Racconto in musica 66: Fate il vostro gioco (Julie’s Haircut – Romancing the gun)

Ho un ricordo sfocato ma rimasto impresso nella mia mente, quello di un concerto nella ridente cittadina di Castano Primo nei primi anni 2000. Ero all’ennesimo concerto dei P.A.Y. (di cui potete leggere qui) e assieme a loro suonava un gruppo di cui avevo già sentito qualcosa in radio (e con radio intendo Radio Lupo Solitario, emittente del varesotto che in quegli anni mi ha formato musicalmente) e che aveva collaborato, nella persona di tal Superlove, all’ultimo disco della punk band di Samarate. Quella band la incrociai anni dopo con un video su Flux, canale sperimentale di cui non ho mai capito la genesi ma che, santiddio, riusciva a far passare gli Ufomammut in televisione e questo mi basta per ringraziare chiunque lo abbia creato: il video era questo, ne rimasi folgorato e mi ripromisi di recuperare quanto prima qualcosa di loro… Ma non lo feci. Dovettero passare altri anni prima che l’ultimo incrocio del caso me li riportasse davanti: A night like this 2017, uno dei più bei festival italiani, ancora i Julie’s Haircut sul palco e un viaggio sonoro memorabile con tanto di video proiettai per ogni canzone. Ci ho messo un sacco, ma da allora non me li perdo ogni volta che posso vederli.

Formatisi nel 1994 in provincia di Modena grazie all’incontro fra Nicola Caleffi (chitarra, tastiere, basso, voce) e Luca Giovanardi (inizialmente alla batteria, poi polistrumentista anche lui), i Julie’s Haircut debuttano cinque anni dopo con Fever in the funk house, uscito per l’etichetta Gamma Pop Records con cui tre anni dopo porteranno alla luce Stars are never looked so bright. Caratterizzati da un suono che mischia rock’n’roll, garage, noise e anche un po’ di pop (non so perché ma a me è sempre venuto da definirli “i Sonic Youth italiani”, il che è ancora più strano se si conta che ho palesato la mia ignoranza sulla band statunitense giusto settimana scorsa), il gruppo emiliano in questo periodo è ancora ancorato a una forma canzone abbastanza standard, una situazione destinata a cambiare presto. Nel 2003 firmano per la Homesleep Records (purtroppo non più fra noi), pubblicando nello stesso anno l’album Adult situations che è anche il primo a ottenere una distribuzione internazionale: la collaborazione con l’etichetta porta all’uscita nel 2006 anche di After dark, my sweet, il disco in cui è presente Satan eats seitan e che mi fa drizzare le orecchie per la seconda volta, perché qui si espande l’interesse della band per composizioni alternative alla forma canzone più classica, scelta che porterà con gli anni verso trip psichedelici sempre più appaganti. Nel 2009 è l’etichetta pugliese A Silent Place a far uscire il loro quinto album, Our secret ceremony, disco per la cui promozione partono in tour con i Mariposa di Enrico Gabrielli, il “Concerto grosso” durante il quale i fortunati partecipanti (non sono stato fra questi, faccina triste) potevano accaparrarsi un cd-r contenente la cover di It’s about the time di Miles Davis registrata da entrambe le band, un brano inedito dei Mariposa e una reinterpretazione del tema di Escape from New York di John Carpenter ad opera dei JH: se ce l’avete tenetevelo stretto. Il periodo successivo è fatto di progetti paralleli di alto livello, come la rilettura dal vivo del disco Transformer di Lou Reed nel 2010, commissionata loro dal comune di Carpi (alla cui giunta di allora va tutta la mia stima, soprattutto se penso che alla rassegna musicale di Vigevano di quest’anno c’è Umberto Tozzi) ed eseguita con diversi ospiti alla voce fra cui Violante Placido, Giovanni Gulino dei Marta sui tubi e Angela Baraldi, e un omaggio ai Joy Division in quel di Reggio Emilia, con il membro originale della band Peter Hook al basso. Dopo un singolo in cui rileggono The tarot dalla colonna sonora de La montagna sacra di Alejandro Jodorowski e O Venezia Venaga Venusia dal Casanova di Federico Fellini (opera di Nino Rota), dimostrando ancora interessi cinematografici da applausi, i Julie’s Haircut anticipano con un Ep (The wildlife variations, 2012) e uno split con i Cut (Downtown love tragedies, 2013) il loro passaggio alla Woodworm, etichetta che nel 2013 licenzia, in collaborazione con Santeria, il sesto album della band Ashram equinox, un disco completamente strumentale che porta ancora più in là il discorso sperimentale della band.

Negli anni successivi i Julie’s Haircut firmano per l’etichetta inglese Rocket Recordings per cui pubblicano altri due splendidi dischi, Invocation and ritual dance of my demon twin nel 2017 e In the silence electric nel 2019, inframmezzati dall’uscita (sempre nel 2019) di Music from The last command, album realizzato su invito del Museo nazionale del cinema in cui sonorizzano la versione restaurata del film muto di Josef Von Sternberg del 1928. Nella band si sono succeduti svariati membri, ma dal 2010 oltre ai due fondatori sono presenti in pianta stabile Andrea Scarfone (basso, chitarra e synth, presente dal 2005) Andrea Rovacchi (tastiere e percussioni, arrivato nel 2006) e Ulisse Tramalloni (batteria): ha terminato invece da poco la sua collaborazione con la band, iniziata nel 2015, la sassofonista Laura Agnusdei, alle cui note devo molti trip mentali durante i live, per cui a chiunque graviti nei dintorni di Roma consiglio di non perdersi l’esibizione congiunta del primo agosto a Villa Ada, che di concerti ne abbiamo bisogno e quelli spettacolari a perderli si fa peccato.

Romancing the gun è un brano presente nella sonorizzazione di The last command, film che ingenuamente ammetto di non conoscere e di cui, va da sé, ignoro completamente la trama (sì, avrei potuto informarmi, ma nella società della performance ammettere i propri difetti è pur sempre rivoluzionario, nel precedente articolo ho pure fatto un errore con l’asterisco): il film che mi sono fatto io ascoltandola ha invece portato al racconto che troverete in basso, una storia d’amore in disfacimento che porta la coppia protagonista ad organizzare un finale a sorpresa. Potete leggerlo subito dopo il brano che l’ha ispirato, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Fate il vostro gioco

Lei è sensualità da vestito rosso e scarpe con tacco vertiginoso, polpacci slanciati in alto e culo armonioso. Spacco sulla schiena, pelle ambrata che profuma di rosa, capelli mossi a occultare quel tanto che basta da invogliare lo scostamento della chioma.

Lui è eleganza e tradizione, giacca camicia e cravatta, sì, ma allentata, particolare trasandato ad evidenziare la trasgressione. Rasato di fresco, dopobarba dall’aroma legnoso, non un taglio sulla mascella squadrata che ha levigato con attenzione.

Preparativi laboriosi, accanimento terapeutico dell’ego dopo mesi di tv, divano e pigiami orrendi. Non c’è altro da vedere che le macerie della routine, e allora un giro di giostra per ricordarsi di esser belli, di esser stati belli, di esser stati belli insieme.

Tavola pronta con candele e bicchieri affusolati, piatti in porcellana e posate argentate. Servizio buono comprato per l’occasione, quello d’acciaio riposa in un cassetto ché l’inox non fa bene all’eros, men che meno all’amore. Spumante in fresco, bollicine a ispirare brio e niente acqua ad annegare le occhiate maliziose, i sorrisi velati.

Il liquido si posa in due calici pronti a spiccare il volo, destinati a incontrarsi a mezz’aria in un tintinnio di complicità. Lei lascia tracce di rossetto meno nette di quanto vorrebbe sul vetro cristallino, lui sente tracce di un bruciore alle viscere che gli è amico da quando esagera col vino. Dettagli trascurabili, esteriori e interiori, solo finché si riesce ad ignorare che siano segnali.

C’è una musica lieve nell’aria, percussioni accennate, note malinconiche di fiati: armonia adatta alla danza con corpi stretti, languidamente abbracciati. Movimenti studiati, aliti che si sfiorano e piccoli baci rubati, a chissà chi poi, forse agli amanti che una volta sono stati e che regalerebbero quei simboli di una passione sopita che vorrebbe ardere ancora. Volteggi sinuosi, sempre più lenti, il distacco pare naturale quanto il trovarsi seduti con le mani intrecciate, occhi negli occhi, anime avvinghiate.

Che è finita lo sanno, non c’è più niente da fare, ma come lasciarsi andare via? Meglio un gesto teatrale che lo sfinimento delle parole, il logorio dei silenzi che svuotano di senso le orecchie, i gesti ripetuti che non saranno mai all’altezza dell’ideale che non riescono a rappresentare. Sulla tavola un coperchio lucente li riflette come sono ora, distorti elementi di un romanticismo che invita ad un colpo di scena.

Una cena speciale per un’occasione da ricordare, quella degli ultimi sguardi prima di iniziare a cancellarsi, l’una dall’altro e anche dal mondo intero. S’alza il coperchio ed ecco la portata principale, nera, lucida e latrice di una promessa definitiva, nel senso di mortale, ma pur sempre una promessa e ci si può accontentare.

Porta per primo lui la pistola alla tempia, iniziando il conteggio ritmato dei Clic che porteranno all’esplosione di ciò che una volta chiamavano amore, prima che la paura di sfiorire diventasse più forte della paura di morire.

