negli anni, tipo i maledettissimi Fuck buttons che non fanno uscire nulla dal 2013 (a parte album solisti dei due componenti che non mi restituiscono le stesse sensazioni) o i Boards of Canada, di cui mi innamorai grazie al video di Davyan cowboy che riesce sempre a mettermi in pace con me stesso, più una lunga serie di approcci poco approfonditi: mi vergogno ad ammettere che ad esempio con Aphex Twin non riesco a entrare in sintonia, vista la caratura del personaggio lo prendo come un fallimento personale. Due su tre dei nomi elencati sopra sono sotto contratto con un’etichetta, la Warp Records, che nel Regno Unito è diventa simbolo di una svolta amata o odiata a seconda di chi ascolta (e di chi ne parla: per un’approfondita conoscenza sulla questione consiglio, anche a me, massicce dosi di Simon Reynolds e Mark Fisher, che analizzano anche le implicazioni sociali della musica elettronica del periodo rave): quella della IDM, acronimo che sta per Intelligent Dance Music, caratterizzata dal porsi in contrasto con la musica “da ballo” e tentare un approccio più cerebrale e ragionato, teso verso il minimalismo o la complicazione a seconda degli artisti coinvolti. In quel calderone ci sguazza come un pesce ormai da anni anche Tom Jenkinson, bassista e manipolatore sonoro gallese meglio conosciuto col moniker di Squarepusher.
Se i già citati Boards of Canada hanno pubblicato nella loro ultratrentennale carriera solo quattro album, forse spinti in questa direzione dalla natura in qualche maniera contemplativa della loro musica, Squarepusher si può invece considerare un maestro della sovraproduzione: quattordici dischi dal 1995 a oggi solo con questo moniker, più una galassia di Ep, qualche progetto parallelo e acerbe uscite con il proprio nome o altri alter ego negli anni iniziali. Altrettanto diverso è l’approccio musicale, molto più frenetico e improntato a un connubio fra drum’n’bass, house e jazz, mondi apparentemente lontani che nelle sue canzoni a volte si amalgamano e a volte si scontrano. Non fingerò di conoscere vita, morte e miracoli di Squarepusher, perché è una scoperta recentissima a cui devo ancora dedicare il tempo necessario per capire quanto e se resisterà nelle mie orecchie: se volete approfondire vi consiglio di leggere questo articolo su Ondarock, esaustivo, interessante e capace di dare una lettura personale della sua frenetica produzione musicale.
Perché dedicare un racconto alla musica di un artista che conosco poco, nome noto di un genere che frequento di rado? Semplicemente perché sono stato stregato dalla sua Unreal square, seconda traccia del disco Ufabulum del 2012: fra momenti semi-contemplativi e assalti ritmici il brano crea un mondo sonoro schizofrenico e allucinato, in cui sonorità che ricordano quelle delle giostre per bambini accelerano e si frantumano in un caleidoscopio incredibile. Il racconto che è nato dall’ascolto prolungato e ossessivo della canzone (che è risuonata nelle mie orecchie anche durante la gestazione di un altro racconto, troppo lungo per trovare spazio qui) è debitore di una delle mie influenze letterarie fondamentali, Chuck Palahniuk, non tanto per lo stile quanto per ciò che racconta: una parata improvvisata di scoppiati in città, simile a ciò che mi immagino accada nelle azioni folli (tra cui la mitica parata dei Babbi Natale) organizzate dalla Cacophony Society di cui lo scrittore di Portland fa parte. Trovate il racconto subito dopo il brano, come al solito non mi resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).
La conquista della città
Ci hanno detto che stasera è la sera. Un messaggio ci ha indicato il luogo e l’ora, nessun’altra indicazione a parte la solita. Siate estremi, siate liberi.
Quando esco in strada i gruppi di bambini sono gli unici che hanno il coraggio di guardarmi, se sono accompagnati dai genitori quelli gli mettono una mano davanti agli occhi e scappano via come se avessero visto il diavolo. E dire che ho l’aureola, le ali e dei bei riccioli biondi.
Siate estremi, siate liberi, così ci hanno detto. La blasfemia ho voluto aggiungercela da solo.
Di solito quando cammino per strada la gente si volta per compassione. Gliela vedo quell’espressione negli occhi, un attimo prima che si fingano interessati dalla vetrina di una copisteria o si concentrino sulla loro birra finita come se potessero farne sgorgare altra. Stasera, quando mi guardano, hanno la faccia spaventata di chi non capisce cosa ci faccia un putto gigante per la strada, con solo le mutande, un piccolo arco e una faretra piena di dildo di tutti i colori. La mia ciccia straborda libera, per un giorno sento di non dovermene vergognare.
All’incrocio con un’altra via vedo due trampolieri che camminano abbracciati l’uno all’altro, poi guardo meglio e noto che non potrebbero staccarsi neanche volendo: sono legati insieme da una camicia di forza. Ci salutiamo con un cenno del capo e procediamo insieme, mentre tutto attorno a noi le finestre si aprono e la gente si affaccia a guardarci. Altre persone si aggiungono alla nostra parata, qualcuno si è messo solo dei vestiti sgargianti ma ce ne sono altri che dimostrano una grande fantasia. Tre persone si sono fatte un costume da verme da cui escono solo le loro braccia e le teste del primo e dell’ultimo, scivolano in avanti spingendosi su skate appoggiati al ventre molle della loro corazza. Non so come faccia quello in mezzo a respirare, ma ci sono così tante cose strane intorno a me che non mi faccio domande.
Ci sono così tante cose strane che mi sento normale.
Qualcuno dalle finestre e dai marciapiedi comincia a fischiare e incitarci, la gente ci filma e sorride. Ora sono in tanti quelli che non si voltano dall’altra parte, ma non lo stiamo facendo per loro: lo facciamo per noi stessi.
Quando arriviamo alla piazza la troviamo gremita di ogni tipo di umanità strana, sboccata, estrema. Mi confondo in quel circo improvvisato di scoppiati, senza sapere da chi sia partita l’idea. Non abbiamo più una forma, non abbiamo più un ideale standard a cui aderire. Da qualche parte esplode forte la musica e ci mettiamo tutti a ballare, un girone dell’inferno per tutti i benpensanti apparso all’improvviso nel bel mezzo della città.
Ballo, sudo, abbraccio e rido. Non so quanto ci vorrà prima che vengano a scacciarci, ma per ora la città è nostra e me la godo. Sono estremo. Sono libero.
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Ho parecchi amici appassionati di anime con cui mi ritrovo spesso a scambiare pareri su questa o quell’altra serie animata giapponese. Parlando con uno di loro ci siamo messi a sviscerare le differenze sostanziali fra le caratterizzazioni dei personaggi rispetto a quella dei protagonisti delle serie televisive occidentali, trovandone una abbastanza marcata: i primi rimangono pressoché fedeli alle loro caratteristiche, spesso esagerate tanto da farle diventare macchiettistiche; i secondi tendono invece a mutare i loro comportamenti in funzione della trama, agendo spesso in netto contrasto con quanto fatto poco prima. Non è una regola aurea e di certo nessuno dei due è un esperto in materia, ma fateci caso: tanto più la qualità cala e tanto più avremo personaggi irreali, perché poco credibili o incapaci di relazionarsi in maniera sensata fra di loro.
Il modus operandi occidentale può essere chiarito guardando alla breve e (quasi sempre) triste storia del filone supereroistico italiano. Dobbiamo a Gabriele Salvatores, uno a cui va dato il merito di avere il coraggio di sporcarsi le mani con progetti sperimentali (pensate alla fantascienza vagamente cyberpunk di Nirvana), il primo tentativo di creare una saga a base di superpoteri in Italia, oltretutto puntando su un’ambientazione atipica come quella di Trieste. Il ragazzo invisibile (2014) e il suo seguito, Il ragazzo invisibile – Seconda generazione, sono però recitati mediamente male (e ok, nel primo sono dei bambini, ma nel secondo fanno pure peggio), hanno una trama che scimmiotta gli X-Men senza riuscire a sfiorarne il carisma e, soprattutto, i personaggi interagiscono fra di loro in maniere irrealistiche, fra amicizie che sbocciano dal nulla e voltafaccia immotivati. Gli unici che sembrano agire in maniera coerente sono i cattivi, che in compenso sono quanto di più stereotipato possibile: la loro cattiveria non nasce da delle reali motivazioni, tanto che in Seconda generazione (attenzione allo spoiler) la madre del protagonista Michele vuol far esplodere mezza Trieste, invece di limitarsi a uccidere l’oligarca russo che li ha torturati nel “passaggio” dal pubblico (esercito russo) al privato (azienda senza scrupoli), per vendicarsi alla Magneto contro quei normali con cui, in realtà, non pare abbia mai avuto molti rapporti.
