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Le novi fasi dell’amore: She, il nuovo album dei Sorry, Heels

Il racconto di una storia d’amore, dal suo inizio al suo epilogo, è qualcosa che è stato cantato in svariate maniere nel mondo della musica, perlopiù in singoli brani melensi di musica pop. A questo sentimento sfuggente sono stati dedicati anche vari concept, e non prendetemi per pazzo se, in apparente opposizione con quanto vado proclamando sul bisogno di supportare la musica indipendente, vi consiglio l’ascolto della puntata di questo podcast dedicata a Questo piccolo grande amore di Claudio Baglioni: è la bravura della giornalista musicale Giulia Cavaliere a renderlo interessante.

I Sorry, Heels, band frusinate con all’attivo due Ep autoprodotti (Wasted, 2013 e Distances, 2014) e un album uscito per l’etichetta finlandese Gothic Music Records (The accuracy of silence, 2015), decidono di dire la loro sull’argomento e di descrivere attraverso la voce di Simona le fasi di una relazione atipica, dall’infatuazione al crollo del sogno amoroso, il tutto attraverso un punto di vista prettamente femminile. She, uscito il 31 maggio per le etichette Shades of Sounds Records e Wave Records, rappresenta anche un brusco cambio di rotta musicale, causato da avvicendamenti interni alla band che hanno portato all’attuale formazione a due (con Simona c’è Davide M. a basso, drum machine, synth, chitarra lo-fi, campanelli e campanacci): abbandonato l’impianto rock dei precedenti lavori il suono scivola su territori elettronici che ben si sposano con la voce algida di Simona, acuendo l’impronta post-punk che caratterizzava la band.

Throught the end, brano apripista del lavoro, già traccia il solco di quello che sarà un percorso caratterizzato più da ombre che da luci. Pochi elementi, una drum machine scarna e ripetitiva, basso cavernoso e una componente elettronica che si nasconde in sottofondo, puntellando qua e là l’architettura minimale. Quello che colpisce è la sensazione di freddezza che scaturisce dagli strumenti, scaldata solo parzialmente dalla voce acuta di Simona e poco affine all’immaginario dell’infatuazione romantica che tutti noi abbiamo (o che cinema e televisione ci hanno inculcato). L’esplodere della passione in She burns mantiene il tono su una ripetizione ossessiva, in cui stridii elettronici e chitarristici (all’album hanno collaborato in qualità di strumentisti Wellworn Banana, Bubi e Filippo Strang, quest’ultimo anche produttore del disco, tutti accomunati dalla militanza nella band indie-shoegaze Flying Vaginas) alimentano l’atmosfera claustrofobica che i Sorry, Heels vanno costruendo brano dopo brano: non è un lieto fine quello che ci aspetta, e il viaggio non può essere che costellato di momenti inquieti.

Mentre accompagniamo la protagonista attraverso l’ossessione e la solitudine, percorrendo un sentiero musicale che rimanda quasi alle cinque fasi dell’accettazione teorizzate da Elisabeth Kübler Ross, la musica continua a dipanarsi in territori perlopiù oscuri e a volte spiccatamente ancorati alle radici del genere post-punk (particolarmente nell’ossessiva Follow signs). La ripetitività delle basi è spesso marcata e rappresenta croce e delizia dei brani che compongono She: quando gli strumenti riescono a intessere un’atmosfera ipnotica attorno al canovaccio ritmico veniamo attirati, altrimenti è la noia che finisce per respingere. My dolls house, sesta traccia e forse l’unico brano che riesce a far entrare un po’ di luce, è il miglior esempio del come i Sorry, Heels siano in grado di avviluppare le orecchie dell’ascoltatore in un mondo sonoro personale e affascinante: la voce di Simona si spande su una base morbida e quasi pop, che nei ritornelli presenta però momenti in cui la melodia si fa quasi dissonante, cullando e inquietando allo stesso tempo.

Sono i dettagli che rendono l’ascolto delle nove tracce dell’album vario e interessante, la chitarra noiseggiante che imperversa lungo Something real, i momenti simil-disco nella rarefazione emozionale di Another lapse. Laddove mancano segni distintivi marcati, invece, i brani non reggono al peso dei minuti, come accade in The void e nella divisione fin troppo netta fra strofe scarne e ritornelli movimentati di The spell’s ballad. In generale il secondo disco dei Sorry, Heels è un esperimento interessante, capace di esplorare il sentimento amoroso in maniera inusuale ma con un sound che solo a tratti dimostra una personalità definita, come se il passaggio a una componente elettronica preponderante debba essere ancora assimilato del tutto: buona l’idea e parte della realizzazione insomma, ora serve una maggiore varietà che ci liberi dall’ossessività o ci faccia immergere nella stessa atmosfera senza cali di tono.


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Pubblicato da Ficky

Nel (poco) tempo libero scrivo racconti, guardo film e serie tv, leggo libri, recito in una compagnia teatrale, partecipo a eventi culturali e vado a vedere un sacco di concerti. Ho scritto per anni di musica (Indie-zone, Stordisco, Asapfanzine) e spero di trovare il tempo di farlo ancora per molti anni a venire.

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