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Racconto in musica 12: Una promessa (Muschio – Burian)

Da un qualche anno ho avuto modo di appassionarmi alla musica strumentale, e su questo blog ho già pubblicato due racconti ispirati a gruppi di questo interessante sottobosco musicale. La presenza della sola musica in fondo rende facile vagare con la mente, immaginarsi storie di cui la canzone può fungere da ideale colonna sonora. Mai come in questo caso è stato così.

I Muschio li ho scoperti dal vivo, in una data che dividevano con quell’altra grande band che sono i Valerian Swing, ed è stato amore al primo ascolto. Due chitarre e batteria, un suono potente e psichedelico, nella loro carriera hanno pubblicato due album (Antenauts del 2013 e Zeda del 2016). Ho avuto la fortuna di suonare in apertura ad un loro live, intervistarli e, in generale, seguirli per tutti questi anni: quando una loro canzone mi ha lasciato intravedere le basi per un racconto è stato quindi un piacere seguire la corrente.

Burian è il quinto brano di Zeda, una canzone dal ritmo incalzante che, complice la splendida cover del disco (di Luca Solomacello), mi ha subito fatto pensare a una storia dalle tinte horror. Mi sono divertito a giocare con il ritmo, orchestrando gli avvenimenti in base alle pause e ripartenze della musica: il risultato lo trovate qui sotto, subito dopo il brano. Buon ascolto, e buona lettura.

Una promessa

Non gli ho mai creduto quando diceva che non ci sarebbe successo niente, che isolati non significava in pericolo. Ho vissuto sempre all’erta.

Lo schianto della porta non mi coglie impreparata, i muscoli sono già tesi per lo scatto che mi porta in cucina mentre l’ingresso viene invaso dal vento e dal gelo della notte, corro di stanza in stanza sbattendo porte che si schiantano alle mie spalle mentre l’invasore avanza, inesorabile, finché non sposto la cassapanca dello studio a bloccargli la strada.

L’impatto è forte, ma la barricata regge. Ero preparata, sapevo dove sarei dovuta andare per riprendere fiato. L’invasore batte forte contro il legno, il vento fuori impazza, ma da qui posso raggiungere le scale. Rido di quella presenza che vuole ghermirmi, delle false promesse di sicurezza. Ora sono la preda, ma sono tutt’altro che inerme.

Forti colpi tempestano la porta. Le fronde degli alberi si agitano impazzite.

Scatto appena prima che il legno si deformi, che la forma dell’invasore violi un altro angolo del mio rifugio, balzo alla volta del piano di sopra col buio che mi incalza, mi sfiora, ulula di collera per la mia audacia, quasi scivolo prima di raggiungere il pianoforte, le mani tremano mentre stringo il tassello che lo tiene in equilibrio e lo strappo con un urlo coperto dal fracasso degli scalini sfondati quando rotola giù, libero di investire il mio inseguitore.

Resto sul pianerottolo, il cuore in gola. Immobile osservo il buio che nasconde lo sfacelo, impossibilitata a tornare indietro. Troppo curiosa per andare avanti. Gli ultimi scricchiolii si placano, le note dolenti dei tasti sfondati cessano la loro melodia distorta. Il silenzio incombe su di me. Mi scuoto, avanzo con cautela lungo il corridoio. Ogni passo non calibrato è una possibile condanna. Salgo verso la soffitta, mi stendo sul pavimento a ritrarre la scaletta, scivolo verso un angolo fra bauli e libri impolverati. Le ombre dei rami sembrano dita protese verso di me.

Un refolo d’aria mi sussurra all’orecchio che non gli sfuggirò.

Le finestre vanno in frantumi, schegge di vetro mi si piantano nella carne, cercando gli occhi, correnti violente mi agitano i capelli strappandomi un urlo dalla bocca.

E la scala si stende, i passi avanzano, il buio si fa più denso man mano che l’invasore si avvicina, mi trova, ride di me e dei miei sforzi e mi tocca, lascivo, prima una guancia e poi l’altra, a cercare le lacrime che provo a trattenere con un ultimo sussulto d’orgoglio prima di cedere mentre la sua voce mi raggiunge dai recessi di tenebra che ne sono l’essenza.

«Ma che fai quassù? Ancora i tuoi incubi?»

Apro gli occhi sul suo sorriso paterno, lo guardo fra lacrime di pentimento. Aveva promesso che mi avrebbe difesa, anche da me stessa, portandomi dove non sarei più stata in pericolo. Non pensava che potessi essere io, il pericolo.

Guardo i suoi vestiti sporchi di terra, la sua pelle pallida, l’erbaccia fra i capelli. Aveva fatto una promessa, ora non potrò più impedirgli di mantenerla.

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Pubblicato da Ficky

Nel (poco) tempo libero scrivo racconti, guardo film e serie tv, leggo libri, recito in una compagnia teatrale, partecipo a eventi culturali e vado a vedere un sacco di concerti. Ho scritto per anni di musica (Indie-zone, Stordisco, Asapfanzine) e spero di trovare il tempo di farlo ancora per molti anni a venire.

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