Fra questi due mesti esempi un piccolo barlume di speranza in realtà era nato: Lo chiamavano Jeeg Robot, uscito nel 2015, riesce ad avere un respiro internazionale nonostante sia intriso di romanità da cima a fondo. Molto più esagerata nelle sue scelte narrative del binomio di film diretti da Salvatores (di cui ci è stato risparmiato un terzo capitolo grazie ai bassi incassi al botteghino), la pellicola di Gabriele Mainetti è una origin story che pesca tanto da quel capolavoro trash che è Toxic Avenger (la genesi tramite materiale radioattivo uscito da un bidone) quanto, in una certa maniera, dagli anime giapponesi che cita fin dal titolo. Non è esente da difetti, dalle comparse che reagiscono in maniera impassibile agli eventi che gli succedono intorno al “classico” piano del cattivo che deve essere sbandierato ai quattro venti, ma azzecca una cosa fondamentale: Luca Marinelli nei panni dello Zingaro, delinquentello di borgata eccessivo e avido che, nonostante la sua caratterizzazione estrema (quasi da anime, giusto per restare in tema), si dimostra un antagonista dalle motivazioni credibili anche se non condivisibili, che eclissa il pur bravo Claudio Santamaria (un po’ come il Joker di Heath Ledger ne Il cavaliere oscuro, dove il Batman di Christian Bale è doppiato proprio da Santamaria) e ha giustamente dato slancio alla carriera dell’attore.
Viste le premesse non avevo grandi aspettative riguardo a Zero, nuova e fiammante serie Netflix creata da Roberto Marchionni e molto liberamente ispirata al romanzo Non ho mai avuto la mia età di Antonio Dikele Distefano. La storia ha per protagonista Omar (Giuseppe Dave Seke), ragazzo italiano di origini senegalesi, timido e solitario per natura. Ha solo una passione, i manga, e un lavoretto serale come ragazzo delle consegne in una pizzeria, che gli serve a racimolare i soldi per andare in Belgio, dove spera di avere maggiori opportunità di vivere con la sua arte. Nell’arco di una sola serata la sua vita viene sconvolta: prima incontra Anna (Beatrice Grannò), ricca studentessa di architettura di cui si innamora, poi, nel tentativo di scappare da uno sconosciuto che lo minaccia con una pistola, scopre di poter diventare invisibile. Lo sconosciuto è Sharif (Haroun Fall), ragazzo del Barrio (il quartiere inventato in cui si svolge la vicenda) che con gli amic* Sara (Daniela Scattolin), Momo (Richard Dylan Magon) e Inno (Madior Fall) convince Omar ad usare il suo potere per combattere La Sirenetta, un’azienda di costruzioni che sta cercando di degradare il quartiere e scacciare i suoi abitanti per riconvertire l’intera zona. Abitando a Milano da un anno e mezzo, in una via che sta a metà strada fra il quartiere che cerca di resistere alle logiche capitalistiche (San Siro) e la zona gentrificata (Citylife) ero molto interessato all’ambientazione e ai temi trattati, dall’integrazione alla speculazione edilizia: purtroppo la serie inquadra la città prevalentemente nei suoi angoli da copertina, ma questo è probabilmente l’ultimo dei problemi che ho riscontrato negli otto episodi che, mannaggia a me, mi sono ostinato a guardare fino alla fine sull’onda di quel binge watching che mi ero ripromesso di combattere.
Zero è l’apoteosi del concetto “personaggi che fanno cose solo perché la trama deve andare in una certa maniera”: sia il colpo di fulmine che scocca fra Anna e Omar che l’amicizia che lega indissolubilmente quest’ultimo a Sharif e agli altri appaiono come imposizioni dall’alto, legami che si cemenificano senza un buon motivo e che in più di un’occasione paiono sul rischio di spezzarsi per motivazioni futili. Su basi così instabili è difficile costruire, ma episodio dopo episodio la situazione peggiora ulteriormente: fra piani sconclusionati, reazioni illogiche e svolte di trama che sono frutto del caso più che della perseveranza dei protagonisti anche la trama procede per inerzia, senza restituire mai tensione ma lasciandoci la consapevolezza che, come in una favola, tutto andrà a finire bene e i buoni vinceranno.
Io penso che non abbia senso una storia d’amore così, ma fingiamo di crederci
Nessuno dei personaggi è caratterizzato in maniera definita se non dal suo essere buono o malvagio, con pochissime zone grigie che, comunque, non vengono esplorate: il massimo che ci si può aspettare è la spalla comica, compito di Momo, il minimo la totale apatia (non la band) di Inno, cui vengono dedicati approfondimenti che spiccano per la loro inutilità. Anche la temibile Sirenetta, un’organizzazione che vuole distruggere l’intero quartiere per le sue speculazioni passando sopra alle vite degli abitanti con arroganza e senza rimorsi, appare miseramente ridotta a un gruppetto di scagnozzi che fanno il lavoro sporco e un palazzinaro convinto che il mondo vada così e non si possa fermare il progresso: troppo poco per non far sembrare la tematica sociale un semplice specchietto per le allodole, contando che la realtà del Barrio ci viene restituita in maniera veloce e approssimativa per concentrarsi maggiormente, come già detto, sugli angoli da cartolina della città.
In tutto questo il potere dell’invisibilità, ciò che rende Omar il “supereroe” Zero, è gestito con la stessa logica dei rapporti fra i personaggi. La prima volta che si trova a utilizzarlo scompare nel nulla, come se si trattasse di teletrasporto più che di invisibilità, il suo riuscire o meno a controllarlo appare frutto del caso e, comunque, risulterà quasi sempre inutile per lo svolgersi della trama, il che per una serie che come elemento di originalità vuole proprio portare la componente sovrannaturale è un bell’autogol. Anche il binomio fra l’invisibilità come superpotere e l’invisibilità come condizione sociale viene abbandonata in fretta e furia, giusto il tempo di qualche riga di monologo e di far scambiare Omar, a una festa a casa di Anna, per uno spacciatore e uno sciamano.
Prendendo il peggio della serialità occidentale Zero si dimostra l’ennesimo tentativo fallito di creare un prodotto audiovisivo a tematica supereroistica in Italia, perso nel suo cercare di essere giovane e alla moda fra tentativi riusciti (la colonna sonora a base di trap, comunque composta da brani che potete sentire in qualunque radio e zero ricerca underground) e altri imbarazzanti (la fiera del fumetto a cui partecipano Anna e Omar ad esempio, segno che nemmeno una delle caratteristiche salienti del protagonista, quella di voler diventare una mangaka, è trattata con cognizione di causa, come fatto notare in questo articolo esaustivo come io non riuscirò mai ad essere). Per dare un’idea di quante cose non vanno trovate sotto un’esaustiva lista dei momenti in cui, come direbbero quelli de I 400 calci (sito che vi consiglio assolutamente di seguire), ho esclamato maccosa di fronte alle evidenti incongruenze nei comportamenti dei protagonisti e/o nello svolgersi della trama: guardatevela se non avete paura degli spoiler o se volete mitigare la delusione provata durate la visione, poi passiamo tutti a una serie tv fatta bene o magari ad un anime, ricordandoci di tutto questo quando uscirà la seconda stagione (ovviamente la prima ha un finale aperto).
Tutto il peggio di Zero in 54 punti:
Il padre di Omar gli dice che potrebbero sfrattarli, lui risponde con noncuranza “eh vabbè, andremo da un’altra parte”. Quella è la casa dove è cresciuto, è normale che non gliene freghi niente delle difficoltà a cui andranno incontro?
Omar va a consegnare una pizza a casa di Anna, trovando la porta aperta e nessuno dentro decide di piazzarsi in soggiorno. A voi è mai capitato che un rider invece di suonare di nuovo il campanello vi entri in casa?
Se Omar stava lavorando com’è che non torna più a lavoro ma rimane a mangiarsi una pizza con Anna?
Quando Omar scompare la prima volta non è proprio più lì. Qui si tratta di teletrasporto, non di invisibilità.
Quando Omar rivede Sharif, che lo ha minacciato con una pistola, invece di essere spaventato è scocciato. E al pizzaiolo non importa che uno sconosciuto gli entri dentro la cucina e curiosi in giro.
Rico, colpevole degli atti vandalici, piscia in testa a Dietmar, il senzatetto del Barrio che li ha colti in flagrante mentre davano fuoco alla pizzeria dove lavora Omar, poi il giorno dopo lui e gli altri cubani lo uccidono. Aspettano un giorno senza un valido motivo, a parte lasciare il tempo a Dietmar di dare un indizio utile a Omar.
