Piano piano cominciano ad arrivare contributi esterni per il blog, e sono orgoglioso di ospitare il secondo novarese di fila. Luca Ottolenghi, giornalista nella vita, oltre a essere un amico è soprattutto uno scrittore: autore del romanzo Questa terra, edito da Iemme e vincitore del bando SIAE/Mibact per nuove opere Sillumina – Copia privata per i giovani, per la cultura nel 2016, Luca ha partecipato e curato anche l’antologia NO – Dieci racconti per un nuovo immaginario novarese, dove è presente col racconto La pacchia scritto a quattro mani con Dembo Djabi.
Il suo racconto per Tremila Battute è anch’esso ancorato alla città di Novara, scossa da avvenimenti che vi lascerò il piacere di scoprire più in basso, ma l’ispirazione di partenza viene dal brano di una band molto lontana. I Sigur Rós, gruppo islandese sperimentale attivo fin dal 1994, sono riusciti fin dagli albori della carriera a creare un proprio suono riconoscibile e in continua mutazione, un post rock rarefatto cantato in una lingua immaginaria dal vocalist Jón þór Birgisson e permeato dagli spazi immensi della loro terra (sulla cui scena musicale vi consiglio di recuperare questa puntata del podcast L’audionario, realizzato dal giornalista e autore televisivo Francesco del Gratta). Ég anda è la traccia che apre Valtari, sesto album della band uscito nel 2012.
Una storia che parla di fuoco non poteva che avere la musica di una band della terra dei vulcani ad accompagnarla: sotto trovate la canzone, seguita dal racconto, io non posso che augurarvi per l’ennesima volta buon ascolto e buona lettura.
Pirocene, di Luca Ottolenghi
L’uomo cammina sulla strada Mercadante sotto un cielo color dell’oro.
Alle sue spalle, la città è in fiamme.
L’asfalto è crepato in superficie, come tutta la terra che lo circonda e che un tempo ospitava le risaie. Tra le fenditure affiorano rivoli di lava che lentamente ricoprono campi e sentieri.
Ovunque è incandescenza e siccità.
Gli scienziati l’avevano battezzata “Pirocene”: l’era del fuoco. Una fatalità geologica tanto semplice quanto inevitabile.
Inizialmente i novaresi avevano guardato al Cataclisma con sufficienza, pensavano che da loro non sarebbe mai arrivato: erano sempre gli altri i paesi toccati dalle sciagure.
«A Novara non succede mai niente», scherzavano tutti durante l’aperitivo alla Brace. «Neanche l’Apocalisse».
L’uomo sta andando incontro al suo ultimo desiderio. Ogni passo è accompagnato dall’eco lontana delle frane. Tutta la catena alpina alle sue spalle si sta sgretolando. Alcune cime esplodono, non riescono più a trattenere la lava che risale dal nucleo imbizzarrito.
Al secondo bivio l’uomo imbocca la strada sterrata che conduce al ponte, il luogo dove si erano conosciuti anni prima e dove ogni tanto, nei giorni felici, tornavano ad ascoltare il torrente.
Dicevano sempre che quel ponte era una presenza distopica lì in mezzo alle campagne: sembrava scampato a una guerra mondiale, o all’Apocalisse.
L’uomo supera le rovine della cascina San Maiolo, circondata di cadaveri su cui i corvi e i cani randagi si accaniscono famelici.
Anche gli aironi partecipano al banchetto; quei maledetti erano i più ingordi di carne umana.
Lì si era combattuta l’ultima battaglia di Novara: un manipolo di sopravvissuti si era scannato per accaparrarsi le porzioni di riso rimaste.
In lontananza l’uomo vede il ponte. È stanco, crede di non farcela. Ma la voce di lei, da qualche parte nell’aria, lo sprona a continuare. Gli dice «Vieni».
Anche per questo ignora i lamenti e le richieste d’aiuto di una coppia caduta nella roggia. Li riconosce, sono i suoi ex vicini di casa: da quando era rimasto solo lo salutavano a fatica e per strada facevano finta di non conoscerlo.
L’uomo continua la sua marcia in un crescendo di vibrazioni telluriche. Con fatica riesce finalmente a salire sul vecchio ponte, interrotto a metà proprio sopra l’Agogna, ora ridotta a un letto di fango e carcasse di nutrie che sta per essere inondato di lava.
Vede la donna quasi in trasparenza. Le appare seduta di spalle sul bordo estremo del ponte, ha le gambe penzoloni nel vuoto come faceva sempre ai loro appuntamenti.
La vede voltarsi e sorridergli, sembra dirgli qualcosa, appena prima dell’esplosione del Monte Rosa.