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Paradossi e urla nel nuovo album dei Votto

C’è un paradosso a cui sono particolarmente affezionato, ovvero quello famosissimo di Achille e la tartaruga esposto da Zenone di Elea. Il filosofo, intervenendo in difesa della tesi del maestro Parmenide secondo cui il movimento è illusorio, immagina una situazione in cui il piè veloce Achille parte in svantaggio contro la lentissima tartaruga, sicuro di poterla recuperare in un batter di ciglia: non ha fatto i conti però con la divisibilità dello spazio che lo costringe a raggiungere il punto in cui la tartaruga si trovava fino a un attimo prima ma in cui già non è più, intrappolandolo in una corsa infinita sempre all’inseguimento. Di questo paradosso ha scritto Borges (e qualunque cosa scritta da Borges, anche la lista della spesa, diventa immediatamente meritevole di lettura), i mai abbastanza lodati Vonneumann gli hanno dedicato una canzone all’interno del loro album Switch Parmenide (a sua volta ispirato da tutti i paradossi di Zenone) e io ne ho fatto la base su cui strutturare un racconto che non mi ha soddisfatto, poi revisionato in una maniera che mi è piaciuta ancora meno e…basta, quella storia attende ancora una forma che le renda giustizia.

Paradossi e tempo sono due elementi centrali all’interno di Quindi noi sbagliando facemmo giusto, il primo full lenght della band screamo piacentina Votto. Già il titolo, mutuato da una testimonianza del poeta, scrittore, scultore e attivista politico (militava nel Partito Comunista D’Italia) Nello Vegezzi che la band usa come sottofondo della title track (che potete trovare qui), manifesta quella confusione che ci assale quando qualcosa non va come ci aspettiamo, anche se la valenza della frase è volta al positivo. Quello che cercano di fare i quattro membri della band (Daniele – chitarra e cori, Francesco – basso, voce e urla, Matteo – chitarra e cori, Samuele – batteria) è infatti reagire allo stallo nelle nostre vite, acuito dai tempi pandemici in cui il tempo – eccolo palesarsi – sembra sia non bastare che non scorrere.

Qui ci sono troppe cose da aggiustare/ Te l’ho mai detto?/ Non basterà il tempo, così recita il testo di Oikos, quinta traccia del disco e unica a superare abbondantemente i tre minuti di durata: un altro paradosso legato al tempo vuole infatti che ai Votto basti la pur breve durata delle loro canzoni, in un paio di casi (Finire tutto prima di iniziare qualcosa di nuovo e Spettro) addirittura al di sotto dei due minuti, per riuscire a trasmettere brillantemente quello che vogliono comunicare. Niente di particolarmente nuovo sotto al sole, ma tanta personalità e arrangiamenti complessi senza risultare forzati, il tutto reso con un gusto melodico che si amalgama efficacemente con le distorsioni. Il tempo si è guastato è probabilmente la miglior pubblicità per la band, portatrice di una furia ben direzionata a cui le urla di Francesco aggiungono potenza e capace, nei rari rallentamenti, di non perdere niente della sua enfasi: il finale è da applausi, e farebbe il paio con quello di Finire tutto prima di iniziare qualcosa di nuovo se quest’ultimo non durasse troppo poco.

I testi si concentrano su situazioni di disagio quotidiano, vicoli ciechi emotivi a cui non arrendersi, fiduciosi che basti tenere insieme i pezzi per affrontare il mondo un altro giorno, strofe con cui si conclude il disco (Un altro giorno): non sempre però le liriche sono efficaci e la semplicità delle strofe di Oikos fa il paio con quella della musica, unico caso in cui la melodia si fa prevaricante e rende monotono l’andamento.

Sette tracce per meno di venti minuti di ascolto, tanto basta ai Votto per riuscire, alla seconda prova discografica (a settembre 2020 era uscito il primo Ep Panbauletto), a mostrarsi come una promettente novità nel panorama emo/screamo. Coprodotto da due etichette italiane (È un brutto posto dove vivere e Non ti seguo Records) e due estere (la statunitense We’re Trying Records e Desperate Infant Records, label di Hong Kong) Quindi noi sbagliando facemmo giusto è un disco che riesce a soddisfare gli amanti del genere e può incuriosire anche i “profani”, grazie a musiche che sanno mantenersi in equilibrio fra sfoggio di capacità tecnica, energiche accelerazioni e un gusto melodico non scontato: prendetevi il tempo per ascoltarlo, ne vale la pena.

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Racconto in musica 65: Dritto al cranio (Sonic Youth – Expressway to yr. skull)

Si può scrivere di musica senza averne le basi? Voglio dire: sono un musicista mediocre che ha preso lezioni di chitarra per sei mesi ed è quasi sempre andato a orecchio, quindi ho fondamentalmente replicato gli stessi giri in tante salse diverse per anni e di tecnica so ben poco; mi manca la cultura di ciò che va di moda, perché ascolto poco la radio e quasi tutto quel che ci passa mi fa abbastanza cagare; soprattutto, mi mancano un sacco di ascolti ritenuti necessari, il che mi lascia preda della sindrome dell’impostore ogni volta che scrivo una riga riguardo a quest* o quell’artista. Voglio dire: non ho mai ascoltato un album intero di Rolling Stones, Beatles o Led Zeppelin, posso parlare di musica rock (che è il principale campo di cui sproloquio) senza queste basi? Non lo so, ma spero di farlo con rispetto, conscio di queste lacune, e con anche un po’ di quell’arroganza che deriva dal fatto che per me fondamentali possano essere Psychic…powerless…another man’s sac dei Butthole Surfers o Young machetes dei The blood brothers, e amen se i secondi non sarebbero esistiti senza i primi: riadattando una frase di Jorge Luis Borges “ogni musicista crea i propri precursori”.

Però oggi mi ritrovo a parlare dei Sonic Youth, ho ascoltato un solo loro album (A thousand leaves) e l’unica volta che li ho incrociati dal vivo non mi hanno detto granché (Bologna, Indipendent days 2004, quando ancora chiedevo degli accrediti stampa e me li davano pure, ma non ero ancora pronto per quattro canzoni in un’ora di concerto…poi ho scoperto il doom psichedelico e le cose sono cambiate). La mia sindrome dell’impostore è ai massimi storici e mi chiedo chi me l’ha fatto fare, anzi lo so.

È a causa di Antonio Francesco Perozzi se questo articolo esiste, e me la sono andata a cercare perché ha risposto presente quando gli ho chiesto di scrivere un racconto per il blog. Nato nel 1994, vive in provincia di Roma ed è autore di un romanzo (Il suono della clorofilla, edito da L’erudita nel 2017) e di una silloge (Essere e significare, edito da Oèdipus nel 2019 con prefazione di Francesco Muzzioli). Io l’ho scoperto grazie ai suoi racconti, pubblicati come le poesie da vari siti e riviste: ne trovate (in ordine rigorosamente sparso, ma spero completo) su Crack, Pastrengo, Blogorilla Sapiens, Dude Mag, Malgrado le mosche, L’irrequieto, Spazinclusi, mentre potete trovare suoi articoli su Neutopia e Grado Zero. Come se non bastasse cura il blog La morte per acqua, dove pubblica poesie e prose brevissime fornendo anche un supporto critico di altissimo livello: seguitelo in tutto ciò che fa, ne vale la pena.

I Sonic Youth quindi. Cosa dire di un gruppo che ha fatto la storia della musica alternativa (quando ancora non andava di moda chiamarla “indie”) fra gli anni ottanta e i duemila? Trent’anni di carriera per quindici album, più una costellazione di Ep e collaborazioni (vale la pena ricordare lo sperimentale e folle progetto Ciccone Youth con Mike Watt dei Minutemen), una formazione rimasta quasi sempre immutata con Thurston Moore e Lee Ranaldo alle chitarre, Kim Gordon al basso e Steve Shelley alla batteria. Non saranno stati i primi a usare i propri strumenti in maniera sperimentale (Lee Ranaldo suonava prima di formare la gioventù sonica con un maestro della sperimentazione come Glenn Branca, che ne produsse i primi lavori con la sua Neutral Records), ma sono quelli che ne hanno fatto un marchio di fabbrica (e io mi sentivo figo quando riuscivo a fare dei feedback strani splittando fra i pickup con la mia Stratocaster); non saranno stati i primi a giocare con le accordature, ma quando mi stupivo leggendo di canzoni fatte con la chitarra tutta accordata in mi su una biografia dei Soundgarden loro erano già oltre. Hanno creato ciò che da lì in avanti sarebbe stato chiamato noise rock, poi l’hanno ammorbidito firmando per una major, poi sono tornati a sperimentare, poi hanno fatto quel cazzo che volevano in pratica. Sono sopravvissuti al furto degli strumenti nel 1999, non la chitarra che possono rubare a me ma strumenti modificati così tanto negli anni da avere un suono unico (ne ritrovarono alcuni nel 2005, e fa brutto dirlo ma il fatto che in quel periodo fosse entrato in formazione Jim O’Rourke a basso, chitarra e sintetizzatore fa pensare quasi a un rimpiazzo per quelle sonorità che non potevano più ottenere), sono sopravvissuti al crollo delle Torri Gemelle che ha impedito loro di registrare l’album Murray Street…e se dico questo è solo perché Massimo Coppola sul libro del suo programma Brand: New mi aveva convinto che il loro studio fosse andato distrutto nel crollo. Non sono sopravvissuti alla fine della storia d’amore fra Gordon e Moore, che con la fine del loro matrimonio hanno posto fine nel 2011 anche a una band che ha influenzato musicisti di ogni latitudine e genere (nel 1991, in tour coi Nirvana, i mostri sacri non erano Kurt Cobain e soci), che ha utilizzato la letteratura di William Gibson e Philip K. Dick come base per le proprie opere e…boh, mille altre cose, ve l’avevo detto che non sono la persona giusta per questo compito: ma spero di avervi incuriosito abbastanza da partire al recupero se, come me, avete questa terribile lacuna nel “curriculum” musicale.