Omar non lascia dormire Dietmar dentro alla pizzeria di notte perché c’è vernice fresca. Che lavorone, hanno già ripulito tutto e ridipinto in un giorno solo!
Sharif ha raccontato agli altri che Omar sa diventare invisibile. Gli credono quasi tutti, senza tentennamenti.
Va via la luce nel Barrio, il tecnico che arriva a controllare dice che o pagano o devono aspettare che se ne occupi il comune chissà quando, il tutto offendendo anche in maniera ben poco velata gli abitanti del quartiere. Chi, sano di mente, farebbe lo stesso da solo di fronte a una folla incazzata?
Sharif e gli altri entrano in casa di Omar dopo che massimo due giorni prima lo ha minacciato con una pistola. Lui non si spaventa, e tempo cinque minuti gli parla dei suoi problemi di cuore. Fanno tutti gli amiconi come se si conoscessero da anni.
Sara dice a Omar “noi non siamo dei ladri”, subito prima Momo gli ha proposto di rubare nei portafogli della gente, visto che tanto non se ne accorgerebbero.
Il padre di Omar gli ruba i soldi che teneva da parte, ma lui si entusiasma perché Anna gli ha risposto a un messaggio e non ci pensa più.
Le amiche di Anna, la prima volta che vedono Omar, gli parlano come se lo conoscessero anche se, presumibilmente, Anna non ha mai parlato di lui.
Omar parte a proporre un piano per farsi i soldi a poker al tavolo dei ricchi, meno male che a Sara viene il dubbio se sa veramente scomparire altrimenti a lui non sarebbe mai venuto in mente di esercitarsi.
Tempo trenta secondi di domande e tutti intuiscono che Omar scompare quando si emoziona. Peccato che non funzionerà mai esattamente così.
La velocità con cui Omar impara a usare il suo superpotere fa sembrare Il ragazzo invisibile un dilettante.
Inno pensa che l’invisibilità di Omar sia un trucco. Quale trucco pensi possa far diventare una persona invisibile vorrei che me lo spiegasse.
L’allenatore di Inno lo ha preso in antipatia, più avanti si vedrà che lo tratta male perché arriva in ritardo agli allenamenti a causa del lavoro. Contando che fa canestro coi piedi e quando lo fa sorride come se per lui fosse normalissimo io non sarei così stronzo con lui.
Alla serata del poker Omar non riesce più a tornare invisibile dopo che ha visto Anna, gli altri in due minuti perdono quasi tutto. Come hanno fatto in così poco tempo?
A nessuno sembra strano che Omar, tornato visibile nel locale lussuoso dove si svolge la serata poker, sia vestito come uno che gioca al campetto di periferia mentre tutti sono in abito da sera.
La sicurezza del locale cerca di fermare Sharif perché ha vinto troppo, ma non hanno problemi a far portare via il malloppo a Sara.
Omar chiede a suo padre spiegazioni sull’arresto della madre, avvenuto anni prima, accusandolo di sapere benissimo che sa diventare invisibile e che lo sapeva anche allora. Dopo uno schiaffone Omar se ne va e la sua voglia di saperne di più diventa anche quella invisibile.
Zero ha mollato gli altri al poker, ma tutto passa in secondo piano appena inizia a parlare di Anna. I problemi sentimentali hanno la precedenza su tutto evidentemente, anche sul non mettere nei casini gli amici (che poi sono quelli che conosce da neanche una settimana).
Il fratello di Sharif estorce a Omar trenta euro a settimana per stare in casa loro. A conti fatti è un ottimo prezzo, stronzo sì ma con poco senso degli affari.
L’amica di Sara che tatua mezza Milano, da cui vanno per scoprire chi si è fatto fare un tatuaggio di Fidel Castro sopra l’uccello, li fa aspettare un sacco per rispondere alle loro domande, poi più o meno li sfancula. Ma si scioglie appena Zero, uno sconosciuto, le attacca un pippone pieno di buoni sentimenti.
Omar va a casa di Rico per controllare se ha veramente il tatuaggio di Fidel Castro sopra l’uccello. Arriva proprio mentre sta per trombare e lo chiamano pure quelli della Sirenetta, così scopre che sono i mandanti degli atti vandalici. Che tempismo!
La bambina di Rico sgama Omar, lui invece di scomparire e andarsene si mette a fare i giochetti per farla divertire, rischiando di farsi ammazzare.
Dopo aver recuperato la testa della statua del migrante, uno dei vari atti vandalici orchestrati da Rico, Omar e gli altri si mettono a fare festa alla base della statua, Sharif sta per fare una foto da mettere su Instagram ma Sara gli fa notare che non è il caso, perché hanno a che fare con gente pericolosa. Ma perché stanno a fare festa lì allora, che è il primo posto dove andrebbero a controllare Rico e soci dopo essersi accorti che la testa non c’è più?
Omar si ricorda solo a tarda sera di aver scoperto che quelli della Sirenetta pagano per far distruggere il quartiere.
Il padre di Anna è il capo della Sirenetta. Che caso!
Sharif e gli altri hanno schede dettagliate dei capi di Sirenetta, neanche fossero l’Interpol.
Di dire ai suoi amici che il padre di Anna è il capo di Sirenetta, ovviamente, a Zero non passa neanche per l’anticamera del cervello.
In trenta secondi il divario sociale fra Anna e Zero, fino a quel momento inesistente, deflagra come se lei si fosse sempre comportata da viziatella. Tutto perché non gli crede quando le dice, senza prove, che suo padre è un criminale e uno stronzo.
Il padre di Anna, palazzinaro senza scrupoli che assolda criminali per degradare un quartiere, non riesce a raccontare palle a sua figlia quando le chiede se è un delinquente. Come abbia fatto a non sgamarlo la polizia, con così poca capacità di mentire, è un mistero.
Il padre di Anna se la prende con Rico perché ha esagerato con le sue azioni nel quartiere, ma ci mette un attimo ad assoldarlo come sicario per uccidere Sharif e gli altri.
Inseguiti da Rico e i suoi Sara si schianta con la macchina contro altre vetture parcheggiate: nessuno dai palazzi di fronte si accorge di niente.
Dopo aver accoltellato Momo Rico minaccia gli altri per non farli avvicinare, ma Sara non si fa problemi a passare lo stesso e lui non glielo impedisce.
Sara se la prende con Sharif per l’accoltellamento di Momo, accusandolo di voler prendere il posto di Rico nello spaccio di droga o di voler prendere il posto della Sirenetta per lucrare sul quartiere, senza che ci sia mai stato mostrato un momento in cui Sharif possa sembrare un doppiogiochista. Inno le dà ragione silenziosamente perché, come ormai è evidente, non ha una personalità.
Quando Omar torna a casa suo padre, stronzo fino a un attimo prima, all’improvviso diventa accomodante e gli restituisce pure i documenti che gli aveva sottratto senza fare storie.
La sorella di Omar durante una partita di pallavolo continua a giocare anche se sta male, dimostrando che non le hanno inculcato proprio bene lo spirito di squadra. Oltretutto gioca senza occhiali, e l’allenatrice non la toglie neanche quando scopre che ha problemi agli occhi e non le aveva detto niente.
Nuovo superpotere di Zero, in bicicletta va veloce più di un autobus di linea e arriva alla villa di Rico prima di Sharif, giunto fino a lì per vendicarsi.
Sharif manda a Sara e Inno un vocale in piena notte dicendogli di correre in ospedale perché è successo qualcosa a Momo, ma è solo un trucco per riunirsi tutti e tornare amici come prima. L’unico momento in cui dovrebbero davvero menarlo è questo, avendoli fatti spaventare per niente, ma tornano davvero tutti amici come prima grazie a un bel discorsetto motivazionale di Omar. In tutto questo non c’è nessun personale ospedaliero in giro, e di notte oltretutto le visite sarebbero vietate.
Omar dice agli altri “Ormai conosciamo tutti i nostri nemici, siamo in vantaggio”. In realtà anche i loro nemici li conoscono perciò sarebbero come minimo pari.
Si scopre che Momo è riuscito a caricare sul cloud il filmato in cui Omar ha ripreso il padre di Anna e Rico mentre parlavano dei loro affari sporchi: come ci sia arrivata esattamente la polizia è abbastanza oscuro. I poliziotti, fino a quel momento stronzi e velatamente corrotti, diventano all’improvviso BFF dei protagonisti.
Il padre di Anna ha intestato alla figlia una società immischiata in operazioni illegali: non è esattamente ciò che farebbe un padre modello, ma lui fa come se fosse colpa di Omar che lo ha denunciato.