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La società non avrà fretta di riconoscerci un’autorità. Essa è destinata a opporci resistenza perché noi abbiamo un atteggiamento critico nei suoi confronti: noi le dimostriamo ch’essa stessa svolge un’importante funzione nella causazione delle nevrosi. Nello stesso modo in cui ci rendiamo nemico il singolo scoprendo ciò che in lui è rimosso, così anche la società non può rispondere con cortese accoglienza alla spregiudicata messa a nudo delle sue insufficienze e dei danni che essa stessa produce.
Sigmund Freud, Le prospettive future della teoria psicoanalitica
Queste parole di Freud sono meno famose del suo “non sanno che gli portiamo la peste”, pronunciato allo sbarco negli Stati Uniti, ma sono altrettanto profetiche, non tanto per l’opposizione della società alla psicoanalisi quanto per le correlazioni fra nevrosi e terreno sociale.
Pensare di vivere in un periodo peggiore di altri è un atteggiamento che si può riscontrare in qualsiasi altro periodo storico. Già l’anonimo autore del papiro egizio codificato come Berlino 7024 lamentava “A chi parlerò oggi? I fratelli sono malvagi. Gli amici non sanno amare. I cuori sono avidi”, ed è vissuto duemila anni prima di Cristo. Anche nel Giappone feudale, in preda a grandi cambiamenti, si pensava che la tempra degli uomini fosse peggiore di quella degli antenati: Yamamoto Tsunetomo, autore dello Hagakure, rispondeva a queste critiche in maniera esemplare.
Lo spirito di un’epoca è qualcosa a cui non possiamo tornare. […] È importante trarre il meglio da ogni generazione.
L’errore di chi ha nostalgia del passato sta nel fatto che non afferra questo principio.
Ma coloro che mostrano considerazione solo per la realtà attuale, ostentando disprezzo per il passato, appaiono molto superficiali.
Yamamoto Tsunetomo, Hagakure
Fra il pessimismo dell’anonimo egiziano e il solo apparente ottimismo di Tsunetomo (monaco ed ex samurai che, per inciso, avrebbe preferito il suicidio rituale a una vita non al servizio del proprio daymio) c’è un mare di sfumature. Idealizzare il passato serve a poco, ma una fede cieca nel progresso della società moderna può essere altrettanto deleteria.
Due libri mi hanno fatto molto riflettere su come la società può incidere sulla vita dei singoli, sui meccanismi a cui siamo asserviti e che cambiano la nostra percezione dell’altro: sono Il nostro desiderio è senza nome di Mark Fisher e Hikikomori – I giovani che non escono di casa di Marco Crepaldi.
Capitalismo e disturbobipolare
Mark Fisher è stato uno scrittore e critico culturale inglese. Attraverso il suo blog K-punk ha parlato di musica, cinema, cultura in generale e, spesso e volentieri, società. Il nostro desiderio è senza nome, edito da Minimum Fax, raccoglie tutti i suoi scritti politici apparsi nel blog, ed in particolare è una lucida e spietata critica del capitalismo e dei movimenti politici che gli hanno permesso di infiltrarsi in ogni ambito delle nostre vite.
L’attuale ontologia dominante esclude ogni possibilità di causa sociale della malattia mentale. La biochimizzazione della malattia mentale è ovviamente legata a doppio filo alla sua de-politicizzazione. Concepire la malattia mentale come un problema biochimico individuale offre enormi vantaggi al capitalismo: innanzitutto rinforza la spinta del capitale verso l’individualizzazione atomistica (se sei malato dipende dalla chimica del tuo cervello), in secondo luogo crea un mercato enormemente redditizio che permette alle “psicomafie” multinazionali di spacciare i loro loschi farmaci.
Mark Fisher, Il nostro desiderio è senza nome
Ho trovato particolarmente interessante le sue correlazioni fra disturbi bipolari e società capitalistica. In un mondo in cui il lavoro si è fatto sempre più precario il tempo “cessa di essere lineare, diventando caotico e puntiforme”. L’impossibilità di pianificare un futuro ci attanaglia, e in casi estremi si può arrivare a esempi come quello dell’autore di Non-stop inertiaIvor Southwood, citato nel libro, che nel periodo in cui viveva di contratti a breve termine offerti all’ultimo minuto da agenzie interinali si è visto rimproverare la negligenza di essere andato per dieci minuti al supermercato, perdendo in quel lasso di tempo un’opportunità di lavoro: nelle sue stesse parole “dieci minuti sono un lusso che il lavoratore giornaliero non si può permettere”.
