C’è un momento molto significativo nel primo episodio della terza stagione di Master of None, serie creata dal comico statunitense Aziz Ansari. Denise (Lena Waithe), amica di lunga data del protagonista Dev (interpretato da Ansari stesso), sta cercando di avere un figlio con la moglie Alicia (Naomi Ackie), anche se sarebbe meglio dire che è Alicia a spingere per avere un figlio. Le due donne decidono di contattare un amico in comune, Darius (Anthony Welsh), per proporgli di donare loro il suo sperma: questi accetta, e in una bizzarra serata viene accolto dalla coppia in casa per il “prelievo”. Prima di lasciarlo solo con una bottiglia di vino, un po’ di cibo, una rosa e qualche candela per fare atmosfera Denise e Alicia fanno notare all’amico che sul tavolo, oltre al recipiente per lo sperma, c’è anche un tablet per visionare comodamente qualche film porno: è una scena strana, quasi surreale, perché si percepisce l’imbarazzo con cui le due donne cercano di mettere a suo agio Darius, non capendo esattamente cosa potrebbe metterlo a suo agio; allo stesso tempo anche il disagio di lui è palese, al centro di una situazione che probabilmente non aveva immaginato in quel modo.
Non è così normale vedere in una serie televisiva l’imbarazzo femminile di fronte all’incognita della sessualità maschile, perché la rappresentazione dell’uomo rispetto a qualunque cosa abbia a che fare con il sesso raramente viene mostrata in situazioni così intime. Aggiungiamoci che, di norma, nella vita reale è molto più facile trovare uomini che non si interessano della sessualità femminile, ma che sono prodighi di consigli rispetto a ciò che una donna dovrebbe fare col proprio corpo: qualcosa però sta cambiando, e se vogliamo usare un iperbole il Darius spaesato sul divano si fa simbolo di ogni uomo moderno, spaesato di fronte a un mondo in cui lo stereotipo del maschio Alpha sta finalmente diventando antiquato.

Sono tempi bizzarri, lo dice anche Ansari nel suo speciale del 2019 Right Now. Capace di mediare ottimamente tra humor e riflessione, il comico analizza la questione del politically correct, mostrandone le complessità e puntando il dito sia contro i bianchi, che si fanno portabandiera dell’inclusione come se il razzismo l’avessero scoperto loro, che contro sé stesso e le proprie battute, invecchiate male e molto velocemente. Sono tempi bizzarri, tanto bizzarri che Ansari, dopo aver inserito nella seconda stagione della sua serie un caso di molestie sessuali, si è trovato a sua volta nella stessa situazione nella vita reale: Master of None era già in stand-by fino a data da destinarsi, pausa necessaria per raccogliere le idee e capire come (e se) portare avanti le avventure di Dev, ma a maggior ragione vedere il seguito di una serie incentrata sulle relazioni del protagonista, con l’autore finito al centro delle cronache in pieno periodo Me Too, appariva sempre più difficile.
E invece, con ben poco preavviso, Netflix ha rilasciato cinque nuovi episodi: Moments in love, questo il sottotitolo di una stagione che appare come una sorta di spinoff incentrato su Denise (l’attrice Lena Waithe ha cofirmato tutte le puntate) e sulla sua relazione con la moglie Alicia. Ambientata qualche anno più in là rispetto alla seconda stagione, chiusasi senza dirimere tutti i dubbi sul futuro della relazione di Dev con la Francesca interpretata da Alessandra Mastronardi, la serie riprende le fila del discorso mostrandoci una Denise diventata famosa come scrittrice, installatasi con la moglie in una casa di campagna e impegnata nella stesura del secondo libro che, parafrasando Caparezza, è sempre il più difficile nella carriera di un artista. Presto emergeranno dei problemi che porteranno ad allontanamenti, riavvicinamenti e a una gravidanza tanto voluta quanto complicata.

Master of None è stata sempre una serie abile nell’alternare ironia e sentimento. Alcuni episodi in particolare, penso al nono della prima stagione (Mattine) o all’ottavo della seconda stagione (Il Ringraziamento), erano emblematici della capacità di Ansari e del suo sodale Alan Yang di andare molto più in là della facile risata, puntando anche esteticamente a un prodotto molto più maturo di quel che ci si sarebbe potuti aspettare da un comico. Nei nuovi episodi questa tensione verso l’autorialità viene estremizzata: pochissima comicità, tempi enormemente dilatati e situazioni drammatiche affrontate con sensibilità. Funziona? Nì.
È innegabile che i dialoghi siano ancora una volta un punto di forza della serie. Sia nei momenti di complicità che nei litigi gli scambi dialettici tra le protagoniste sono una gioia per chiunque cerchi della credibilità: è facile entrare nelle loro esistenze, capire la scontrosità a suo modo tenera di Denise e le legittime rivendicazioni di Alicia, moglie premurosa stanca di essere solo un bell’oggetto nella vita della compagna. La loro storia coinvolge perché le attrici riescono a renderle vere, come due amiche per cui facciamo il tifo ma che ci tocca rimanere a osservare impotenti mentre vanno avanti con la loro vita, amandosi e perdendosi come capita a volte anche alle coppie migliori. Ansari mostra i piccoli dettagli, la routine quotidiana, andando ancor più nel profondo di quanto non avesse fatto col già citato episodio Mattine: aiuta a entrare in sintonia, funziona a lungo, ma se il detto “il gioco è bello quando dura poco” è abusato ma sempre attuale un motivo ci sarà, e Ansari non lo capisce.