Ok che la società è intestata ad Anna, ma non si capisce perché debbano prendersela con lei invece che col padre che ha combinato un casino.
I sicari della Sirenetta rapiscono Anna in pieno Corso Como, come se fosse una cosa normalissima.
Zero si fa tutto il viaggio fino al nascondiglio fuori città attaccato al portapacchi del furgoncino con cui rapiscono Anna. Che muscoli!
Omar, da invisibile, potrebbe fare un sacco di cose per salvare Anna: decide di apparire davanti a uno dei sicari per spaventarlo. Non contento, dà una manata al braccio con cui l’altro sicario tiene la pistola mentre gli sta davanti, il modo migliore per rischiare di farsi sparare in pieno petto.
Un portacenere in piena nuca non stende il primo sicario (credibile), una sedia sulla schiena fa svenire subito l’altro (non credibile).
Omar potrebbe portare Anna fuori dal cancello della villa dove è segregata senza problemi, ma la lascia dietro una pianta a pochi passi dai rapitori che la cercano. Non contenta lei lo chiama a gran voce: meno male che arriva la polizia, se no la riprendevano in tempo zero.
Omar è dentro l’ambulanza con Anna, invisibile, ma cosa succederebbe se qualcuno si sedesse al suo posto? Livello sgamo +1000, a meno che nel frattempo non abbia imparato anche a diventare incorporeo.
“Anna, non riesco più a tornare visibile. Partiamo insieme!”. Ma di tutti i momenti per chiederglielo proprio adesso che lei è in ospedale, invischiata in una truffa e con te invisibile forse a vita? E lei dice pure sì!
Il fidanzato della sorella di Omar e la sua migliore amica hanno un inciucio, tanto basta perché lei diventi cattiva e sorrida vedendo morire l’amica.
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Facebook è un luogo virtuale in cui puoi trovare qualsiasi cosa. Sì, non avevate bisogno di me per scoprirlo, e di certo non mi metterò a fare un’analisi sociologica sulla questione (ma ricordatevi di chi fa il lavoro sporco), ma è bello notare ogni tanto che, per quanto l’algoritmo cerchi di propinarci più o meno le stesse cose, qualcosa scappa dalle sue strette maglie e no, non è l’ennesima sparata sul perché quel rapper sposato con una famosa influencer quando anche dice cose giuste sta comunque sbagliando o lo sta facendo per il motivo sbagliato o sta arricchendosi con la nostra voglia di politically correct che, maledette femministe, ci impedirà di dire qualsiasi cosa. Nel mio caso quel “qualcosa che scappa dalle strette maglie dell’algoritmo” è La bella musica, perché mi è capitato spesso di scoprire band grazie ad amici di vecchia data, gente che mi aveva appena richiesto l’amicizia o tramite connessioni strane. La band di questa settimana, ad esempio, l’ho scoperta dal post di un amico, e sono ben felice di essermi messo all’ascolto: da Boston ecco a voi i Bent Knee.
Formatisi nel 2009 dall’incontro fra la cantante e tastierista Courtney Swain e il chitarrista Ben Levin al Berklee College of Music, i Bent Knee si sono ben presto stabilizzati nella forma di un sestetto con l’ingresso di Jessica Kion (basso), Gavin Wallace-Ailsworth (batteria), Chris Baum (violino) e Vince Welch (produttore). Quella che non si è mai stabilizzata, e vivaiddio per questo, è la loro musica, un miscuglio di prog, pop barocco e semplice voglia divertirsi e inquietare che non ha eguali, in cui la voce incredibile di Swain emerge poderosa. Il loro primo disco omonimo risale al 2011, ma alle mie orecchie ci sono arrivati solo cinque anni dopo col terzo disco Say so (frutto del loro primo contratto discografico con la Cuneiform Records) e precisamente con questa canzone, mentre per innamorarmene definitivamente è bastato l’ascolto di quest’altra. Da allora hanno pubblicato altri due album con l’etichetta Inside Out, Land animal nel 2017 e You know what they mean nel 2019, e mi mangio le mani scoprendo solo ora, da una veloce ricerca, che hanno suonato due volte a Milano e io non lo sapevo: se siete della zona tenete d’occhio il calendario di Alex Etxea – La casa di Alex, casa madre di entrambi i loro concerti, perché anche se non torneranno a brevissimo a trovarci vale sempre la pena supportare le realtà che promuovono la cultura.
Insides in, quarta traccia dell’album Land animal, è una canzone che appare sulle prime morbida e delicata, in cui il testo evoca però immagini meno rassicuranti: basta superare la metà del brano perché anche la musica si adegui e una cappa d’oscurità barocca ammanti tutto, tranne i vocalizzi angelici di Swain che riesce a portarci oltre la sofferenza o, perlomeno, a indicarci la via. Mi sono fatto ispirare dall’andamento bizzarro della musica e dal testo per scrivere un racconto che ha luogo in un ipotetico (e stereotipato, lo ammetto) manicomio, da cui l’unica possibilità di fuga risiede all’interno della propria mente: potete leggerlo subito dopo il link al brano, non mi resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).
Prevenire le malattie
Il mio lavoro qui è importante. Me lo ha detto la ragazza bionda che non sorrideva mai, è lei che mi ha insegnato a usare bicarbonato di sodio e acqua ossigenata per pulire gli spazi fra le piastrelle. Fughe, chiamava quegli spazi, e quando me lo ha detto la prima volta si è incantata un attimo con la bocca aperta, come se cercasse di pensare a qualcosa. Poi l’ha chiusa e ha cominciato a spiegarmi cosa usare per la ceramica dei sanitari.
Stare inginocchiata tutto il giorno non mi piace, ma è necessario. Ci sono così tante cose che si nascondono nell’infinitamente piccolo, germi e batteri che possono farti venire malattie orrende sulla pelle e anche dentro, si attaccano alle viscere e ti mangiano gli organi. A papà è successo così, un giorno gli è cresciuto qualcosa dentro e l’hanno dovuto portare via. Dove non lo so, non so nemmeno dove sia io. A volte non ricordo che faccia avesse.
La ragazza bionda che non sorrideva mai c’è stata poco a lavorare con me. Un giorno è arrivata e aveva un grosso bozzo in faccia, non mi ha detto come se l’era fatto e io non ho chiesto ma quando l’hanno vista i dottori hanno portato via anche lei. Non ha fatto resistenza, sembrava incantata come quel giorno che mi parlava di fughe. Non l’ho più rivista, e non hanno neanche mandato qualcuno a aiutarmi. Un lavoro così importante, e solo io a proteggere tutte dalle malattie.
Mi diceva che il nostro lavoro è importante perché mica a tutte fanno toccare le cose che usiamo. Quella che le dava una mano una volta si è messa a bere la candeggina, aveva una faccia talmente soddisfatta dopo il primo sorso che le era venuta voglia anche a lei, così, giusto per capire cosa si prova. Un po’ la capivo, non è che si faccia molto qui dentro, ogni tanto vediamo un film e poi abbiamo un sacco di tempo per noi stesse. Lo passerei a pensare a tutte le cose a cui pensavo da piccola, ma ho la mente così confusa che non riesco a concentrarmi. Se ci provo mi vengono in mente le marche dei prodotti per pulire.
Papà diceva che ero una bambina speciale, ma le cose che pensavo dovevo tenermele per me. Dovevano essere delle cose che avrebbero fatto invidia a tutti, perché non mi lasciava uscire a dirle a nessuno, solo a lui. Qui ci sono tante persone con cui parlare, ma nessuna mi ascolta e neanche io so bene cosa dire. Forse non sono più la persona che ero, per questo mi sono dimenticata tutto.
Mamma però non l’ho mai dimenticata, ricordo quella linea in mezzo alla faccia che dimostrava la sua simmetria perfetta, quella linea che le ho fatto io ed era così contenta che è rimasta senza parole, a bocca aperta come la ragazza che non sorrideva mai. Viene a trovarmi di notte, quando ascolto i rumori attorno e immagino siano le porte che sbattono per aprirsi e lasciarci libere di volare fuori, scivolando fra le maglie delle sbarre alle finestre, tanto lucide grazie a me che ci si può quasi specchiare.