Fisher nei suoi articoli parla di questa condizione utilizzando il termine privatizzazione dello stress, una condizione di isolamento che, paradossalmente, è acuita dalla continua connettività e dalla mole di informazioni che abbiamo a disposizione, che ci appare indispensabile processare in un mondo in cui la competizione è serrata. Soluzioni come il “volontarismo magico”, ovvero l’assicurazione che se non abbiamo successo è solo perché “non abbiamo lavorato abbastanza duramente per rimettere insieme noi stessi”, sono anche peggio della cura, perché amplificano l’individualismo dei soggetti. Da qui si arriva al concetto di Solidarietà negativa, preso a prestito da Axel Williams, un modo di pensare che ci permea e ci porta a guardare gli altri come avversari da abbattere o, al massimo, sfruttare per i propri fini.
Si tratta della tendenza dei soggetti neoliberisti alla “corsa al ribasso”. Se altri vengono percepiti come beneficiari di risorse e sussidi che “non si sono meritati”, bisogna non soltanto negarglieli, ma mortificarli pubblicamente per il fatto di esigerli. Tutti devono “camminare con le proprie gambe”.
Mark Fisher, Il nostro desiderio è senza nome
La società capitalistica moderna, secondo Fisher, ci ha portati ad indurirci come individui per far fronte al graduale abbandono istituzionale ed esistenziale. Il futuro è “un ambiente dominato da competizione e insicurezza perpetua”, in cui fidarsi degli altri è una debolezza che non ci possiamo permettere.
La pressione della società e gli hikikomori
Questo concetto di società in cui la competizione è esasperata e la solidarietà ai minimi storici si lega a doppio filo col secondo libro di cui voglio parlare. Hikikomori – I giovani che non escono di casa, scritto dal fondatore dell’associazione Hikikomori Italia Marco Crepaldi e pubblicato da Alpes, è un’accurata indagine di un problema sociale che, sebbene radicato principalmente in Giappone, ormai investe tutte le società capitalistiche.
L’hikikomori può essere allora interpretato come una pulsione all’isolamento fisico, continuativa nel tempo, che si innesca come reazione alle eccessive pressioni di realizzazione sociale, tipiche delle società economicamente sviluppate.
Marco Crepaldi, Hikikomori – I giovani che non escono di casa
Il fenomeno degli hikikomori si fece strada in maniera sotterranea dagli anni 70-80, all’interno di una società che non ci teneva a far vedere quali potevano essere gli effetti collaterali del proprio modello di successo. Fu una pubblicazione del giovane psichiatra Takami Saitõ nel 1998 ad aprire gli occhi sul problema dei giovani che, senza apparenti motivi, decidevano di autorecludersi e limitare quasi totalmente le proprie relazioni fisiche con l’esterno.
Nella società giapponese, dove l’identificazione col gruppo di appartenenza è essenziale nella formazione della propria identità, una delle cause principali fu la pratica nelle scuole dell’ijime, consistente nel tormentare ed escludere gli elementi più deboli della classe. Se è difficile immaginare come una pratica simile, non distante dal bullismo nostrano, possa aver portato a danni così grandi (i primi dati resi pubblici dal governo giapponese, nel 2010, parlavano di 696 mila casi), è più facile pensare a come possano incidere su menti fragili le pressioni che noi stessi subiamo costantemente.
Il capitalismo si basa sulla domanda e sull’offerta e, di conseguenza, sulla capacità di accaparrarsi i beni disponibili attraverso una migliore performance. Questo tipo di meccanismo può portare solo in una direzione, ovvero a un progressivo innalzamento dell’asticella e quindi delle competenze richieste per far parte del sistema. Tutto ciò si traduce in una competizione scolastica, lavorativa e sociale sempre più feroce dove a farne le spese sono coloro che non riescono a trovare la forza o la motivazione per tenere il passo, venendo di conseguenza lasciati dietro.
Marco Crepaldi, Hikikomori – I giovani che non escono di casa
Crepaldi trova tre motivazioni per l’impulso all’isolamento fisico che contraddistingue gli hikikomori. Uno è prettamente economico, in quanto chi si isola difficilmente è in grado di badare a se stesso se non con l’aiuto dei genitori, uno sociale, spiegato dal paragrafo soprastante, e un terzo che invece riguarda il fatto che nella società del benessere i bisogni primari sono garantiti: l’attenzione si sposta maggiormente quindi sulla realizzazione personale, una necessità che ribalta la Piramide di Maslow diventando spesso il nostro bisogno primario.
Rispetto al libro di Fisher quello di Crepaldi è, per ovvi motivi, più interessato a proporre un’analisi globale del fenomeno e sondare le possibili soluzioni, ma i punti in comune sono molti. L’aumento del numero di depressi osservato dall’OMS, del consumo di psicofarmaci anche fra i giovani, la mancanza di un tessuto sociale che dia un senso all’esistenza (cui contribuisce il crollo delle religioni) fanno parte del problema comune che i due libri affrontano.