Expressway to yr. skull arriva dritta dritta da Evol, disco del 1986 uscito per la storica etichetta indipendente SST Records, ed è la traccia che chiude il disco…o forse sarebbe meglio dire che lo getta verso l’infinito (sull’edizione in vinile la traccia è affiancata proprio da questo simbolo), sfumando in un loop che potrebbe ripetersi senza sosta. Antonio ha strutturato il racconto in linea con l’andamento della canzone, una narrazione che si sfalda man mano che…be’, questo dovete scoprirlo da soli immergendovi nelle atmosfere lisergiche di musica e testo: da parte mia, come al solito, un augurio di buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Dritto al cranio, di Antonio Francesco Perozzi

L’importante è mordersi il labbro. Incordare la mandibola e spingere gli incisivi fino a bagnare il mento di un fiotto denso e caldo. Così la faccia di K. rimane distinta; lo rivedo allacciarsi la bandana sopra il naso, scagliare l’estintore sulla scritta BMG e guardarla friggere.

Gli elettrodi si appoggiano freddi. N. ha detto: rimani cosciente. Pensa alla Banca. E io penso alla Banca – le gengive gonfie per lo sforzo – ma gli elettrodi sono un pungolo gelido nella poltiglia sudata dalle tempie. Ora guanti azzurri le massaggiano, si assicurano salda la presa della macchina. Fiato. Comincio a contare a rovescio: da 288. Mantiene cosciente. 287. 286. 285…

K. scavalca il vetro spaccato – nella mia testa – si taglia il polpaccio con un cristallo. Attorno ci sono fumo, gente, asfalto, puzza di bagnato – sul 278 li posso quasi toccare, così veri, così vero che K. imbraccia il fucile e grida verso il commesso con la G sulla tuta. Io dietro, le mani strette sulla canna: «Pezzi di merda!»

277.

«Pezzi di merda!» alla signora con le mani di lattice.

«Calmi. Adesso risolviamo.»

275.

274.

273.

La scossa te la descrivono come un’apertura. N. raccontava: «Come un taglio bianco, come un ricordo che si apre,» e si indicava le ustioni accanto alle basette, il lobo mezzo mangiato da un proiettile. Non c’è un cazzo da risolvere. La Riserva: stronzate. Banca Mondiale Google; questo è tutto. E ora spalle al letto mordo 270, 269, 268, 267, finché le tempie si scaldano, poco alla volta (266, 264), e io cerco di pensare a K., che intima a Lattice di aprire la porta, cerco di –

La scossa. Si apre tutto – N.! – le dita si allungano e i lati del lettino non li tieni più, mentre qualcosa che sembra una mano (forse: un tentacolo, un inganno) ti asciuga il sangue squarciato a fatica dalle labbra. Io bastardi aggancio la lingua, penso a K., perché mantiene cosciente, K. che adesso si volta e indica oltre di me, ma ha il fucile senza grilletto (256, sangue), ha il fucile senza canna perché – cazzo! – non ha neanche le mani, al loro posto lo spazio retrostante, al loro posto una scossa.

Mi volto – mi ricordo che mi volto, 248 – e dal vetro che abbiamo spaccato si avvicinano sagome; sono penso umani, sono le sagome penso degli elettrodi (si apre tutto), no!, sono umani e io sono il sangue (361), sono umani ma non hanno le gambe (come un taglio bianco, come le dita che esplodono), ma li devo afferrare perché altrimenti (le tempie, 400) non chiudo le dita, tenerli per la maglietta prima che si smontino del tutto: non hanno le braccia ma afferrano K. – tengo K., 101, tengo K. mentre lo stendono ora che è senza busto (gli incisivi nella lingua) e aveva ragione N. – cazzo! – come un taglio bianco, niente più teste, solo un buco al petto che mi atterra (221) e sette uomini – sette forse dodici idee di uomo (cazzo!) mi buttano a terra e non ho la lingua, ho i polsi legati da (25) uomini e le loro G maiuscole sul petto, le loro scosse che non – cerco di – si apre tutto:

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L’estetica del vuoto nel nuovo Ep di Gold Mass

Capita spesso che, perdendomi fra band (immeritatamente) poco conosciute, io finisca per scoprirne notissime fuori tempo massimo, o quasi. Coi Röyksopp è andata più o meno così: li conoscevo per quelle canzoni che tutti hanno sentito (chi non ha mai visto il video di Poor Leno alzi la man…oh cazzo, è del 2001! Alzi la mano chi sta leggendo questo articolo e quell’anno non era ancora nato), ma non ho mai approfondito la loro musica prima dell’uscita di The inevitable end, anno domini 2014, album con il quale hanno chiuso la carriera discografica pur continuando nell’attività musicale. Titolo a parte sono molti i brano del disco che lasciano percepire una sensazione di distacco (da You know I have to go alla conclusiva e lapidaria Thank you), come se le tracce che Torbjørn Brundtland e Svein Berge hanno composto non potessero prescindere dal vuoto che andavano creando nel panorama musicale.

Per molti versi Safe, il nuovo Ep di Gold Mass (moniker scelto per il suo progetto dalla musicista e cantante Emanuela Ligarò), mi ha ricordato l’ultimo disco dei Röyksopp. L’artista ha deciso di virare ancora di più verso l’elettronica rispetto a Transitions (2019), l’album d’esordio prodotto da Paul Savage, trovando una via personale fatta di suoni ridotti all’osso e la voce (spesso usata come un vero e proprio strumento, grazie ad alcuni effetti) a riempire gli interstizi, un approccio che già si ricorda agli arrangiamenti raffinati del duo norvegese: è nell’atmosfera però che le due opere si avvicinano ulteriormente, quel vuoto che in The inevitable end era segno di un futuro già deciso mentre qui sembra associarsi a dinamiche più profonde.

Safe si compone di quattro tracce di cui solo una, ovvero la title track, apertamente positiva nel suo parlare di allontanamento da una situazione tossica: non è però la traccia conclusiva, perché all’interno di un discorso di liberazione che è centrale per l’artista (l’Ep è stato prodotto e registrato in completa autonomia dalla stessa Ligarò) se ne innesta uno più universale, volto a indagare i nostri veri bisogni e a contemplare le nostre mancanze. Ecco allora che lo spazio di cui canta Gold Mass nella traccia d’apertura, Space, appare pieno di gente ma vuoto d’emozioni, un luogo dove i rapporti umani sono spezzati come la ritmica di fondo e in cui non è possibile trovare un vero riparo (Aims your recover out of the space we know sono le parole con cui si chiude la canzone). Safe non può essere la traccia conclusiva perché nel mondo che abitiamo non basta più arrivare ad essere completi come individui: c’è da ricreare un tessuto sociale, fare in modo che quella liberazione sia condivisa e si arrivi a un’unità che possa aiutarci a intravedere i legami che ci uniscono, anziché fissarci sulla nostra singolarità di atomi distaccati.

And people stay in silence / cause we see we’re islands, così recita un frammento del testo di Souls, terza traccia dell’Ep, a rimarcare la distanza che ci separa e che ci porta a non comprenderci. Qui la musica si fa lieve, consolatoria, pervasa della malinconia per quelle parole che abbiamo perso: il contatto fisico non basta più ad avvicinarci e camminare mano nella mano non aiuta a conoscerci veramente (we walk hand in hand / but we’re just unknown souls). In Gravity, la traccia conclusiva, si esemplifica chiaramente questa incapacità di comunicare attraverso parole che perdono di consistenza a causa del reverse (will it ever last your sound?), rimarcando quel I can fell you hesitate / I can feel me hesitate che la musica incornicia in maniera memorabile con un’effetto circolare e raggelante e chiudendo in maniera quasi dimessa, a monito di una ricerca lontana dalla sua conclusione.

Gold Mass con questo nuovo lavoro crea un’opera completa nella sua incompiutezza, coerente sia a livello tematico che estetico (anche nella parte grafica, opera di Juri Ronzoni). Grido d’allarme in cui si accende una fiammella di speranza, Safe riesce a risuonare negli spazi vuoti dentro di noi, lenendo le ferite mentre ci fa percepire chiara un’assenza di orizzonti che deve scuoterci: sta solo a noi muoverci e avvicinarci al prossimo con la stessa delicatezza di questi brani, allontanando quel destino solitario che, come la fine evocata dal disco dei Röyksopp, appare ancora inevitabile.


