
Quando inizio un libro devo arrivare fino alla fine. Per quanto la lettura possa essere pesante, noiosa e poco soddisfacente non riesco ad arrendermi all’evidenza che, semplicemente, quel libro non fa per me. Anni fa ripresi la lettura de L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon solo perché non volevo “dargliela vinta”. Risultato? Tre mesi a penare su quelle novecentosessantasei pagine, solo per poter dire che ce l’avevo fatta. Ma non so se ho davvero vinto io, o il mio bisogno ossessivo-compulsivo di completismo.
Per alcuni al mondo ci sono così tanti libri da leggere che è stupido incaponirsi su quelli che non ti danno soddisfazione, e comprendo il loro punto di vista, ma per me anche la fatica di entrare nella testa di quegli autori che non capisco è una (masochistica) soddisfazione. Passando a un altro media, e avvicinandomi al tema del titolo, pensare di guardare un film di Lynch con lo stesso livello di attenzione di un American Pie qualsiasi è inutile: non siete costretti a farlo, ma se lo state facendo è perché qualcosa vi spinge, una malsana curiosità verso quel “di più” che magari non capirete fino in fondo, ma è una porta verso nuovi modi di vedere le cose. E parla uno che adora Mulholland Drive e si è addormentato a più riprese con Inland Empire, quindi non un apostolo del regista di Twin Peaks.

Come ci sono tantissimi libri obbligatori da leggere ci sono anche tantissimi film e serie tv che sembrano imperdibili, ma in questi due ultimi casi c’è uno strumento che ci rende molto più facile e immediato il recupero, se non a scapito “solamente” del nostro tempo e del prezzo di un abbonamento mensile: i servizi on demand, tipo Netflix, Amazon Prime, Apple tv e chi più ne ha più ne metta.
Sono stato anche io drogato di binge watching. Lo sono ancora, ogni tanto, tipo che con la mia fidanzata stiamo recuperando a velocità record Mad Men prima che Netflix lo tolga dal suo catalogo. Abbiamo fatto tirate in tempi brevissimi di Game of Thrones, Bojack Horsemen e Better Call Saul, e sono sicuro che altre ne faremo, ma in tutta l’abbondanza di contenuti che mi viene sparata in faccia costantemente ho trovato modo anche di dire, a differenza dei libri, “io qui mi fermo”. L’ho fatto anche grazie agli influencer, o meglio nonostante loro.
Ho un profilo Instagram che uso pochissimo, ma chi è più avvezzo di me a questo social network avrà sicuramente sentito definire un sacco di cose “pazzesche”. L’ho sentito usare per tanti di quei contenuti di Netflix che ho cominciato a chiedermi quale fosse il limite fra product placement camuffato e spirito critico assente, al punto che a ogni nuovo consiglio ho cominciato a dire no, oltre questo episodio non vado.

La riflessione mi è scattata dopo essere caduto nell’inganno, per l’ennesima volta, con Unorthodox, miniserie tedesca basata molto liberamente sull’autobiografia di Deborah Feldman. Il tema alla base è controverso e interessante: l’esperienza di una donna che decide di abbandonare una comunità chassidica (ala dell’ebraismo ortodosso caratterizzata da regole piuttosto rigide, in particolare per le donne), perseguendo le sue aspirazioni e cercando di evitare il ritorno forzato all’interno della comunità. Critiche unanimemente positive, addirittura un documentario riguardante la lavorazione, eppure dopo il primo episodio rimango perplesso e mi dico “ci sarà sicuramente di più”. E invece no.
L’unico lato positivo di Unorthodox sta nel suo far vedere i lati negativi di una comunità ultra ortodossa senza cercare di demonizzare chi ne fa parte, cosa che sarebbe stata facile viste le ferree regole che vigono all’interno della comunità, ma dal punto di vista del racconto latitano troppe cose per giustificare quanto se ne parla bene. Tutto si risolve fondamentalmente in una favoletta in cui il realismo va a farsi benedire, tanto che infatti la vera storia della Feldman è molto diversa nella sua fase post-matrimonio: il modo in cui la protagonista Esty riesce a trovare nuovi amici, una sistemazione, la realizzazione dei suoi sogni e la libertà dalla comunità opprimente in cui è cresciuta è credibile solo se si ha una fiducia nell’umanità molto maggiore della mia, e io pensavo di essere messo bene da questo punto di vista. Aggiungiamo che gli eventi importanti nelle quattro puntate della miniserie sono davvero pochi, che il ritmo ne risente e che l’unico personaggio su cui avrei davvero voluto un approfondimento (Moishe, il cugino del marito Yanki incaricato di accompagnarlo a Berlino per riportare la fuggitiva a casa) viene lasciato monco di approfondimenti sul suo passato. Ho evitato accuratamente spoiler, ma se avete visto la serie e volete un parere approfondito sappiate che la penso più o meno come chi ha scritto questo articolo.

Ho visto tutto Unorthodox perché in fondo si trattava di sole quattro puntate, ma già da tempo ho imparato che non posso sospendere il mio giudizio per tutto ciò che viene propinato come fondamentale. Quando sento di persone che hanno mollato Breaking Bad a metà della prima stagione (l’unico vero punto di stasi della serie) mi scandalizzo, ma comincio a capirli, perché probabilmente anche loro hanno ricevuto troppe delusioni basate su aspettative gonfiate da chi trova tutto entusiasmante. Vale la pena fare lo sforzo, dare un’opportunità, ma anche il tempo ha un valore e lo spirito critico si forma anche rifiutando qualcosa nel momento in cui i “capolavori” diventano prodotti carini ma tutt’altro che epocali: per dire, bello Stranger Things, ho guardato le tre stagioni e guarderò anche la quarta, ma ce ne ricorderemo fra dieci anni?
I miei NO possono essere più o meno condivisibili. Ho detto addio a Messiah dopo una prima puntata promettente e tre episodi interlocutori che sembravano voler allungare il brodo per non giocarsi tutti gli assi nella manica subito (gli è andata male, la seconda stagione non si farà), difetto che a un certo punto ho temuto infettasse anche The Morning Show salvo ricredermi, per fortuna, dopo una breve impasse. Mi è spiaciuto non dare fiducia a Jason Bateman, ma dopo due episodi Ozark non aveva fatto niente per meritarsi il recupero di tre stagioni. Mi sono incaponito, da amante della fantascienza, su Altered Carbon per sette episodi prima di vedere inabissarsi le mie speranze su un’ambientazione interessante in un mare di luoghi comuni e colpi di scena telefonatissimi che la sprecano in maniera criminale. E sì, ho mollato anche il cult del momento, La casa di carta, dopo soli tre episodi: non so voi, ma personalmente vedere che il piano geniale del Professore va subito a monte perché non è riuscito a scegliere le persone giuste per farlo funzionare mi ha fatto sentire preso in giro, e non ho avuto voglia di scoprire quanto fosse geniale nel recuperare una situazione di merda causata dalla sua stupidità.
E voi? Cosa avete seguito, cosa avete lasciato, e perché? Fatemelo sapere, e già che ci siete spiegatemi anche il senso di Inland empire, se lo avete trovato.
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Una opinione su "Su Netflix, lo spirito critico e la nostra insopprimibile voglia di guardare tutto ciò che è “pazzesco!”"