C’è molto altro nei due libri rispetto ai pochi estratti che ne ho estrapolato, ma quanto qui scritto spero porti a una riflessione profonda, a cui voglio aggiungerne una personale. Mai come oggi siamo bombardati di notizie, e tutto questo ci sbatte in faccia quotidianamente quanto e come i comportamenti che teniamo incidono sul nostro futuro. Inquinamento, disparità sociale, discriminazione: per quanto facciamo, nel nostro piccolo, avere le mani pulite è possibile solo in una società completamente riformata. A questa pressione c’è chi sfugge con l’atteggiamento contrario, ostentando il proprio disinteresse quasi fosse un merito, una forma di autodifesa che si amplifica tanto più i nostri errori vengono ritenuti imperdonabili. Non dovremmo usare la nostra fallibilità come scusa per sentirci legittimati a fare quel che vogliamo, ma semplicemente farci pace e fare del nostro meglio: come Sartre fa dire al personaggio di Anny, all’interno de La nausea, “ciò che sarebbe sciocco sarebbe di essere sempre stoici: ci si esaurirebbe per niente”.
La ricodificazione di una società intera è un processo lungo e difficile, di cui si fa fatica anche a gettare le basi, ma il rapporto con l’altro è qualcosa che invece possiamo modificare giorno per giorno, partendo dalla nostra cerchia ristretta. Non sono in grado di dire se stesse meglio l’anonimo egiziano che scrisse il papiro quattromila anni fa o un giovane soggetto alle pressioni sociali del mondo moderno, certo ci troviamo in un contesto sociale in cui l’individuo è sempre più isolato: è necessario almeno fare il possibile per non ampliare questa distanza interpersonale.
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Gli /handlogic sono già apparsi su questo sito, dato che avevo deciso di scrivere una recensione del loro primo disco Nobodypanic. Ascoltando il loro ultimo singolo Communicate sono stato colpito dalle prime righe del testo: “I don’t have a tongue/ no mother tongue/ to tell my own song/ I only speak in my mind. Il tema della difficoltà di comunicazione lo sento molto vicino, e il modo in cui lo affrontano gli /handlogic mi è sembrato tanto delicato a livello di testo quanto energico nella resa musicale.
La storia che ho tratto dalla loro canzone ha meno delicatezza, ma cerca di mantenere la stessa energia. È un monologo, forse interiore, forse esteriore, forse entrambe le cose: preferisco lasciare l’interpretazione a chi legge, nella speranza di aver reso giustizia alla fonte d’ispirazione. Fedele al tema non mi perdo in ulteriori chiacchiere: buon ascolto, e buona lettura.
Intermittenze
Avanti, non fare così. Cosa credi di risolvere? Dovresti capirlo che tutto questo è semplicemente ridicolo. Pensi che potrà mai amarti? Non c’è altra persona per te all’infuori di me. Per il resto del mondo non vali niente.
Ascoltami. Non fare finta che non esista. Non puoi dimenticare la mia voce, la mia bocca. Quanto ti piaceva baciarla? Le parole che ti sussurravo prima di addormentarci, riusciresti a dormire ancora se non ci fossero più? Se dovessi dimenticarle? Non pensare solo alle urla, cerchi sempre di passare per la vittima. Non è colpa mia se sei debole. Mi devi la vita, il minimo che tu possa fare è ringraziare e smetterla con questa sceneggiata.
Fermati! Cosa stai facendo? Dov’è la mia voce? Oddio la bocca! Cosa stai facendo alla mia bocca? Mi farai soffocare! Come puoi farmi questo, dopo tutto quello che abbiamo vissuto? Smettila immediatamente! Mi fai male, sei crudele! Fermati ho detto!
Guardami!
Ecco, così. I miei occhi, come puoi volerli scordare? Non c’è persona al mondo che ti guarderà mai come facevo io. Ci avevi scritto una poesia, ricordi? La luce dell’universo intrappolata in iridi nere, sono parole tue. Sì, era bellissima. Quasi mi pento di averla strappata. Ma te lo meritavi, ammettilo. Pensa alle carezze che ti ho lasciato con queste mani, non solo ai graffi e agli schiaffi. Qualche livido non ha mai fatto male a nessuno. Bisognava pure che imparassi come si sta al mondo. Senza di me non puoi fare un passo, sono la tua dipendenza. Coraggio, ora vieni via da quel tavolo. Non fa per te.