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Racconto in musica 64: Noi non cancelliamo (Giorgieness – Che cosa resta)

Non so come immaginate la mia vita, ammesso che la immaginiate. Parte di questa si svolge in una piccola fabbrica dove produciamo bottoni (una cosa che affascina molti, ma alla fin fine sempre metalmeccanica è), in parte per la moda e in parte per le forze dell’ordine, per cui quando un carabiniere vi ferma per un controllo sappiate che c’è una certa probabilità (non la sicurezza, non siamo l’unica fabbrica di bottoni in Italia e ho scoperto con gli anni che ce ne sono un sacco sparse qua e là: siamo in mezzo a voi) che i bottoni della sua divisa li abbia fatti io con le mie sante manine e i macchinari vetusti con cui li produciamo: non vogliatemene. Ci lavoro da diciotto anni e da altrettanto tempo ho una collega più o meno della mia età, con cui giornalmente o quasi finiamo a parlare di musica, principalmente per punzecchiarci a vicenda: la stragrande maggioranza di ciò che le nomino io non sa cosa sia (e io lo so), la quasi totalità di ciò che mi nomina lei lo conosco ma mi fa orrore (il suo mito è Albano, per dire). Qualche giorno fa ho svolto con lei un esperimento antropologico (per il quale sto aspettando una laurea honoris causa dall’Università dell’inutilità) chiedendole di ascoltare una canzone di un’artista che non conosceva, provando a sfidare i suoi gusti ma senza buttarla direttamente addosso agli Ufomammut o anche solo ai Massimo Volume che so essere un’impresa impossibile (un po’ come prendere una laurea honoris causa per questo esperimento antropologico): l’esperimento è andato a buon fine, la canzone le è piaciuta e in cuore mio rimane la speranza che lei ora non torni ad ascoltare Felicità o a sperare che Albano e Romina si rimettano insieme, ma temo che questo sia pura utopia. Insomma, il solito preambolo inutile per dire che quella canzone era di Giorgieness e che il racconto di questa settimana nasce da una sua canzone.

Il nome di Giorgieness, moniker dietro al quale si cela la cantautrice e chitarrista Giorgia D’Eracleo, mi è rimbalzato attorno parecchie volte negli anni, senza però che questo si concretizzasse in un ascolto o nella partecipazione ad un suo live (e adesso, ahinoi, è il momento più difficile per recuperare, anche se…). Siccome però ci metto un’ora di macchina ad andare alla fabbrica dei bottoni di cui sopra non potevo che cominciare a recuperare un bel po’ di nomi che mi si erano stampati in testa: eccomi allora a ripercorrerne la carriera al volante, una carriera che inizia nel 2011 e la decisione, dopo un primo periodo passato a cantare in inglese, di scrivere canzoni in italiano. Il primo Ep, NOIANESS, esce autoprodotto due anni più tardi e D’Eracleo comincia a macinare live assieme alla sua band composta da Andrea De Poi (batteria) e Samuele Franceschini (basso). Il primo album La giusta distanza arriva nel 2016, pubblicato da Woodworm e contenente tre brani dell’Ep riarrangiati oltre a sette nuove tracce: suoni grintosi, testi intimi (ma non solo, basta ascoltare Il presidente) intrisi di rabbia e disillusione, una voce che osa nei momenti distorti e si fa fragile nei brani più delicati. Fra il 2016 e il 2017 l’attività live si intensifica, con date d’apertura per nomi come Garbage, American Football e Placebo, ma il tempo basta (non so come) anche per registrare e far uscire un nuovo album, Siamo tutti stanchi, sempre per Woodworm, sempre con una bella dose di sacrosante distorsioni e sempre con la stessa formazione (il fido Andrea De Poi, passato al basso, Lou Capozzi alla batteria e Davide Lasala che, oltre a suonare chitarra e tastiere, è produttore di entrambi i dischi). Nel 2018 esce l’Ep Nuove regole, contenente tre remix e il brano inedito Questa città, poi nel 2019 il trasferimento da Milano a Torino e un tour acustico di tredici date, in attesa di mettersi a lavorare su un nuovo disco inizialmente previsto per autunno 2020 per l’etichetta Sound to be ma che, come capitato a un sacco di artist*, si ritrova ad avere a che fare con la pandemia. D’Eracleo ha annunciato proprio in questi giorni di aver finito le registrazioni, e chissà che il 2021 non ci regali la terza prova discografica di Giorgieness (di cui abbiamo già potuto ascoltare ben quattro tracce di cui una, Hollywoo, mi stringe il cuore per il suo chiaro omaggio a Bojack Horseman): intanto ci regalerà alcune date in acustico in attesa di terremotare i palchi con la band al completo, per cui tenete d’occhio la sua pagina Facebook ufficiale. Negli anni D’Eracleo ha trovato anche modo di collaborare a vario titolo con un nugolo di artisti come L’orso, Zen Circus, Endrigo, I botanici, Avincola e, assieme ad altri ventisette artisti, con i Mercanti di liquore per la rivisitazione del loro brano Lombardia, che potete acquistare qui per sostenere Emergency, a cui verranno devoluti tutti i proventi. E a proposito di cause sociali concludiamo con questa intervista-sfogo in cui D’Eraclo parla di cosa vuol dire essere una donna nel sistema musicale, a seguito della quale il patriarcato che abbiamo in testa non ha mancato di mostrare il proprio lato peggiore (sempre che ce ne sia uno migliore) su Facebook: meditiamo gente, e diffondiamo perché il mondo cambi.

Che cosa resta è uno dei singoli estrapolati dal secondo disco, Siamo tutti stanchi, e riesce in poche righe di testo a restituire l’immagine di una convivenza finita senza troppi drammi, sfumata nella vita di tutti i giorni senza cancellare la domanda che rimane stampata in testa: che cosa resta alla fine? Ho preso alcuni di quei dettagli per costruire un futuro alternativo alla coppia descritta nella canzone, mostrando il percorso di allontanamento e riavvicinamento senza che ormai l’amore, almeno quello con la A maiuscola, abbia più senso di esistere: ma dovremmo essere in qualche modo grati a chiunque entri a far parte della nostra vita e ci fa diventare quello che siamo. Trovate il racconto subito dopo la canzone, a me non rimane che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Noi non cancelliamo

C’è un’immagine precisa che collego al nostro amore. Tu torni a casa da lavoro, accaldato per il viaggio in treno in piena estate, butti la camicia sul divano appena entrato e corri verso il frigorifero per bere acqua ghiacciata a lunghe sorsate, veloce tanto da farti venire le fitte alla testa e non per la prima volta, perché mai che impari dai tuoi errori.

Io ti aspetto con indosso solo la maglietta che non ti va più bene, quella col logo di una band metal norvegese che mi hai trascinato a vedere solo per accorgerti che dal vivo fanno cagare, sorseggio il mio tè nero che ti fa venire caldo solo a guardare quando mi atterra in faccia qualcosa.

Apri un occhio a fatica mentre ti si sconquassa il cervello e mi vedi lì, mezza dentro mezza fuori dalla tua camicia sudata, che ti fisso da sotto in su come un’attrice hollywoodiana di un’epoca andata. Ci mettiamo a ridere all’unisono, dovrei mandarti a cagare e invece mi faccio pure fotografare, in quella posa ridicola con le nostre imperfezioni addosso. In quel momento siamo sinceri e veri.

Sinceri non lo siamo sempre stati: tu avevi i tuoi errori da cui mai che impari come il tradirmi una volta di troppo, che il perdono una volta è fiducia ma due volte è stupidità; io avevo il mio modo di ridere forte, anche senza ragione, per zittire la vocina che mi diceva Non è davvero amore. Me ne sono andata da un giorno all’altro, senza niente, lasciando lì anche il gatto che ora sta un po’ da entrambi come il figlio che non abbiamo mai cercato. Ci ha costretti a rimanere uniti, a parlare, il mezzo per ammettere che è così che doveva andare.

Quelli che hanno gioito di più sono i nostri amici, perché per loro il dramma di tutta questa storia era il doverci vedere a giorni alterni, in un periodo della vita dove il tempo non basta mai per niente. Alle serate in compagnia sorridiamo tutti, un po’ forzate le persone che ci riempiono la vita: vorrebbero ci odiassimo, ma io riesco a odiare solo lei e non per averti portato via, ma per avermi sottratto l’illusione di quello che avevamo. Me la immagino sul divano, con la mia tazza col cuore che diventa rosso col calore e il tuo libro preferito nell’altra mano, vestita solo di quella stupida maglietta che certo non avrai buttato.

Ricordiamo i vecchi tempi e loro schiumano di nascosto, a casa lui farà l’offeso e ci scommetto che anche lei avrà il suo spettacolino già pronto. Ci rinfacciano le foto sui social dove ancora siamo insieme, perché per loro il dolore va eliminato e il nuovo territorio marcato con linee rigide e severe. Non capiranno mai la promessa che ci siamo fatti, l’unico voto che non hai mai violato: non dimenticheremo il bene che ci siamo fatti, ciò che ci ha permesso di diventare quel che siamo.

Comunque vada, noi non cancelliamo.

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Cronaca di una sconfitta: Ultimo parallelo di Filippo Tuena

Le imprese compiute nella natura selvaggia non mancano mai di essere glorificate. Persino Jon Krakauer, nel suo Nelle terre estreme, non può nascondere l’ammirazione per Chris McCandless pur segnalando quanto la reazione degli abitanti dell’Alaska sia stata ben diversa da quella di chi, come me, è rimasto affascinato più dalla poeticità dei suoi intenti che scandalizzato dall’impreparazione che ha dimostrato. Come si può quindi raccontare la conquista del Polo Sud, compiuta nel 1911 con mezzi per forza di cose meno efficaci di quelli che abbiamo ora, senza puntare tutto sull’epica dell’impresa, anche se è impresa a metà visto che i prodi esploratori vengono battuti sul tempo da un’altra spedizione? Filippo Tuena con il suo Ultimo parallelo, ripubblicato quest’anno da Il Saggiatore, ci è riuscito narrando la storia del Southern Party guidato da Robert Falcon Scott attraverso un originale punto di vista, sia narrativo che concettuale.