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Furore, colpevolmente letto per la prima volta solo il mese scorso, è uno di quei romanzi di cui si può dire che è sempre attuale. L’epopea della famiglia Joad, scacciata dai campi dell’Oklahoma coltivati per generazioni e in cerca di un futuro più luminoso in California, risuona di tutte le migrazioni avvenute nella storia ed è ancora più attuale oggi, in un mondo in cui le logiche spersonalizzanti dell’economia sono diventate la norma rispetto a quanto già stava succedendo negli anni trenta descritti da John Steinbeck (che per la stesura, avvenuta in soli cinque mesi, prese spunto da sette articoli sul tema scritti per il The San Francisco News). Nella prefazione della nuova edizione Bompiani, a cura di Luigi Sampietro, si indica che i temi sollevati da Steinbeck in Furore – il dolore, la morte, la colpa, il riscatto e la ricerca del paradiso perduto – sono temi eterni, ma rispetto all’ottimismo che nei capitoli che allargano lo sguardo fa sembrare imminente, agli occhi dell’autore, una rivoluzione che metta le cose al suo posto, sono i temi sociali quelli che rimangono ancora caldi e a cui non si è trovata una soluzione. Per puro caso mi sono ritrovato a leggere, prima del capolavoro che valse a Steinbeck sia il National Book Prize che il Premio Pulitzer, un saggio di Andrea Staid intitolato Abitare illegale – Etnografia del vivere ai margini in Occidente, pubblicato nel 2017 all’interno della collana Frontiere di Milieu Edizioni: Staid, docente di Antropologia culturale e Teoria e metodo dei mass media presso la Naba di Milano, cita nel suo libro proprio gli articoli scritti da Steinbeck (pubblicati da Einaudi sotto il titolo I nomadi), ma i rimandi fra i due libri scorrono in tutte le pagine e in tutte le sezioni in cui questo è suddiviso. Ecco quindi che le problematiche che la famiglia Joad si trova ad affrontare si riverberano in quelle di chi, nel mondo occidentale abituato ormai a un solo modo di abitare gli spazi, cerca alternative sia all’interno delle metropoli cha al di fuori di esse.
Campi lasciati incolti e case lasciate abbandonate
E un senzatetto affamato, ramingo su una carretta con la moglie accanto e i figli sul sedile posteriore, vedendo intorno a sé i campi abbandonati perché in grado di produrre cibo ma non profitto, sentiva che un terreno incolto è un sacrilegio, e un campo abbandonato è un’offesa per i bambini denutriti.
John Steinbeck, Furore
Arrivati nell’Ovest dopo numerose peripezie, attratti dalle possibilità di lavoro pubblicizzate dai volantini sparsi a migliaia per i campi desolati dell’Oklahoma, i membri della famiglia Joad scoprono una realtà ben diversa da quella loro prospettata: la California sembra effettivamente l’Eden, a prima vista, ma ci sono campi che potrebbero essere coltivati che vengono lasciati incolti per logiche di mercato decise dai padroni, mentre la gente che potrebbe sfamarsi anche solo prendendosi cura di una piccola porzione di quei terreni è costretta a patire la fame. C’è chi, spinto dalle privazioni, cerca di nascosto di occupare il suolo dei padroni, ma i controlli sono serrati e a nessuno è concesso violare le regole: la gente continua a morire di fame, i padroni continuano a ingrassare e la rabbia delle vittime monta silenziosa.
Leggendo le testimonianze raccolte da Staid nel suo libro non è difficile paragonare le logiche dei campi incolti nella California degli anni trenta con quelle che regolano l’urbanistica delle grandi città occidentali. Nel terzo capitolo, Case occupate tra movimento politico e necessità, l’autore fa un’analisi accurata dei movimenti di occupazione degli edifici in tutta Europa, focalizzandosi soprattutto su metodi e modi di organizzarsi a Barcellona e a Milano. Leggendo uno dei comunicati del Comitato degli occupanti del quartiere San Siro del capoluogo lombardo è facile rendersi conto delle similitudini:
Abbiamo denunciato la vergogna delle migliaia di alloggi popolari lasciati vuoti nonostante le 20000 famiglie in attesa di casa, alloggi riscaldati, ma chiusi da una lastra di ferro perché in attesa di vendita, o di un restauro che non arriverà mai perché i dirigenti di Aler si sono spartiti tutti i soldi. Abbiamo ottenuto dopo molte mobilitazioni una sanatoria degli occupanti per necessità, che dopo pochi mesi si è però arenata nel dimenticatoio di Palazzo Marino. Abbiamo riqualificato gli angoli più lugubri e squallidi del quartiere, dipingendo i muri, piantando orti e alberi, portandoci musica, feste e momenti di socialità. (…) Abbiamo organizzato decine e decine di attività culturali come presentazioni di libri, proiezioni di film sui palazzi, concerti rap e di musica classica, tornei e sport, attività per bambini in un quartiere in cui i servizi in questo senso sono poco o niente. Ci siamo autorganizzati per sopperire alle difficoltà della crisi, costruendo un mercatino dello scambio e attivando meccanismi di mutuo soccorso per cui oltre ai beni materiali scambiamo anche competenze e aiuto reciproco. Abbiamo sottratto spazio alla speculazione di Aler e grossi privati occupando case che vengono lasciate per anni e anni in abbandono per soddisfare il bisogno abitativo di decine di famiglie, giovani, precari che si trovavano senza casa. Abbiamo sperimentato in pieno l’immeticciamento tra culture, con dei mix culinari esplosivi, condividendo canti, balli, tradizioni e inventandone di nuove a partire dall’incontro, combattendo il razzismo, il meccanismo di guerra tra poveri e lo stigma del quartiere ghetto.
Comitato degli occupanti zona San Siro, Milano, in Abitare illegale
Staid mostra una realtà sfaccettata in cui non tutti seguono le stesse regole, soprattutto analizzando le differenze fra i movimenti italiani (Roma è la città con più case occupate in tutta Europa) e quelli nel resto del continente. Limitandosi a Milano emergono situazioni come quella già accennata del quartiere San Siro, dove il mutuo aiuto fra gli abitanti ha portato nel 2013 a sottrarre alla rendita e alla speculazione, dopo decenni di abbandono, un enorme spazio diventato lo Spazio del Mutuo Soccorso, che soprattutto in tempi di pandemia è stato fondamentale per aiutare tutti coloro che si trovavano in difficoltà grazie a mercati solidali e staffette di quartiere per portare cibo ai bisognosi (per saperne di più, se siete di Milano e magari come me abitate nella zona, potete andare sul sito del Centro Sociale Cantiere per dare un’occhiata alle varie iniziative in corso).
Il giardino dello Spazio di Mutuo Soccorso a Milano
Spostandosi sui Navigli invece fa specie pensare che questa zona, oggi simbolo della movida, negli anni settanta era in pieno degrado: i padroni delle case preferivano lasciare vuoti gli stabili, abbandonandoli alla rovina per poi costruire successivamente edifici di lusso o addossando sui pochi inquilini che non volevano andarsene, tramite le vendite frazionate, i costi delle ristrutturazioni. A causa dell’impossibilità di trovare affitti a prezzi ragionevoli dilagò così un movimento di occupazione degli edifici abbandonati, gestito da un gruppo anarchico che nel settembre del 1976 occupò uno stabile intero in Via Torricelli 19, creando di fatto il Comitato Casa e Territorio (oggi Comitato di Lotta Casa Territorio, sito nello Spazio Comune CuoreInGola in Via Emilio Gola). Rivendicando il diritto ad avere una casa senza essere sfruttati, agli inizi degli anni ottanta il movimento denunciò il continuo aumento degli affitti e il modo in cui, come un out out, gli inquilini venivano messi di fronte all’alternativa fra comprare una casa con problemi strutturali di cui i proprietari non si erano mai occupati o essere sfrattati.
Ma cosa significava, e significa ancora oggi, comprare una casa? Se la casa è vecchia significa regalare i propri risparmi a proprietari che non hanno mai fatto nulla per risistemarla e si sono arricchiti passivamente speculando sulla loro proprietà, una volta comperata la casa ci si troverà con spese altissime per rimettere a posto la struttura degli stabili, più le tasse per la proprietà e per l’immobile.
Se invece la casa è nuova i prezzi sono proibitivi, costringono a indebitarsi con mutui costosissimi per tutta la vita. Comperare una casa, per chi non ha una buona capacità economica rappresenta una pesante ipoteca sul proprio futuro.
Tutti questi problemi si pongono perché nella nostra società la casa, come quasi tutto, è una merce e non un servizio sociale, non è un diritto ma un privilegio.