Ancora? Smettila di ribellarti! Cosa credi di fare? Non ce la potrai fare senza di Le mie mani! Come hai potuto? Non puoi crederci veramente, dopo tutto quello che ho fatto per Ah! Le mie gambe! Correvamo insieme, non mi lasciare indietro, ti prego! Fallo per noi! Patetica creatura morirai senza di me, morirai fra atroci tormenti, sai solo fallire, fallire, fal No! Scusa ti prego ho pau come p Ricordami! Perc la m Dove sono? Obl t eg è bu eddo non Lasciami parlare per un ult
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Ho scoperto da poco la casa editrice Black Coffee, anche grazie al podcast presente sul loro sito e sul contenitore Storie libere. Specializzata in letteratura nordamericana contemporanea, con una propensione per le voci fuori dal coro e per la forma racconto, era solo questione di tempo prima che un loro libro finisse fra le mie mani. Ero attratto da Lingua nera di RitaBullwinkel, curioso di scoprire di più su una maestra del racconto come Joy Williams (di cui Black Coffee ha edito l’antologia di tutti i racconti L’ospite d’onore), infine mi sono orientato sulla raccolta Happy hour di Mary Miller.
“Quando mi lascerai, non lascerai me, penso, ma la ragazza che pensavi che fossi, una che mi somiglia ma che non sono io.“
Un tempo questo era il passaggio coperto più lungo del mondo
Le protagoniste dei racconti della Miller hanno tutte vite problematiche sull’orlo dell’indigenza, rapporti con l’altro sesso che si trascinano stancamente (spesso con almeno un divorzio alle spalle) e, più in generale, nessuna vera aspirazione. Come molta letteratura nordamericana quello che si vive nelle pagine di Happy hour è il crollo del sogno americano, il punto di vista di persone che non sperano nemmeno più che le cose possano cambiare, di sicuro non in meglio. Meglio attaccarsi a quello che si ha, anche se non soddisfa, anche se restare immobili fa comunque male.
Tutti i racconti sono ambientati nel sud degli Stati Uniti, una realtà nella quale, prendendo a prestito le parole di una delle protagoniste, i giovani (del college) “sono ipersensibili verso il sessismo, ma non altrettanto verso razzismo e classismo”. In una bella intervista sul sito della casa editrice l’autrice si lamenta della mentalità delle sue zone d’origine in questi termini:
La bandiera confederata è ancora parte della bandiera del nostro Stato. La mattina accendo la radio e mi vergogno come una ladra a sentire tutta la merda che dicono questi (bianchi) razzisti, sessisti, omofobi…
…Non amo nemmeno parlar male del posto in cui vivo, e non è necessariamente colpa della gente. Il punto è che non ne sappiamo un granché di cosa avviene fuori di qui. La gente non conosce un modo di vivere diverso, e teme ciò che non conosce…
…Perché non me ne sono ancora andata è una domanda che mi pongo tutti i giorni e alla quale non ho ancora trovato una risposta.
Quest’ultima è più o meno la stessa domanda che si pongono le protagoniste dei racconti. Nessuna di loro è veramente dipendente da qualcuno o qualcosa, anzi spesso sono donne che hanno saputo lasciarsi alle spalle situazioni anche peggiori, eppure sembra che il fallimento e l’insoddisfazione le inseguano. Vengono dipinte in momenti banali della loro vita, mai ad un punto di svolta, come se per loro l’apice fosse qualcosa di irraggiungibile. Il massimo a cui possono aspirare è un lavoro emotivamente lacerante in un istituto di accoglienza per minori vittime di abusi, come in Un amore grande, grosso e cattivo, o la possibilità di viaggiare a spese di un’amica insopportabile che ha vinto alla lotteria (Prima classe).
“Terry è davvero convinto che stia arrivando l’apocalisse. Darcie credeva che stessero solo giocando, ma non è così: secondo lui la fine è vicina perché desidera che lo sia.”
Hamilton pool
La Miller utilizza quasi sempre la prima persona, immedesimandosi nei gesti quotidiani delle sue protagoniste (a proposito del suo romanzo d’esordio Last days of California un critico ha dichiarato “[Elise] e Jess trascorrono più tempo in bagno di qualsiasi altro protagonista di qualsiasi altro romanzo di cui sia a conoscenza”), descrivendo con misura vite inquietanti vissute come perfettamente normali. Il sarcasmo è molto presente, una delle poche difese che le protagoniste riescono a erigere attorno a sé stesse per non sprofondare nella completa apatia, ed è un particolare che rende i racconti scorrevoli e piacevoli nonostante i temi trattati. Dove calca più la mano sul disagio, come nel già citato Un amore grande, grosso e cattivo o nello splendido Le mele dell’amore (tutto scritto in seconda persona, esercizio di stile assolutamente non fine a sé stesso), Miller lo fa senza perdersi in drammatizzazioni inutili ma mostrando la realtà quale è, il che basta e avanza. Una realtà in cui purtroppo i gesti di altruismo sono rari, e quei pochi sono permeati da un alone di fatalismo.