L’uomo in più

La storia che Tuena ha deciso di raccontare è quella della spedizione inglese che per prima approdò in Antartide, ignara di dover affrontare la competizione con la squadra norvegese di Roald Amundsen e, come si scoprirà nel corso dell’impresa, impreparata di fronte alle condizioni in cui si verrà a trovare. Partiti per fare la storia gli inglesi verranno battuti sul tempo da Amundsen, capace di raggiungere il Polo Sud con un mese di anticipo grazie alle slitte trainate da cani, un’umiliazione a cui Scott e altri quattro compagni (Henry Bowers, Lawrence Oates, Edward Adrian Wilson ed Edgar Evans) non sopravvivranno, incapaci di ritornare al campo base dopo essere comunque riusciti a raggiungere la meta prefissata.

La storia con la S maiuscola si è potuta ricostruire parzialmente grazie ai diari rinvenuti sui corpi congelati di Scott, Bowers e Wilson (i corpi di Oates ed Evans non verranno mai ritrovati), ben otto mesi dopo la loro morte, ma per narrare la vicenda umana Tuena aveva bisogno di un testimone oculare, anche laddove non poteva esserci. Ecco quindi che, prendendo a prestito un passo del Terre desolate di T.S. Eliot (a sua volta ispirato da alcune testimonianze di una successiva spedizione in Antartide), l’autore introduce la figura dell’Uomo in più.

Chi è quel terzo che cammina al tuo fianco?

Quando conto, ci siamo soltanto tu e io, insieme

Ma quando guardo avanti verso il sentiero bianco

C’è sempre un altro a camminarti al fianco

Che scivola avvolto in un mantello bruno, incappucciato

Non so se sia uomo o donna.

– Ma chi è quello che ti sta dall’altra parte?

T.S. Eliot, Terre desolate

L’uomo in più, una figura che Tuena lega anche alle leggende sulle divinità antartiche delle tribù maori, si dimostra un escamotage narrativo estremamente funzionale, capace di raccontare ciò che nessuno ha potuto vedere ma anche accompagnatore silenzioso lungo tutto il protrarsi della spedizione, dall’arrivo nel gennaio 1911 alla partenza definitiva due anni più tardi. In quanto figura esterna, impermeabile alle vicende umane, l’uomo in più racconta ciò che vede senza enfasi, concentrandosi sui fatti senza concedersi romanticismi, una scelta azzardata ma che rappresenta l’unicità del libro nel panorama letterario.

Dopo alcuni mesi di preparativi il Southern Party parte alla volta del Polo Sud il 24 ottobre 1911. Fino al 3 gennaio, giorno in cui Scott comunicò i nomi della squadra ristretta che avrebbe coperto l’ultimo tratto verso il Polo Sud (il Pole Party), la squadra deve già affrontare difficoltà impreviste: i pony portati fin lì si rivelano inadatti al clima rispetto ai cani dei norvegesi, il cado inaspettato li costringe inizialmente ad arrancare nel fango e, quando affrontano l’ascesa lungo il ghiacciaio Beardmore, sono crepacci e la poca esperienza con gli sci a rallentarne il passo. L’osservatore silenzioso che li affianca restituisce in pieno con la sua testimonianza la fatica che il gruppo è costretto ad affrontare, sempre più insopportabile man mano che membri della spedizione vengono fatti ritornare al campo base, seguendo un piano che mostra le sue falle a ogni giorno che passa.

Scott incarnava l’antieroe laico perché c’era qualcosa in lui che sfuggiva alla divinizzazione, nonostante i monumenti che una moglie inafferrabile gli avrebbe dedicato in cinque continenti; nonostante la retorica dell’Impero, nonostante una sua volontà sotterranea per assumere quel ruolo. È il suo sguardo lievemente bovino, glauco, bonario che sembrava contraddire le sue azioni. È la sua andatura caracollante a vanificare ogni intento eroico, celebrativo.

Filippo Tuena, Ultimo parallelo

I lunghi periodi utilizzati da Tuena nella costruzione delle frasi trasmettono tutta la fatica e la sofferenza provate dagli esploratori, senza che vi sia bisogno di parole superflue e anzi facendo leva solo sulle azioni, quelle ripetute continuamente per trattenere un po’ di calore durante la notte o per ridurre gli effetti dell’oftalmia. Persino i piccoli errori che si riveleranno fatali, come una ferita subita dal marinaio Evans che ne minerà il fisico durante la parte finale della spedizione, vengono descritti senza enfasi, lasciandoci intuire la loro portata drammatica senza bisogno di esplicitarla, perché in fondo ciò che vuole glorificare Tuena non è il sacrificio degli esploratori, ma la loro sconfitta.

La storia di una sconfitta

Forse gli esploratori della Terra desolata di Eliot e quelli dell’Antartide di Scott nel corso dei secoli finiranno per assomigliarsi: incappucciati, intabarrati in un mantello bruno, affrontano la spaventosa fatica del procedere nelle terre desolate dell’estremo sud in totale solitudine di pensieri, nonostante siano in compagnia e nonostante a essi si affianchi l’ignoto compagno che è ovviamente un’apparizione fantasmatica, una memoria, una premonizione.

Filippo Tuena, Ultimo parallelo

Che la spedizione di Scott sia destinata a fallire non ci viene mai negato, anzi. Una delle prime cose che l’autore ci rivela è un sogno premonitore avuto da un membro della spedizione rimasto al campo base, Tryggve Gran (ironicamente norvegese come Amundsen), che ha l’onirica visione dell’arrivo al Polo Sud del contingente norvegese proprio nel giorno dell’effettivo arrivo, il 14 dicembre 1911. Se manca totalmente un’epica avventurosa non è solo per il punto di vista utilizzato, perché questo è semplicemente funzionale alla scelta effettuata di Tuena di esaltare il fallimento, mostrarcelo in corso d’opera senza omettere niente: la marcia senza sci per un mese intero di Bowers, costretto a tirare una slitta carica di tre-quattro quintali di materiali e provviste a temperature medie oscillanti fra i -25 e i -30 gradi centigradi, non è esaltata se non per la sua inutilità, una sofferenza patita senza nessun premio da ottenere in cambio.

Il viaggio in cui Tuena ci porta è di grande spessore letterario, fra parti in versi, foto della spedizione (miracolosamente recuperate dalla macchina fotografica che Scott portò con sé fino al limite estremo del mondo) e una parentesi quasi allucinatoria coincidente con l’attraversamento a ritroso del ghiacciaio da parte del Pole Party, ma quel che più rimane impresso è quanto questi uomini appaiano derelitti ed eroici allo stesso tempo. A differenza di molta letteratura della nostra epoca (comprendente quella del periodo in cui venne pubblicato la prima volta, nel 2007) Ultimo parallelo riesce a rendere epici i suoi personaggi proprio facendo di tutto per trasmettere la loro semplice umanità, perché a volte bastano i fatti nudi e crudi per rendere una storia degna di essere tramandata, anche se è quella di chi non passerà alla storia per un traguardo raggiunto ma solo per una morte solitaria in mezzo al nulla. Un po’ come Chris Mc Candless in fondo, anche se con un percorso opposto negli intenti.

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Racconto in musica 63: L’appuntamento (Any Other – Mother Goose)

Vorrei avere aneddoti fantastici per ogni cappello introduttivo ma a volte capita che no, non ci sono. Non ricordo tramite chi sia arrivata nelle orecchie la musica dell’artista di questa settimana, se non che era a scopo recensione e che la recensione la trovate qui (con abbondante utilizzo della parola “dilatato”), mentre so benissimo come è giunta davanti ai miei occhi la scrittura di Mattia Cecchini, il graditissimo ospite letterario: tramite questo racconto apparso su Pastrengo, che mi ha convinto a leggere altro di suo e a proporgli di scrivere qualcosa per Tremila Battute. La proposta è stata accolta e leggendo il racconto che mi ha donato (che voi potrete leggere fra qualche riga, abbiate pazienza che lo sapete che sono prolisso: a proposito, quanti “che” ho messo nella frase precedente!) ho trovato un’affinità particolare con un brano di Any Other, ovvero l’artista ospite di questa settimana. Tutto qui, ma tutto molto bello.

Mattia è nato a Città della Pieve nel 1992 ma ci vive solo per qualche giorno. Laureato in Tecniche di radiologia medica nel 2014, nel 2017 si trasferisce a Berlino dove oggi lavora in un ospedale vicino allo zoo e partecipa ai laboratori di scrittura dell’associazione Le balene possono volare. Se quest’ultimo nome vi dice qualcosa non è un caso: ad averla fondata è Mattia Grigolo, che donò alla causa questo racconto, e la straordinaria coincidenza che vuole due berlinesi con lo stesso nome di battesimo arrivare per vie traverse a Tremila Battute a me commuove un po’. Dal 2020 i laboratori cominciano a dare i loro frutti, o semplicemente è il suo talento naturale che emerge, così arriva la pubblicazione di un racconto nell’antologia Racconti umbri, poi una serie di apparizioni quest’anno su varie riviste come la già citata Pastrengo, Rivista Blam (il secondo è uscito proprio oggi), Il mondo o niente e Split, racconto quest’ultimo per cui ho utilizzato sulla pagina Facebook del blog lo scomodo paragone con Rashomon di Akira Kurosawa: altri ne arriveranno su Narrandom, Rivista Eterna e Grande Kalma, e il mio consiglio è di andare a leggerveli tutti. Mattia pensa di aver scoperto i libri di Pontiggia troppo tardi ma al momento giusto, e ci tiene ad aggiungere che odia scrivere note biografiche in terza persona, ma è già stato detto così tante volte che ormai non fa più ridere – ammesso che facesse ridere – anzi è diventato un clichè.