Andrea Staid, Abitare illegale
Staid in questo capitolo ha raccolto molte testimonianze di singoli occupanti, mostrando nel dettaglio cosa vuol dire abitare illegalmente in una metropoli: c’è chi si trova a farlo per necessità e chi anche per una scelta politica, vengono fuori le difficoltà di dover convivere in spazi da cui potrebbero essere sfrattati da un momento all’altro e le logiche di mutuo aiuto che si creano anche con i vicini non occupanti, possibili grazie a un rispetto per la proprietà in cui si abita che è il primo e indispensabile passaggio per ottenere la legittimità della propria rivendicazione. Rispetto alla visione mediaticamente proposta dell’occupante abusivo come di un delinquente emerge quindi un quadro molto più complicato, in cui la speculazione è un fattore che non viene mai preso in considerazione e le logiche di mutuo soccorso vengono nascoste sotto il tappeto. Vivere altrimenti in città, magari autocostruendosi la propria casa, è quasi impossibile (anche se all’interno del libro è molto interessante il capitolo dedicato alla comunità Rom e Sinti, particolarmente nell’analisi che si fa del Villaggio Le Rose di Milano): diversa, anche se comunque complicata, la situazione al di fuori delle metropoli.
Villaggi solidali e case autocostruite
“…Uno di quei vicesceriffi m’ha fatto capire tutto. Se ne stava seduto lì e fa: ‘Quei maledetti campi del governo,’ fa. ‘ Se a quella gente uno gli dà l’acqua calda, poi finisce che tutti quanti vogliono l’acqua calda. Se uno gli dà i gabinetti colla catena, finisce che tutti quanti vogliono i gabinetti colla catena’. E poi fa: ‘Se a quei maledetti Okie gli dai quella roba, finisce che la vogliono tutti’. E poi fa: ‘I campi del governo sono pieni di rossi. Tutti lì a cercare di farsi dare il sussidio’.”
“…È per questo che odiano il nostro campo. Qui gli sbirri non ci possono entrare. Qui siamo negli Stati Uniti, non in California.”
John Steinbeck, Furore
Poco dopo essere arrivati in California i Joad vengono accolti nel campo di Weedpatch, un campo statale per rifugiati gestito autonomamente da un comitato centrale, che si occupa tanto dell’organizzazione interna quanto della sicurezza: la polizia, che per tutta la California fa il bello e il cattivo tempo bistrattando coloro che sono stati costretti a emigrare, lì non può entrare. Quella situazione idilliaca, da cui la famiglia sarà costretta a uscire per andare a cercare lavoro altrove, mi ha ricordato in parte le comunità analizzate da Staid nel quarto capitolo, Comuni, Wagenplatz ed ecovillaggi, con la differenza che queste ultime riescono in molti casi anche a sostenersi economicamente da sé.
Innanzitutto Urupia è una comune, una grande casa, tanta campagna, un luogo sperduto in fondo alla penisola abitato da persone che vivono, o cercano di vivere, secondo alcuni principi che loro stesse chiamano libertà. Urupia però è anche un progetto, un insieme di relazioni, una storia, un fiume di idee, di attività, di risorse, alimentato da tantissime altre persone che a Urupia non vivono, ma che in quel progetto credono, e sono innamorate delle stesse idee che anche loro chiamano libertà. Quando è nata Urupia, venti anni fa, voleva essere un luogo fisico in cui sperimentare pratiche di vita e di relazione che escludessero qualsiasi forma di gerarchia e di sfruttamento e che favorissero il più possibile il libero sviluppo delle scelte e dei desideri degli individui. (…) A Urupia da più di sedici anni non esiste la proprietà privata: le comunarde collettivizzano tutto. (…) Urupia non è più e in fondo non lo è mai stato solo un luogo fisico con i suoi abitanti, con il loro lavoro, con le loro feste, con le loro assemblee. (…) Urupia appartiene a una grande tribù.
Agostino Manni, comunarda di Urupia, tratto dal libro Urupia di Giuseppe Aiello in Abitare illegale
Quello di Urupia (dove gli abitanti hanno compiuto la scelta politica di declinare al femminile per definirsi, anche se all’interno abitano sia donne che uomini) è solo uno dei vari casi che Staid ha studiato per descrivere la realtà dell’organizzazione in comunità ed ecovillaggi per provare ad abitare il territorio in maniera differente. Simili esperimenti sono presenti su tutto il territorio, dal popolo degli Elfi tra le montagne pistoiesi, che ha occupato case abbandonate appartenute a pastori e boscaioli creando una comunità che sopravvive con logiche di mutuo scambio dei prodotti coltivati e raccolti in antitesi alla società capitalistica, a comunità come quella di Agognate nel novarese (che, pur abitando per quasi quarant’anni in provincia di Novara, non conoscevo), una fraternità domenicana dove frati e laici hanno ristrutturato un comprensorio di edifici creando un luogo in cui trovano accoglienza disoccupati, ex detenuti, donne e uomini con problemi di dipendenza e in generale chi ha bisogno di aiuto.
Dettaglio del Wagenburg di LohmühlenstraᏰe
Tutte queste comunità, che si autosostentino o meno, rappresentano il tentativo di vivere in maniera diversa, condivisa, perlopiù al di fuori delle logiche capitalistiche e di imposizioni logistiche e formali. A Tepee Land, agglomerato abusivo di tende all’interno del quartiere Kreuzberg di Berlino, si rivendica il diritto di vivere come si vuole e non per forza all’interno di quattro mura, utilizzando uno spazio abbandonato in cui è stato ricavato anche un piccolo palco per organizzare feste e creare momenti di convivialità, mentre il Wagenburg di LohmühlenstraᏰe, installatosi con furgoni, camion, camper, carrozzoni, vagoni di treni e case autocostruite ai margini del parco Schlesischer Busch sempre a Berlino, è riuscito addirittura a rivalutare il territorio, creando di fatto un’oasi ecologica nel cuore della città che organizza anche concerti di musica elettronica alimentate a energia solare, dimostrando in maniera ingegnosa come si possa essere a impatto zero pur partendo da una base d’illegalità ormai ampiamente accettata (tanto che, a causa di una legge ancora in vigore dai tempi del nazionalsocialismo, vivere nei carrozzoni è vietato ma i cittadini del Wagenburg hanno addirittura il numero civico).
Questa voglia di autogestire la propria vita assume un ulteriore valenza nel momento in cui, laddove è possibile almeno teoricamente farlo, si voglia costruire la propria casa senza dover dipendere da una ditta a cui appaltare il lavoro, un aspetto su cui Staid si focalizza nel capitolo Autocostruire per autocostruirsi.
La casa moderna ha spezzato i tessuti urbani, ha un aspetto razionalizzante che costringe le persone a una certa modalità di vita. la casa è uno degli aspetti del progresso senza fine, un bene tecnologico che viene posto come uno dei simboli del progresso in contrapposizione alla casa primitiva; quest’ultima viene disprezzata come casa che viene prodotta da un nucleo sociale e da una sapienza tecnica molto limitati, che non sanno adattarsi alla vita moderna, una valutazione miope e superficiale estremamente utile per fare affari e speculazioni immobiliari.
Andrea Staid, Abitare illegale
Al di là della legittima ambizione di ognuno a crearsi da sé la casa dei propri sogni ci sono casi in cui questo è un bisogno di primaria importanza. Staid analizza infatti anche il caso dei terremotati, costretti a vivere in container per poi ricevere, come nel caso del terremoto di L’Aquila nel 2009 gestito dal duo Bertolaso-Berlusconi, case costruite senza consultare coloro che le abiteranno, effettivamente anti-sismiche ma dal consumo energetico altissimo e tutt’altro che ecologiche. Proprio in netta opposizione con questo modo di gestire le cose alcuni abitanti del comune di Pescomaggiore costruirono sette case di paglia poco fuori dal loro comune, e in maniera analoga agirono alcuni abitanti della bassa emiliana dopo il sisma del 2012: in maniera ecologica e veloce, oltre che gestita secondo le proprie priorità, queste persone sono riuscite a ottenere case confortevoli, rispettose dei criteri antisismici e a prezzi accessibili, dimostrando che un modo diverso di concepire l’abitare è possibile e andrebbe incentivato.
Hooverville e baraccopoli, nomi diversi per la stessa emarginazione
Erano affamati, ed erano agguerriti. Avevano sperato di trovare un focolare, e trovarono solo odio. Okie: i proprietari li odiavano, perché i proprietari si sapevano fiacchi mentre gli Okie erano forti, si sapevano sazi mentre gli Okie erano affamati; e forse i proprietari avevano saputo dai loro nonni quanto sia facile rubare la terra a un uomo fiacco quando sei agguerrito e affamato e armato. I proprietari li odiavano. Nelle città i bottegai li odiavano perché non avevano denaro da spendere: non esiste strada più breve per ottenere il disprezzo di un bottegaio, e il suo rispetto segue il percorso opposto. Nelle città i piccoli banchieri odiavano gli Okie perché con loro non c’era niente da spremere: non possedevano niente. E i braccianti odiavano gli Okie perché un uomo affamato deve lavorare, e se deve lavorare, se è costretto a lavorare, chi lo ingaggia gli dà automaticamente una paga più bassa per il suo lavoro, e a quel punto nessuno riesce a spuntare una paga più alta.