Fra i ringraziamenti alla fine della raccolta ce n’è uno dedicato ai propri ex, “per avermi fornito materiale ancora per molti anni a venire”. È certo che l’esperienza personale dell’autrice sia molto presente, anche con citazioni di film e libri (fra cui lo splendido Il museo dei pesci morti di Charles D’Ambrosio, altra raccolta di racconti da recuperare), ma più di tutto quello che sembra emergere è il sentimento di un paese che non riesce a reimmaginarsi, dove vivere ai margini della società è vissuto come un destino ineludibile. Ho letto un interessante articolo sull’esordio letterario di Claire Vaye Watkins, Nevada, in cui il “desert state” permea i protagonisti dei racconti, descritti come “riflessi sbiaditi di esistenze vissute da altri, ma che sono filtrate nelle loro vene, rendendoli lo stampo di chi li ha preceduti”. Libri come Happy hour sono un’ottima lettura, ma mi chiedo quanto l’aridità di queste vite vuote e le utopie negative, che al contrario di quelle positive abbondano, ci stiano privando della capacità di immaginare un mondo diverso.
“Lo capisco anch’io che l’unico modo che abbiamo di cavarcela è restare in mezzo a disabili e ubriaconi, legare le nostre vite alle tristi e inutili esistenze di gente messa peggio di noi.
Sporca
Non voglio fare il saputello, anche io fatico a scrivere qualcosa che abbia un messaggio positivo senza sentirmi finto o banale. Forse dovremmo solo imparare a prendere ciò che ci serve dalla letteratura: nel caso dei racconti di Mary Miller una prosa incisiva, mai spettacolarizzata, e una serie di esempi da tenere a mente quando guardiamo le nostre vite dall’esterno.
Racconti preferiti: La casa di Main Street, Un amore grande, grosso e cattivo, Verso l’alto, Le mele dell’amore.
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Ogni racconto di questo blog nasce con una canzone come ispiratrice, ma per questa volta ho fatto un’eccezione. Pur prendendo parte dello spunto dall’immaginario creato dagli Alt-J nella loro Hunger of the pine, e dallo splendido video che la accompagna, la scintilla iniziale è stato il quadro che vedete qui sotto.
L’autore è Andrea Spinelli, e ha realizzato un progetto che mischia le arti ben prima di me. Da qualche anno fa il live painter, ovvero dipinge gli artisti mentre si esibiscono sul palco. Negli anni ne ha ritratti più di trecento, fra cui Afterhours, Marta Sui Tubi, Ex Otago, Daniele Silvestri e Iosonouncane. Col suo pennello ha partecipato a manifestazioni come il 68° Festival di Sanremo, il MEI 2016, il Concerto del Primo Maggio 2017 e il Primo Maggio Libero e Pensante 2018 di Taranto, ha firmato la locandina per la data di Madrid del tour europeo 2018 di Levante e molto, molto altro.
Gli Alt-J (o Δ) sono invece una band britannica che ha cominciato a far parlare di sé fin dal debutto An awesome wave, caratterizzandosi per un suono che prende tanto dall’indie rock quanto dal folk e dall’elettronica. Nonostante abbiano all’attivo solo tre album sono già un nome di punta nella scena rock internazionale, tanto che comparivano fra gli headliner del Mad Cool Festival di Madrid nel 2017 accanto a Foo Fighters, Green Day, Kings Of Leon, Foals e Wilco (e io c’ero). Hunger of the pine è tratta dal secondo album della band, This is all yours, uscito nel 2014.
Già da mesi pensavo di tirare fuori una storia da questo connubio di influenze, visto che mi si era stampata in testa da subito l’idea di una particolare simbiosi uomo-natura. Finalmente il parto è avvenuto, e sotto potrete leggere il risultato. Oltre al solito augurio di buon ascolto e buona lettura aggiungo quello di buona visione, dato che vi invito calorosamente a visitare i canali instagram, facebook e il sito di Andrea Spinelli per perdervi all’interno del suo mondo di suoni e colori.
Interno verde
Qualcuno mi ha detto che vestito così, di marrone e verde, sembro anch’io parte degli alberi e gli rispondo magari fosse così, magari, ma non mi credono.
Forse è perché ho una bella vita, ho una moglie e due figli che adoro, mi fanno sentire speciale, a me, che non è che sia poi così intelligente, davvero. Non so cos’avrei fatto senza di loro, davvero.