Any Other è il moniker dietro cui si cela Adele Nigro, giovane musicista veronese (ma milanese d’adozione) che dopo l’implosione del suo precedente progetto (il duo Lovecats) decide di incanalare le sue energie in canzoni proprie. La prima a farsi notare è Something, singolo apripista dell’album d’esordio Silently, quietly, going away (uscito nel 2015 per Bello Records e realizzato con la collaborazione dei musicist* Erica Lonardi e Marco Giudici, anche nelle vesti di “torturatori” nel video di cui sopra), una canzone che ancora oggi mi ritrovo a canticchiare mentre produco bottoni per le divise dei carabinieri (breve storia triste) e che rappresenta solo uno dei lati della sua musica, capace di passare dall’indie rock degli anni ’90 a una sensibilità pop raffinata e personale. I tre anni seguenti sono pieni di soddisfazioni, perché del suo talento non me ne accorgo solo io in un (ingiustamente) misconosciuto blog: date in lungo e in largo per l’Italia e all’estero, recensioni entusiastiche e la partecipazione al Primavera Sound Festival nel 2018, appena prima di rilasciare un nuovo brano, Walkthrough. L’attesa per il nuovo album viene alimentata da un altro singolo, Traveling hard, poi finalmente a settembre esce Two, Geography, licenziato da 42 records: il progetto Any Other muta i suoi confini, approfondisce i lati più pop del precedente disco ma lo fa con classe, raffinatezza e arrangiamenti che non puntano al ritornello da canticchiare in macchina ma ad avvolgere l’ascoltatore in un’atmosfera ben precisa, la propria, e bastano il testo e la voce di Adele in Walkthrough a far capire che l’energia degli esordi non è svanita.

Il 5 giugno 2020 esce un nuovo Ep, Four covers, con il quale in occasione del Fee Waiver Day di Bandcamp Nigro dona tutti i proventi all’Emergency Release Fund, un fondo che aiuta a pagare la cauzione per le persone transessuali arrestate negli Stati Uniti e che dimostra quanto le cause sociali odierne siano importanti per lei, soprattutto quella del sessismo endemico della nostra società che denuncia anche in questa esauriente intervista. Ci sarebbero molte altre cose da dire, dalle collaborazioni con Colapesce, Miss Keta, Andrea Poggio e Generic Animal fino al progetto del suo sodale Marco Giudici, gli Halfalib, ma spero di avervi incuriosito abbastanza per procedere da soli a conoscere lei e la sua musica.

Mother goose è la settima traccia di Two, Geography, un brano intimo per voce e chitarra acustica che parla dell’imparare ad amare se stessi dopo una batosta sentimentale, l’unico buon modo per evitare di affrontare l’amore come una dipendenza. Anche nel racconto di Mattia, la cui bozza è nata in uno dei laboratori di scrittura frequentati, una donna cerca di ricominciare a vivere dopo la fine di un rapporto, ma la situazione in cui finisce per trovarsi è di quelle in cui non sai se ridere o piangere. Ho deciso di collegare brano e racconto per la sensibilità con cui il tema viene approcciato, ora sta a voi ascoltare il brano e leggere il racconto: a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

L’appuntamento, di Mattia Cecchini

Il cameriere ci porta un cestello di ghiaccio e una bottiglia nera. Poi appoggia due calici sul tavolino e, con un sibilo del tappo, apre la bottiglia.

Io sembro sua madre, oppure lui il mio badante, lo dice il sorriso del cameriere. Ci versa da bere, il collo della bottiglia lontano dal bordo del bicchiere, poi va a servire un’altra coppia.

– Sentirai che sciccheria, – mi dice facendomi l’occhiolino. – Questo è il top della gamma, pas dosé.

Lasciamo sparire la schiuma nei calici. Io vorrei bere subito ma lui mi ferma.

– Aspetta, voglio fare un cincin.

Al centro del tavolo arrivano dei crostini con alici e burro.

– Che spettacolo il finger food.

Sul profilo Facebook non ce l’ha scritto, ma questo tipo deve essere un poliglotta: un francesismo lì, due parole inglesi là, una francese qua, e pure un’onomatopea. Oppure è solo un cretino.

– Ehi buon appe! – e agguanta un crostino.

Da ragazza, a tavola con mia madre che mi gracchiava di stare composta, mi capitava di sussurrare un “buon appetito”. Lei alzava il mento aguzzo . Figlia mia, sibilava, vorrei grattarmi via le orecchie quando dici così. Ormai non lo dico più, sono riuscita ad invecchiare spigolosa come lei, e mi prende l’orticaria quando sento “buon appe”.

– Senti cosa mi è successo una volta in aereo. Praticamente il pilota attacca con le solite menate tipo voleremo a diecimila metri e cose così, – un altro crostino gli sparisce in bocca. – Poi mette giù il microfono ma si dimentica di spegnerlo, quindi noi in cabina lo sentiamo che dice: ora vorrei un pompino e una tazzina di caffè.

Accompagna ogni parola con i gesti furiosi e precisi di un direttore d’orchestra. Mi incanto a guardargli l’ingorgo di vene nelle mani, ma basta ascoltare quello che dice per sfibrare l’incantesimo.

– L’hostess corre dal pilota per dirgli che il microfono è rimasto aperto, poi si sente di nuovo la voce del tipo: ehi tesoro, non dimenticarti il caffè! – l’ultimo crostino sparisce dal piatto.

Provo a credere che sia una coincidenza la sua storiella e Netflix che trasmette Will Hunting da un mese, con Matt Damon che racconta la stessa barzelletta.

Quando ci alziamo da tavola mi aiuta a infilarmi la pelliccia. I morti possono fare poche cose: una di queste è obbligarci alla memoria. Così io mi sforzo di dimenticare mio marito, mentre quest’altra specie d’uomo mi si avvicina al collo e sussurra:

– Le milf come te mi fanno impazzire.

Penso che mio marito non smetterà più di mancarmi.

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Strutture e sguardi: paralleli mnemonici fra The father e Memento

La memoria, o meglio il vacillare della stessa, è un motore narrativo che ha spesso trovato terreno fertile nella fantasia di sceneggiatori e registi. Che si parli di cinema d’autore (Io ti salverò di Alfred Hitchcock), commedia (50 volte il primo bacio di Peter Segal), azione (The Bourne identity di Doug Liman) o fantascienza (Atto di forza di Paul Verhoeven, da non confondere col sequel brutto) praticamente ogni genere cinematografico ha sfruttato la vacuità dei ricordi come tema portante della narrazione, anche se in un mondo ideale avremmo visto più opere in cui è trattato in maniera estremamente originale come fece Michel Gondry (su sceneggiatura del sempre geniale Charlie Kaufmann) con Eternal sunshine of the spotless mind…e sapete tutti perché uso il titolo in inglese, vero?

Se c’è un film che mi è rimasto nel cuore, fra tutti quelli che hanno affrontato questo tema, non posso prescindere dal mettere sul gradino più alto del podio Memento, il primo lungometraggio di Cristopher Nolan. La storia di Leonard Shelby (Guy Pearce), affetto da perdita della memoria a breve termine (disturbo che sarebbe poi stato ripreso da 50 volte il primo bacio, già citato sopra, ma anche nel personaggio di Dory di Alla ricerca di Nemo della Pixar, chiaro omaggio al film di Nolan), è un esempio magistrale di come attorno ad una singola caratteristica si possa costruire una storia efficace e piena di tensione, tanto che ancora oggi lo ritengo il migliore dei film del regista inglese. Non è strano che mi sia tornato in mente guardando The father, la pellicola diretta e sceneggiata dall’esordiente Florian Zeller (tratta da una sua opera teatrale) che è valsa all’autore francese l’Oscar alla Miglior sceneggiatura non originale (premio condiviso con Christopher Hampton) e ad Anthony Hopkins la sua seconda statuetta come Miglior attore protagonista: a differenza di Memento qui non ci sono misteri da risolvere (anche se il trailer e l’orribile sottotitolo, Nulla è come sembra, cercano senza un buon motivo di suggerire il contrario), ma i punti in comune ci sono e appaiono evidenti sotto almeno due punti di vista.

Vivere la vicenda come i protagonisti

The fatherMemento hanno vinto l’Oscar per il miglior montaggio, ma è significativo che entrambi abbiano avuto perlomeno la nomination: il lavoro di Giorgos Lamprinos e Dody Dorn nelle due pellicole è essenziale per farci scivolare efficacemente nelle vite dei protagonisti, mostrandoci il loro mondo non attraverso i loro occhi ma attraverso la temporalità distorta che sono costretti a esperire.