La mia fidanzata mi ha fatto notare che una stagione come questa non potrebbe esistere senza la piattaforma che la ospita, ovvero senza il binge watching che Netflix e soci hanno reso prassi comune. Se i precedenti episodi di Master of None si attestavano su una durata da serie comedy, venti-trenta minuti con un’unica eccezione, la terza stagione alterna episodi brevi ad altri di un’ora scarsa, tutti caratterizzati da un ritmo lento e da inquadrature fisse che stazionano sulle protagoniste più a lungo di quanto ci si aspetterebbe, cifra stilistica che, in misura minore, già avevamo avuto modo di apprezzare in passato. Quando però si arriva a una scena estenuante in cui Alicia, davanti alla lavatrice di una lavanderia a gettoni, rimane immobile a sorbirsi insieme a noi la Danza Kuduro sparata a tutto volume nel locale vien da chiedersi se Ansari non abbia calcato troppo la mano, stiracchiando il materiale a disposizione fino al limite massimo. Basta guardare il primo episodio della seconda stagione (Il ladro), con il suo neanche tanto velato citazionismo neorealista, per accorgersi che l’autore ama il cinema europeo: reiterare la stessa scelta registica di continuo però aiuta l’immedesimazione solo finché non subentra la noia, che spesso fa capolino e spingerebbe quasi alla resa se non fosse che le protagoniste sono caratterizzate troppo bene e che…be’, sono solo cinque episodi ed è già cominciato il prossimo, vuoi non vederlo?
L’arco narrativo esplorato in questa stagione è completo, coerente nell’incoerenza di alcune scelte che Denise e Alicia compiono e che, paradossalmente, le rendono più vere e umane, simili a noi con i loro piccoli e grandi difetti. E Dev? Appare anche lui, “guest star” nella serie che lo vedeva protagonista e senza farci nemmeno una bella figura.
Se il successo ha baciato Denise per Dev le cose vanno all’opposto: tornato a vivere dai suoi, ancora alle prese con una carriera da attore che non accenna a decollare, è pure tristemente bloccato in una relazione infelice che tira fuori il peggio di lui. Il punto in cui, nel primo episodio, litiga con la fidanzata davanti a Denise e Alicia, ammutolite di fronte a quello sfogo, porta l’elefante nella stanza allo scoperto: quanto di Dev c’è in quella cattiveria gratuita, e quanto di un Ansari ansioso di martirizzarsi in pubblico per i suoi errori nella vita privata? Non lo sapremo mai, e in fondo non importa.

Quasi all’inizio dell’articolo ho parlato di Right Now, lo show con cui Ansari è tornato in scena dopo le accuse di molestie sessuali mosse contro di lui. Ci tiene a iniziare facendo le proprie scuse per quell’errore, ma lo fa sbagliando quasi del tutto il tono: centra il discorso su sé stesso e sul proprio dolore, parla pochissimo della vittima e conclude affermando che, grazie a lui, altre persone hanno potuto interrogarsi sui limiti del consenso in un rapporto. Non ci fa una gran figura, peggio anche di quella del suo personaggio in quella lite citata appena sopra. Questa terza stagione mi ha fatto pensare a un episodio di South Park di qualche anno fa, in cui Randy Marsh partecipa a un quiz televisivo e, con grande dimostrazione di idiozia più che di consapevole razzismo, utilizza la N-word in diretta nazionale: Stan, imbarazzato, cerca di fare ammenda per le colpe del padre scusandosi per quel comportamento con il compagno di classe nero Token, ma di fronte all’ indifferenza di quest’ultimo si indispettisce. Ciò che intuisce Stan nell’arco dell’episodio, dopo aver messo in discussione la propria tolleranza, è che non potrà mai sapere come ci si sente ad avere la pelle nera, cosa vuol dire far parte di una comunità schiavizzata per secoli e ancora ben lontana dal riuscire ad avere pari diritti non solo sulla carta: “ho capito, non posso capire” è l’esclamazione con cui ammette che ogni tanto, quando si ha il privilegio dalla propria parte, bisognerebbe solo rimanere in silenzio.
Aziz Ansari di intolleranza ne ha provata parecchia sulla sua pelle, ce l’ha mostrata parzialmente in Master of None (l’episodio Indiani in TV della prima stagione) e ne fa parecchi esempi in Right Now. Anche lui però si è scontrato con qualcosa che non capiva fino in fondo, e anziché perpetrare l’errore di scusarsi in maniera goffa e imbarazzante ha preferito fare un passo indietro: si è fatto aiutare nella scrittura di una stagione incentrata sulle donne, si è nascosto dietro la macchina da presa mostrandosi il minimo indispensabile. Me lo immagino ammettere come Stan che non può capire, e il suo silenzio come uomo aiuta l’opera a farsi poetica.
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Una opinione su "L’arte del fare un passo indietro: considerazioni sparse sulla terza stagione di Master of None"