Il loro amore mi fa sentire in colpa quando di notte mi sveglio e piango e non so perché, dovrei essere felice, qui ho tutto non come quelli che vivono fuori città. Abitano in delle roulotte, li vedo sempre al market a comprare bottiglie di alcolici o a chiedere l’elemosina fuori dai negozi del centro. Loro sono quelli sfortunati, non io.
Non piango mai quando sono lassù. Mi arrampico lungo il tronco, assicuro l’imbragatura e do gas alla motosega, taglio i rami, li guardo cadere in basso e penso che almeno in qualcosa sono bravo, davvero. Sto facendo il mio lavoro, lo sto facendo bene.
Gli alberi non mi giudicano. Sento che c’è qualcosa di giusto in quello che faccio.
Vorrei sentirmi sempre così.
Non so perché ogni tanto arriva quel vuoto. Forse è perché mentre sono là in alto so che la terra non può spalancarsi e inghiottirmi, è un pensiero stupido lo so ma non sono bravo a trovare le risposte e continuo a svegliarmi la notte e a sentire che c’è qualcosa di terribile che si avvicina e che prima o poi mi prenderà.
Mi danno delle medicine, per stare meglio. Mi fanno venire sonno, se ne sono accorti anche a lavoro che quando le prendo poi mi arrampico più lentamente. Dicono che dovrei rimanere a terra, ma io dico cosa mi danno le medicine a fare se poi non posso fare quello che mi fa stare meglio? Ma mia moglie insiste tanto per farmele prendere, dice che posso sempre lavorare in ufficio e io la amo troppo e così certi giorni li passo seduto, alla scrivania, faccio cose che non capisco e poi guardo fuori gli alberi, così alti.
Voglio smetterla di avere i brividi, smetterla di sentirmi in colpa perché non voglio e non so spiegare che se anche tutto va bene io mi sento male. Ma così è peggio, muoio solo più lentamente.
Per questo quando un giorno mi lasciano salire e il tronco si apre io dico va bene così, non vi preoccupate, non piangete. Ora sarò davvero con gli alberi. Penso a mia moglie e ai miei figli, solo un attimo, spero che trovino le mie scuse sulla corteccia perché mi spiace andarmene così ma poi all’improvviso sono libero e non importa, non importa più niente.
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È strano parlare di un libro di cui si è vista la genesi, anche se molto parzialmente. Ho conosciuto infatti l’autrice de La parola magica, Anna Siccardi, frequentando la scuola Belleville di Milano, e ricordo di averla sentita parlare di un progetto legato ai dodici passi del programma di recupero degli Alcolisti Anonimi. Di quel periodo ricordo anche un suo piccolo racconto nato da un esercizio della scuola, la storia di un gruppo di bambini che organizza una corsa di lumache ai tempi del fascismo, delicato e inquietante al tempo stesso: uno dei tanti motivi che mi hanno spinto a recuperare il libro a breve distanza dalla sua uscita.
Pur nella sua diversità di stile La parola magica mi ha ricordato A misura d’uomo di Roberto Camurri. Come in quel libro si intersecano le vite di vari personaggi, unite da fili sottili che diventano più evidenti man mano che si procede con la lettura, anche se in questo caso l’ambientazione è urbana (Milano al posto della “provincia cronica” di Fabbrico) e gli eventi si svolgono in un arco di tempo più limitato, escluso qualche flashback. Se l’esordio di Camurri è stato definito un romanzo in racconti mi sento di associare alla stessa categoria anche il libro della Siccardi, che conferma l’abilità della casa editrice NNE nello scovare nuovi talenti.
I protagonisti del romanzo hanno tutti qualche problema, piccolo o grande che sia, che hanno cercato di superare sprofondando a tempi alterni nelle dipendenze. Leo, che conosciamo nel primo racconto Minibar, ci è ancora invischiato completamente; Irene sta cercando faticosamente di uscirne con costose sedute dalla psicologa che non sembrano aiutarla; Anna se l’è lasciata indietro, ma il presente porta nuove sfide da affrontare, nello specifico un padre incarcerato a San Vittore. Incrociando i destini di questi e altri personaggi in maniera più o meno diretta, Anna Siccardi li accompagna verso l’accettazione di sé seguendo il percorso dei dodici passi citati in apertura, collegando ognuno di questi a uno dei capitoli del romanzo. Non tutti avranno il coraggio di affrontare apertamente i propri demoni, altri troveranno nuove compulsioni con sostituire quelle vecchie, ma il percorso li cambierà tutti profondamente.