Leonard Shelby è un detective sui generis, autoassegnatosi il compito di trovare l’assassino della moglie dopo che la polizia si è dimostrata incapace di aiutarlo. A causa di un colpo alla testa infertogli dagli aggressori non è più in grado di immagazzinare nuovi ricordi, perché la sua memoria a breve termine si cancella ogni dieci minuti: metodico per natura, Leonard ha deciso di tatuarsi gli indizi trovati nel corso degli anni direttamente sul corpo, ma può davvero fidarsi del suo metodo e di chi si prodiga per dargli una mano? Nel raccontarci la storia di un uomo il cui mondo si “resetta” più volte al giorno i fratelli Nolan (la sceneggiatura è tratta dal racconto Memento Mori di Jonathan Nolan, anch’essa candidata agli Oscar) hanno la geniale idea di procedere per frammenti, narrando la vicenda fra un blackout e l’altro: viviamo così con Leonard l’angoscia di iniziare da capo la ricerca ogni volta, costretto a fidarsi di persone che, come scopriremo procedendo con la visione, hanno interessi divergenti dai suoi e solo accidentalmente gli sono utili allo scopo…ammesso che lui stesso abbia presente ormai qual è il suo scopo. L’idea di montare la storia a ritroso, partendo dall’epilogo per giungere all’inizio (o almeno ad UN inizio), è efficace per mantenere il mistero di una trama architettata a puntino, ma è sintomo di un’ossessione per la temporalità del regista inglese che diventerà chiara con gli anni più che una necessità legata al disturbo di Leonard: ciò non toglie che sia azzeccata, ma il film è assolutamente godibile anche nella sua versione con gli eventi montati in ordine cronologico, in maniera appropriata intitola Otnemem.

In The father il disturbo che affligge il protagonista è altrettanto subdolo, ma contro di esso non c’è metodo che tenga: piagata dalla demenza senile, la memoria di Anthony viaggia in maniera casuale fra eventi distaccati temporalmente di minuti, giorni o anni, impedendo tanto al protagonista quanto allo spettatore di mettere ordine nella sua vita. Se Leonard Shelby deve affidarsi a chi gli sta intorno per poter proseguire nella sua ricerca, Anthony al contrario è costretto a dubitare per poter mantenere una parvenza di dignità e controllo: meglio diffidare delle badanti e dell’amorosa figlia Anne (interpretata con grande sensibilità da Olivia Colman) piuttosto che di sé stesso, negando fino allo stremo l’incapacità di tenere insieme il castello di ricordi che forma la propria persona. Il film di Zeller è sorretto da ottime recitazioni del ristretto cast, abili a impersonare personaggi che è facile amare e detestare allo stesso tempo (anche Anthony si dimostra in più punti crudele e meschino), ma è il modo in cui è narrata la vicenda a fare la differenza, o sarebbe meglio dire il come NON è narrata: non esiste una trama lineare, un percorso che prevede un inizio e una fine chiari, solo un coinvolgente affannarsi dietro ad eventi cui cerchiamo spasmodicamente di dare un senso, cercando di far finta di niente quando proprio non ci riusciamo.

Sguardi che ricercano la normalità

Io invece lo guardavo negli occhi e vedevo questo lampo di riconoscimento, ma ora so che uno finge, perché se pensi che qualcuno si aspetta che tu lo riconosca fingi di riconoscerlo, fingi per fare piacere ai dottori, fingi per non sembrare diverso.

Leonard Shelby, Memento

“Ti ho mai parlato di Sammy Jankis?”, questo è il tormentone che Leonard Shelby appioppa a tutti quelli che incontra: sospesa fra realtà e immaginazione, quella di Sammy Jankis (Stephen Tobolowsky) è una figura cardine del film di Nolan, perché è tramite la sua esperienza che Leonard viene a conoscenza della sindrome che lo affliggerà in seguito. Da semplice perito assicurativo rampante però Leonard non riesce a credere a Sammy, tanto più che ogni volta che va a trovarlo questi lo guarda come se lo riconoscesse: capirà solo in seguito che di fronte a uno sconosciuto che mostra di riconoscerci la reazione più immediata è quella di assecondarlo, fingendo per apparire normali ai suoi occhi quanto ai nostri.

In questo elemento sta il vero punto d’incontro fra le due pellicole, negli sguardi partecipi di persone che in realtà faticano a mettere insieme i pezzi di ciò che gli accade intorno. Il lampo di riconoscimento negli occhi di Sammy quando Leonard si presenta alla sua porta è lo stesso che Leonard cerca di mostrare col portiere del suo motel, e Anthony in The father non è da meno: la sua mancanza di appigli sul mondo, mimetizzata da una falsa sicurezza e dagli sbalzi umorali con cui cerca di chiudere ogni discorso, si fa evidente quando si assoggetta placidamente alla presenza di Paul (Rufus Sewell), il compagno della figlia di cui non ha praticamente memoria. Anthony finge perché è il modo più semplice per ignorare il problema, convincendosi che va ancora tutto bene e cercando allo stesso tempo di convincere chi gli sta intorno, per quanto la recita sia approssimativa e lo spaesamento si faccia sempre più doloroso da sopportare.

Fingere che vada ancora tutto bene

Non c’è modo più significativo per dimostrare quanto possa essere terribile non poter fare affidamento sulla propria memoria che quegli sguardi, docili e persi allo stesso tempo. Nolan e Zeller hanno perseguito obiettivi diversi con le loro opere ma è significativo che entrambi si siano concentrati su un dettaglio apparentemente marginale, capace però di fare la differenza fra l’avere una buona idea e il tradurla su schermo con la giusta sensibilità.

E ora, visto che qui si parla spesso di musica indipendente, una sigla di chiusura adeguata al tema.

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Racconto in musica 62: Cinque opinioni fuori tempo massimo (Emiliano Mazzoni – Al mio funerale)

Qualche anno fa, mi sembra fossimo intorno al 2010, capito al Legend Club di Milano per vedere le finali di un contest a cui, parecchio tempo dopo, avrei partecipato anche io, Rock Targato Italia. Rispetto a quello che succede di solito, ovvero che le band che mi piacciono finiscono per piacere solo a me, un gruppo che adoro è riuscito ad arrivare in finale alla 21esima edizione: mi fiondo lì perché non so quante occasioni avrò per vederli dal vivo (vedi il discorso sulle band che finiscono per piacere solo a me di cui sopra), e arrivo bello speranzoso con un minimo margine di ritardo, tanto i concerti quando mai iniziano all’orario segnalato?

Di cinque gruppi in finale uno ha già suonato. Quello che sono andato a vedere io.

Però i Comedi Club la vinsero quella finale, o almeno io ricordo così anche se il sito ufficiale del contest segna tipo otto vincitori (fra cui anche loro), e riuscii poi quello stesso anno a rivederli in un tendone del M.E.I., il meeting delle etichette indipendenti, dove fecero un gran casino per la mia gioia. Neanche a farlo apposta l’anno dopo suonai anche io al M.E.I., intorno a mezzanotte davanti a tipo dieci persone (alcune le conoscevamo, le altre avevano suonato appena prima di noi) in un tendone al freddo, tanto che il mio batterista suonò con su il giubbotto: la musica indipendente è foriera di soddisfazioni effimere, contando che pure della partecipazione a Rock Targato Italia ho bei ricordi sul palco e reminescenze di inculata economica poco giustificata a livello organizzativo ma tant’è, se avessi abbastanza memoria per le cose brutte vi darei dettagli che invece sono già sfumati e finiti chissà dove.

Passiamo al 2014 (oggi la prosopopea è bella lunga e temporalmente movimentata eh?), i Comedi Club dopo un ultimo album si sono sciolti e io annego la tristezza in mille altri dischi che mi arrivano a casa, per vie dirette o traverse. Uno di questi è di un cantautore dell’Appenino Modenese, ci metto un po’ di ascolti a farmi incuriosire dal suo nome perché mi ricorda qualcosa ma non so cosa finché, illuminazione improvvisa, ci arrivo: Emiliano Mazzoni era la voce dei Comedi Club!

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando ricevetti Alcool juke box dei Comedi Club, un disco a cui dal nome della band e dalla cover non avrei dato un euro e che invece si rivelò un’incredibile bordata sonora che, pur debitrice di Birthday Party e compagnia suonante, faceva impallidire anche l’esordio de Il Teatro degli Orrori. E a me Dall’impero delle tenebre piaceva davvero un sacco. Ritrovare anni dopo Emiliano Mazzoni in veste cantautorale è stato strano, ma il suo talento e la sua sensibilità non ci hanno messo molto a convincermi, probabilmente il tempo della prima traccia di Cosa ti sciupa, il disco che mi capitò in mano per caso e che mi portò a seguire la nuova fase della sua carriera. Il primo album in realtà Emiliano lo realizza nel 2012: Ballo sul posto ha già tutti gli elementi che contraddistingueranno la sua produzione, la voce profonda, l’inseparabile piano, uno sguardo sul mondo unico che unisce poesia, ironia e un pizzico di surrealismo. Profondo blu, uscito per l’etichetta Private stanze, arriva nel 2016 anticipato per tutti da un singolo, La metà, in cui si traveste da cantante confidenziale (termine che a me ricorda sempre il Presidente Gently di Infinite Jest), e anticipato per me da un concerto in casa mia, piano e voce, di cui ricordo l’intensità e le ombre sui muri, che durante l’esecuzione di questa canzone facevano molto Nosferatu di Murnau. Nel 2017 esce un Ep, Cocktail 7, ma bisogna poi aspettare fino a settembre 2020 per il disco omonimo, prodotto come tutti gli altri dal fidato Luca A. Rossi, otto nuovi brani in cui è possibile trovare la stessa sensibilità e un gusto per l’astrazione forse ancora maggiore, ma sempre affascinante. Potrebbe capitarvi di vederlo suonare al Ristorante Lo Scoiattolo di Piandelagotti, immerso nel suo Appenino Modenese (se non ricordo male non lontano da Giovanni Lindo Ferretti), o almeno così capitava prima della pandemia: speriamo che le buone abitudini non si perdano, ché di musica bella fatta da gente bella in bei posti ne abbiamo sempre bisogno.