John Steinbeck, Furore
Il sogno californiano della famiglia Joad va in pezzi quando si accorgono che da quelle parti tutto è gestito secondo le stesse logiche che li ha costretti ad andarsene dall’Oklahoma: il mercato impera, è lui che fa i prezzi e gli ultimi anelli della catena devono litigare per lavori umilianti a paghe sempre più basse, magari dimezzate dalla sera alla mattina subito dopo aver soffocato una protesta sindacale. I piccoli agricoltori sono costretti ad adeguarsi, vessati dal comitato centrale in cui i grandi proprietari, che posseggono anche i conservifici, decidono i prezzi e possono rifarsi delle perdite sulla frutta rivendendola a sé stessi per farne conserve. Nei campi frutta e ortaggi vanno al macero piuttosto che darla a chi ne ha bisogno, perché una persona che mangia gratis non avrà più bisogno di lavorare e la fame crea forza lavoro a buon mercato.
Se avete già sentito parlare di dinamiche simili è perché sotto gli occhi abbiamo la realtà delle piantagioni di pomodori in Puglia. Nell’ultimo capitolo del suo libro, Slum e baraccopoli, Staid si focalizza proprio su questa situazione, citando più volte proprio lo stesso Steinbeck in un parallelo evidente a chiunque. Passando brevemente in rassegna luoghi come la Jungle di Calais e il Presidio Permanente No-Borders di Ventimiglia Staid passa poi a raccontare i ghetti foggiani in cui trovano sistemazione i braccianti agricoli, grazie all’importante testimonianza del volontario Dante Prato che presta aiuto per un breve periodo dell’anno nel ghetto di Rignano Garganico in provincia di Foggia, dove è stato creato il progetto sociale Radio Ghetto.
La vita nel campo è scandita dai tempi di lavoro. Ci si sveglia presto, alle 4 del mattino il ghetto è già vivo, la strada all’ingresso si affolla di braccianti che cercano un impiego giornaliero. I più fortunati trovano posto sui furgoni (euro 5 a passaggio), ma sono sempre più quelli che restano senza. La tendenza è in aumento, soprattutto negli ultimi anni. Più migranti della richiesta di lavoro. Le condizioni di lavoro sono arcinote. Si lavora a cottimo: 3,5 euro per ogni cassone (300 kg) di pomodori raccolti. Ogni giorno in media un migrante riesce a riempire 10-12 cassoni, circa uno all’ora. Dieci ore di lavoro pesantissimo per 35 euro a cui ovviamente dobbiamo sottrarre i 5 euro per il passaggio. Una miseria, che nel ghetto viene risucchiata dalle altre spese e dalle botteghe. Il cibo, gli indumenti, i generi di prima necessità si continuano a comprare dai capi.
Testimonianza da alcuni articoli per Redattore sociale di Giulia Bondi in Abitare illegale
Alla stessa maniera della famiglia Joad, frutto d’invenzione ma basata sul dramma di persone reali, i migranti che abitano nei ghetti foggiani sono costretti a confrontarsi con un lavoro che non solo non li nobilita, ma li lascia anche senza possibilità di riscatto sociale, costretti a vivere stabilmente in una situazione precaria in cui alla prima pioggia devono rifare da capo il proprio giaciglio. Lo stato, che con grandi proclami dichiara guerra al caporalato, è perlopiù inesistente nei fatti: la beffa nel 2016 è stata quella di vedere approvato in regione un piano da 5 milioni di euro per smobilitare i ghetti attraverso l’utilizzo per i migranti di strutture e suoli pubblici nei comuni limitrofi, tutto vanificato dal mancato finanziamento del Ministero dell’Interno che ha causato, come effetto collaterale, l’impossibilità per Emergency di svolgere il consueto lavoro medico a causa del taglio dei fondi operato dalla regione, questo sì diventato concreto ben prima di essere sicuri che la “bonifica” sarebbe stata effettivamente realizzata.
Ghetto di Rignano Garganico
Qui l’abitare illegale dipinto da Staid abbandona la scelta, per quanto spesso dolorosa come nel caso degli occupanti abusivi, per abbracciare unicamente la necessità: i migranti non hanno altre opportunità, sono costretti a fare buon viso a cattivo gioco e non possono nemmeno permettersi di denunciare i soprusi che non siano già di dominio globale.
L’opinione comune è: il ghetto è una merda ma a me serve lavorare e non voglio che venga sgomberato. Si può parlare delle condizioni di lavoro e dello sfruttamento perché ormai sono cose note e anche accettate, ma non si può parlare di un omicidio.
Dante Prato, ricercatore, attivista e volontario a Radio Ghetto in Abitare illegale
Ciò che emerge dai due libri, in definitiva, è un’accusa al modo in cui la società occidentale si consolida in strutture e dinamiche sempre più atomizzanti in cui la socialità è sotto attacco, sia quella nel proprio quartiere che quella più ampia verso il diverso. Abitare in modo diverso, secondo Staid, è anche un modo di vivere la propria comunità in modo diverso: il suo saggio è una lettura importante proprio per aprire gli occhi su regole e storture cui abbiamo fatto il callo da tempo, tanto da convincerci che le cose non possano andare diversamente.
Nell’anima degli affamati i semi del furore sono diventati acini, e gli acini grappoli ormai pronti per la vendemmia.
John Steinbeck, Furore
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Per un po’ di anni l’estate per me è iniziata in primavera, precisamente verso fine maggio. Era il periodo in cui si svolgeva il MiAmi, il festival musicale organizzato da Rockit che metteva insieme al Circolo Magnolia di Milano il meglio (ma pure il peggio, tipo Tommaso Paradiso che canta Bollicine di Vasco Rossi o Luca Carboni che era indipendente prima di voi) della musica indipendente italiana. I gusti sono gusti, come disse il gatto leccandosi il culo (questa l’ho rubata a un amico), e io ho sinceramente preferito le vecchie edizioni a quelle invase dall’indie-popanni80 di questi ultimi anni, ma la possibilità di ascoltare delle band sdraiato sulla collinetta, iniziando dal tardo pomeriggio e arrivando fino a notte fonda, era un’esperienza meravigliosa che, si spera, torni presto NEL PIENO RISPETTO DELLA NOSTRA VOGLIA DI VEDERCI UN CAZZO DI LIVE.
Ricordo con particolare affetto l’edizione 2013, perché al venerdì (che bello prendersi il pomeriggio libero e fiondarsi su a Milano…ok la smetto) c’era una fantastica concentrazione di band che facevano un sacco di rumore: attaccarono sul palco principale Gli ebrei e gli ZEUS!, poi fu la volta dei Gazebo Penguins sul palco in collinetta, seguiti a ruota da una band di cui sentivo il nome da anni ma di cui avevo ascoltato pochissimo: erano i Bachi da Pietra, resident band della settimana qui, sul palco virtuale di Tremila battute.
L’impressione che ebbi guardando Giovanni Succi (che di qui è già passato) e Bruno Dorella (Ronin, OvO, batterista sul primo album dei miei amatissimi e scrausissimi Wolfango e creatore di Bar La Muerte, storica etichetta che lanciò anche il mio compaesano Bugo) sul palco del MiAmi fu quella di un gruppo violento, una violenza primordiale che non guarda in faccia a nessuno. Per le mie orecchie ai tempi era passato solo il loro quinto disco Quintale (che contiene, fra le altre, una traccia geniale sul tema della pirateria), un album in cui le distorsioni si facevano strada in modo possente, ma gli inizi per il duo erano stati ben diversi, anche se legati da un filo conduttore di oscurità. Formatisi nel 2004, il loro primo disco arriva l’anno dopo: registrato nella cripta della chiesa di Sant’Ippolito a Nizza Monferrato, Tornare nella terra è blues minimale allo stato puro, tutto atmosfera con una batteria scarnificata, accordi di chitarra taglienti e la voce sulfurea di Succi a condire il tutto, un viaggio ipnotico e claustrofobico in cui la luce non filtra neanche per sbaglio. Con Non io (2007) e Tarlo terzo (2008), editi tutti dalla benemerita Wallace Records che produrrà la maggior parte dei loro lavori, i Bachi da Pietra consolidano il loro suono, comunque in continua evoluzione: lo dimostra lo sperimentale disco live Insect tracks (2010), metà con pubblico e metà senza, in cui eseguono alcuni loro vecchi brani rielaborati e due inediti, il tutto registrato da Francesco Donadello dei Giardini di Mirò con mezzi tecnologici monofonici degli anni cinquanta (potete godervi il risultato qui). Nello stesso anno arriva il quarto disco, Quarzo, seguito da uno split coi Massimo Volume in cui le due band si coverizzano un brano a testa e piazzano un inedito, che nel caso di Succi e Dorella rappresenta l’introduzione migliore alle distorsioni molto più incisive che si troveranno in Quintale, uscito nel 2013 per La Tempesta. Due anni e altrettanti Ep dopo (Festivalbug e Habemus Baco, quest’ultimo realizzato per il decennale della band) esce Necroide, deriva metal fieramente rimarcata fin dal brano che apre il disco, Black metal il mio folk: Succi sfodera growl possenti e i Bachi dimostrano di sapersi reinventare pur non perdendo niente di quell’energia sotterranea e ancestrale che tanto mi ha colpito dal vivo ormai otto anni fa. Impegnati nei rispettivi progetti per un certo periodo, finalmente i Bachi da Pietra stanno per regalarci un nuovo album: il 7 maggio uscirà per Garrincha DischiReset, anticipato dalle canzoni Comincia adesso e Meriterete, e chissà quale nuova svolta porterà nel discorso musicale portato avanti dai due bachi che, per l’occasione, si trasformano in trio con l’ingresso di Marcello Balatelli (Il Teatro degli Orrori, Non Voglio che Clara).