Al mio funerale è la traccia che apre Profondo blu e, nonostante il titolo, è una canzone piena di amore e vita, a cui basta l’attacco per strappare un sorriso amaro: “peccato che non c’eri/ è stato bellissimo/ se ci fossi stato, però/ cosa saremmo venuti qui a fare”. Sono partito da qui per immaginare alcune testimonianze rese dai convenuti ad un ultimo addio, pareri personali e anche un po’ scomodi sul caro estinto ma in cui è possibile trovare tracce di un’umanità più vera delle condoglianze di rito: se sia o meno riuscito nell’intento di renderle credibili sta a voi giudicarlo, leggendo il racconto subito dopo lo splendido brano che lo ha ispirato. Buon ascolto, e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Cinque opinioni fuori tempo massimo

D – Mi sono davvero commossa a vederli tutti qui, come una volta. Sarebbe stato bello se avesse potuto vederli anche lui ma va beh, non ci sarebbe stata nessuna commemorazione se fosse stato ancora qui. E poi avrebbe trovato di sicuro qualcosa da ridire, stupido testone che non era altro. Aveva questo talento raro nel rovinare le cose belle, ma in fondo gli volevamo bene lo stesso. Però da lontano.

R – La cerimonia è stata molto bella, davvero. Mi son fatto tre ore di macchina per venire giù e non è che c’avessi proprio sta gran voglia, diciamocelo, perché quando voleva sapeva essere un gran stronzo, e non è che negli ultimi anni non ci fossimo sfanculati a dovere. Però dai, alla fine son contento di essere venuto giù da Milano, pensavo che il prete avrebbe tirato giù tre cose trite e ritrite invece ha fatto un bel discorso, poi è stato bello rivedere anche gli altri e ridere un po’, che per piangere c’è sempre tempo. Certo che al bar per l’aperitivo qualcosa in più di quattro patatine del sacchetto potevano anche darcele, lì sì che sembrava d’essere a un funerale. Mica come a Milano.

G – Che dico io, dovevamo spargere le ceneri. In acqua. Non dico al mare, nessuno se la sarebbe fatta fin là solo per lui. Ma almeno al laghetto, dico, potevamo andarci a spargerle. Invece il Talan s’è messo a menarla con la storia che i pesci poi se lo mangiano e noi ci mangiamo i pesci, che alla fine è un po’ come mangiare lui. Che dico io, con tutto quello che ci buttano nel laghetto che i pesci si mangino lui sarebbe proprio l’ultimo dei problemi.

Secondo me ci teneva, sempre lì a dire che il mondo è la barca di Dio. Secondo me le amava, le barche, e anche l’acqua. Invece l’han seppellito dalla parte del muro che dà sul parco, che dico io alla fin fine non gli è andata neanche così male. Magari sente le coppiette che si baciano dall’altra parte, di notte, e non gli dispiace più di tanto.

S – Era un gran cagacazzo. Non gli andava mai bene niente. Facevamo l’amore e non andava bene, litigavamo e non andava bene neanche così. Facciamo l’amore senza pace, diceva, che poi neanche era sua la frase, la ripeteva giusto perché, l’ho detto e lo ripeto, era un gran cagacazzo. Che poi altro che scopate, più che risse non faceva. L’amore senza pace, che stronzate.

Però io adesso con chi cazzo litigo?

B – Io non ci sono andato al funerale, porco di un boia manco quando crepo ci voglio entrare in una chiesa. L’ho giurato sulla tomba del mio povero padre, che i preti c’erano solo per dargli l’estrema unzione ma per aiutarlo prima non c’erano mai. E così non ci sono andato, né io né gli altri del bar. Siam rimasti lì a sbronzarci di grappa, come avrebbe fatto lui per uno di noi, anche se lui ai preti il culo glielo leccava se serviva e a me sta cosa non mi è mai andata giù. Ma ormai è inutile star lì a guardarsi nel culo l’un l’altro, è andata com’è andata e a un morto gli si perdona tutto.

Salute, compare. Brindiamo alla tua.

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Le novi fasi dell’amore: She, il nuovo album dei Sorry, Heels

Il racconto di una storia d’amore, dal suo inizio al suo epilogo, è qualcosa che è stato cantato in svariate maniere nel mondo della musica, perlopiù in singoli brani melensi di musica pop. A questo sentimento sfuggente sono stati dedicati anche vari concept, e non prendetemi per pazzo se, in apparente opposizione con quanto vado proclamando sul bisogno di supportare la musica indipendente, vi consiglio l’ascolto della puntata di questo podcast dedicata a Questo piccolo grande amore di Claudio Baglioni: è la bravura della giornalista musicale Giulia Cavaliere a renderlo interessante.

I Sorry, Heels, band frusinate con all’attivo due Ep autoprodotti (Wasted, 2013 e Distances, 2014) e un album uscito per l’etichetta finlandese Gothic Music Records (The accuracy of silence, 2015), decidono di dire la loro sull’argomento e di descrivere attraverso la voce di Simona le fasi di una relazione atipica, dall’infatuazione al crollo del sogno amoroso, il tutto attraverso un punto di vista prettamente femminile. She, uscito il 31 maggio per le etichette Shades of Sounds Records e Wave Records, rappresenta anche un brusco cambio di rotta musicale, causato da avvicendamenti interni alla band che hanno portato all’attuale formazione a due (con Simona c’è Davide M. a basso, drum machine, synth, chitarra lo-fi, campanelli e campanacci): abbandonato l’impianto rock dei precedenti lavori il suono scivola su territori elettronici che ben si sposano con la voce algida di Simona, acuendo l’impronta post-punk che caratterizzava la band.

Throught the end, brano apripista del lavoro, già traccia il solco di quello che sarà un percorso caratterizzato più da ombre che da luci. Pochi elementi, una drum machine scarna e ripetitiva, basso cavernoso e una componente elettronica che si nasconde in sottofondo, puntellando qua e là l’architettura minimale. Quello che colpisce è la sensazione di freddezza che scaturisce dagli strumenti, scaldata solo parzialmente dalla voce acuta di Simona e poco affine all’immaginario dell’infatuazione romantica che tutti noi abbiamo (o che cinema e televisione ci hanno inculcato). L’esplodere della passione in She burns mantiene il tono su una ripetizione ossessiva, in cui stridii elettronici e chitarristici (all’album hanno collaborato in qualità di strumentisti Wellworn Banana, Bubi e Filippo Strang, quest’ultimo anche produttore del disco, tutti accomunati dalla militanza nella band indie-shoegaze Flying Vaginas) alimentano l’atmosfera claustrofobica che i Sorry, Heels vanno costruendo brano dopo brano: non è un lieto fine quello che ci aspetta, e il viaggio non può essere che costellato di momenti inquieti.

Mentre accompagniamo la protagonista attraverso l’ossessione e la solitudine, percorrendo un sentiero musicale che rimanda quasi alle cinque fasi dell’accettazione teorizzate da Elisabeth Kübler Ross, la musica continua a dipanarsi in territori perlopiù oscuri e a volte spiccatamente ancorati alle radici del genere post-punk (particolarmente nell’ossessiva Follow signs). La ripetitività delle basi è spesso marcata e rappresenta croce e delizia dei brani che compongono She: quando gli strumenti riescono a intessere un’atmosfera ipnotica attorno al canovaccio ritmico veniamo attirati, altrimenti è la noia che finisce per respingere. My dolls house, sesta traccia e forse l’unico brano che riesce a far entrare un po’ di luce, è il miglior esempio del come i Sorry, Heels siano in grado di avviluppare le orecchie dell’ascoltatore in un mondo sonoro personale e affascinante: la voce di Simona si spande su una base morbida e quasi pop, che nei ritornelli presenta però momenti in cui la melodia si fa quasi dissonante, cullando e inquietando allo stesso tempo.

Sono i dettagli che rendono l’ascolto delle nove tracce dell’album vario e interessante, la chitarra noiseggiante che imperversa lungo Something real, i momenti simil-disco nella rarefazione emozionale di Another lapse. Laddove mancano segni distintivi marcati, invece, i brani non reggono al peso dei minuti, come accade in The void e nella divisione fin troppo netta fra strofe scarne e ritornelli movimentati di The spell’s ballad. In generale il secondo disco dei Sorry, Heels è un esperimento interessante, capace di esplorare il sentimento amoroso in maniera inusuale ma con un sound che solo a tratti dimostra una personalità definita, come se il passaggio a una componente elettronica preponderante debba essere ancora assimilato del tutto: buona l’idea e parte della realizzazione insomma, ora serve una maggiore varietà che ci liberi dall’ossessività o ci faccia immergere nella stessa atmosfera senza cali di tono.


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