Avendo la fortuna di seguire Giovanni Succi sul suo canale Patreon Fuori di Testo ho potuto ammirare con quale cura e amore tratta la poesia, sia essa quella di Sanguineti, di Leopardi e o di un (ingiustamente) meno conosciuto Simone Cattaneo. Non poteva che essere allora Brutti versi, seconda traccia di Quintale, a ispirarmi il racconto di questa settimana: invettiva contro un sedicente poeta che con dei soldi prestati ha messo su carta versi che ora “restano e fanno male”, il brano mi ha ispirato un breve flusso di coscienza in cui non mancano la rabbia e qualche piccola stoccata al mondo dell’editoria a pagamento (che sì, pare che pure Tomasi di Lampedusa si sia finanziato da solo Il gattopardo, ma è anche vero che una persona pare sia risorta dalla morte e non per questo mi ammazzo sperando nel colpaccio). Trovate il racconto subito dopo il brano, as usual: a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).
Debiti di versi
Me le tira fuori dall’anima di dio o chi per lui le parole che mi tocca dirgli, a sentirlo lamentarsi ancora di quanti soldi gli escono e di quelli che non gli entrano quando è lì che s’ingozza con la sesta birra e di ridarmi quelli che mi deve gliene fotte una minchia, li avesse usati almeno per un motivo uno che sia valido invece di sbatterli in quel libretto che non vale una sega, tutti lì ce li ha buttati e ce l’ho sulla punta della lingua di dirglielo che bel lavoro di merda ha fatto ma butto giù un sorso e mi trattengo, faccio il bravo che se no qua finisce a botte ma lui no, giù ancora a dire che almeno lo capisse il mondo dell’arte e invece un disastro anche lì perché, e lo dice con quel tono da saperne solo lui, il mondo dell’arte è una MERDA e lui è un INCOMPRESO e lì davvero non ci vedo più, perché cazzo va bene tutto ma se il libretto te l’ha pubblicato solo uno che t’ha stipato in casa metà delle copie a prezzo pieno due domande fattele, magari sul perché quei quattro versi non te li ha presi qualcuno che ci CREDE ma solo qualcuno che t’ha voluto INCULARE I SOLDI e ha fatto pure bene, fesso come sei e fesso due volte io che te li ho prestati, ma se sapevo che era per pubblicare quella MERDA io mai l’avrei fatto in nome di dio o chi per lui, che te ne darei il doppio adesso sull’unghia per non farne più, perché fanno davvero CAGARE AL CAZZO e facevi meglio a spenderli per comprarne di scritti da altri e meglio di così, che non ci vuole poi molto, e invece c’hai avuto pure il coraggio di chiedermene un po’ pure per una copia del libretto oltre a bermeli in faccia adesso mentre ti lamenti come se io non c’avessi di meglio da fare nella vita che ascoltarti, e già lo so che a tirargli ‘sta menata finiremo a fare a botte ma quando ci vuole ci vuole e tanto andrà come tutte le altre volte, non ci parleremo per un po’, poi ci ritroveremo davanti a una birra o una boccia di vino e faremo come se niente fosse raccontandoci ancora le nostre sfighe, più le sue che le mie, con fra di noi sempre la questione di quei soldi che mi deve e di quei quattro versi, che rimarranno anche quando noi non avremo più bocca per bere o insultarci e lo danni dio o chi per lui per questo.
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Stefano Giovannardi è un nome forse poco noto nel mondo della musica, ma è uno che la bazzica da un sacco di tempo. Attivo con alcune band elettroniche fin dagli anni 90 (Elettro e Psychophonic Nurse), co-produttore del brano Saziaminel disco Buona sopravvivenza degli ZiDima (di cui su Tremila battute si è già ampiamenteparlato), Giovannardi ha mantenuto negli anni un forte legame con alcuni ex membri dei La Crus, tanto da produrre l’album Canzoni perse di Cesare Malfatti e prendere parte al progetto collettivo La produzione della poesia con altri mezzi di Alex Cremonesi, uscito nel 2019 per Riff Records. Proprio questa etichetta licenzia il nuovo album del suo progetto più recente, Structure, un moniker con cui Giovannardi esplora il variegato universo della musica elettronica.
XX, uscito il 5 marzo 2021, è il frutto di un lavoro collettivo con dieci artiste (il titolo non per niente richiama le due copie del cromosoma X che determinano il genere femminile), ognuna delle quali ha prestato voce e idee a ciascuno dei brani che compongono l’album. Il disco risente fortemente di un’idea musicale affine al trip-hop, ma proprio l’apporto delle diverse vocalist gli permette di muovere verso sfumature diverse.
Cantato sia in italiano che in inglese, XX è un album in cui più che sulla dicotomia maschile/femminile viene da focalizzarsi sul rapporto fra armonia e ritmo. Le basi create da Giovannardi infatti si fanno più ampie e atmosferiche in alcuni brani, dove l’estro delle artiste coinvolte si fa preponderante, mentre in altri sono le vocalist ad adattarsi al pattern ritmico. Marte, quinto brano del disco, è il caso più emblematico del primo approccio: Maria Devigli impone la sua voce e la sua vena melodica, dando alla canzone un mood solare e ibridando la vena elettronica con quella narrativa in maniera naturale. Similmente Francesca Bono, storica vocalist degli Ofeliadorme, riesce a trasmettere un senso etereo al singolo White peacock, coadiuvata nell’impresa dall’apporto del piano, mentre Chiara Castello, forte dell’esperienza nei 2Pigeons (recuperate in qualsiasi maniera Retronica, il loro primo e purtroppo unico disco), fa totalmente sua Everything comes & everything goes, fra doppie voci e vocalizzi che espandono enormemente il potenziale della base minimale che la accompagna.
All’estremo opposto stanno i brani Negotiation e NPV, cantati rispettivamente da Barbara Cavaleri e Francesca Palamidessi, in cui sono le voci a piegarsi al ritmo e seguendolo piuttosto fedelmente: è proprio in questi momenti che l’album presta però il fianco, stancando alla lunga con la ripetizione di pattern che rimangono oscuri e minimali per tutta la durata dei brani. XX funziona nei momenti in cui l’interazione fra le armonie vocali e i beat elettronici creano mondi diversi che si incontrano a metà strada, un risultato a cui si avvicinano Verdiana Raw nelle atmosfere dilatate di Phosphorus, in cui il peccato veniale è quello di autolimitarsi all’accompagnamento invece di osare di più, e Silvia Caracristi in Lasciami la mano, puntando come Devigli sull’impronta cantautorale ma non riuscendo a infondergli la stessa carica di personalità.
Esperimento interessante quello realizzato da Giovannardi e le sue muse e collaboratrici (oltre alle già citate sono presenti Laura Boccacciari, Manuela Pellegatta ed Ely Nancy Natali), ma riuscito solo a tratti. Voci e basi elettroniche trovano vari punti di contatto ma sono rari i momenti in cui il connubio crea qualcosa di unico, adattandosi per il resto in una via di mezzo che non delude ma nemmeno entusiasma: il risultato finale è minore del potenziale espresso dalle singole componenti, ma rincuora vedere così tanti talenti riuniti in un unico disco e lascia ben sperare per il futuro.
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