Pur avendo una scrittura piacevole e scorrevole, abile nel tratteggiare le vicende senza dire più del necessario, ammetto di essere stato catturato completamente da La parola magica solo al quarto capitolo, Membrana. La vicenda di un impiegato delle pompe funebri, finito a fare quel lavoro per caso e che scopre di esserci in qualche maniera portato, e del suo incontro con due fratelli che hanno appena perso la madre è di una delicatezza rara.
“La membrana è un’apnea, una commozione cerebrale, anche chi si professa ateo si trova a parlare con il suo morto, a chiedergli di che colore vorrebbe le rose e da quale requiem vorrebbe essere accompagnato. E tu puoi sentirti un semplice burocrate, uno spazzino, ma io credo di essere anche qualcosa di più, come un prete prima del prete: lui accompagna il defunto a Dio, io sono l’ultimo tramite d’amore per chi resta.
Membrana
La parola magica è intriso di immagini che ti si stampano in testa, una selezione del reale che prende situazioni particolari descritte come se fossero normalissime e viceversa. È facile pensare al Carver di Cattedrale in Buio, quando Chiara si ritrova ad accompagnare un cieco al cinema, molto più difficile è non sfigurare di fronte a questo paragone: Anna Siccardi ci riesce, mantenendo una misura invidiabile fra ciò che è necessario dire e ciò che non lo è.
“Si chiese come mai i comandamenti fossero dieci e invece i passi fossero dodici. Qualcosa era sfuggito, evidentemente, al manuale d’istruzioni. I comandamenti mancanti avrebbero potuto essere Non rompere le cose che ami e Non anelare a ciò che non desideri. Gli parve di non aver fatto altro in vita sua: infrangere due comandamenti invisibili.
Soffio
Un esordio decisamente notevole, sorretto da personaggi credibili in cui è facile riconoscersi. La parola magica è un libro che parla più di sconfitte che di vittorie (un altro elemento comune a Carver), e non mi sentirei di consigliarlo a chi cerca l’happy ending a tutti i costi, ma grazie all’ironia di cui è costellato qua e là è possibile sorridere dei fallimenti dei protagonisti, che sono un po’ anche i nostri.
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Una delle mie aspettative quando ho aperto questo blog era che non rimanesse una cosa solo mia. Avere un maggior numero di narratori coinvolti apre a nuovi stili, ascolti musicali diversi, un maggiore spettro di contaminazioni, oltre a far sì che di queste pagine non si alimenti solo il mio ego (sì, mettersi in mostra piace a tutti e io non faccio eccezione).
Sono contento che il primo ad aver accettato la sfida sia stato Roberto Conti, da anni coinvolto nel mondo musical-letterario grazie all’associazione novarese Asap – As Simple As Passion e fra gli organizzatori del festival Balla coi cinghiali di Vinadio. Il suo racconto Creme è comparso all’interno dell’antologia NO – Dieci racconti per un nuovo immaginario novarese, mentre dietro le quinte Roberto si occupa del concorso letterario Provincia Cronica, un nome che già anticipa l’ispirazione musicale alla base del suo racconto: i Baustelle.
Attivi fin dal 1997, consolidatisi negli anni attorno alle figure di Francesco Bianconi, Rachele Bastreghi e Claudio Brasini, la band ha all’attivo otto album di cui l’ultimo, L’amore e la violenza, è uscito in due volumi fra il 2017 e il 2018. Dark Room è inserita all’interno di Amen, album del 2008 vincitore della Targa Tenco, uno dei picchi nella carriera di una band che ha avuto sempre la cura dei testi e degli arrangiamenti fra le priorità. Lascio la presentazione del racconto a Roberto, e al solito vi auguro buon ascolto e buona lettura.
Nel racconto ho provato a ricreare la sensazione di angosciato disagio di chi si dedica, per solitudine più che per piacere, ad illusori rapporti sessuali “usa e getta”. Ho spinto molto sull’ansia che houtilizzato come chiave per personalizzare il racconto, rispetto a quanto dice la canzone. Per i più attenti il testo narrativo, nella sua brevità, è farcito di citazioni musicali dei Massimo Volume, di Umberto Maria Giardini e naturalmente degli stessi Baustelle. Per essere fedele al testo della canzone (scritto oltre che da Francesco Bianconi e Rachele Bastreghi anche da Francesca Genti) ho mantenuto indeterminato il sesso del protagonista, quindi credo possa essere interessante leggerlo due volte, immaginandolo di generi diversi.
Dark room, di Roberto Conti
Ho passato tre ore per scegliere i vestiti adatti, anche se so perfettamente che all’interno della stanza non si vedrà quasi nulla. Gli indumenti rappresenteranno al più un impedimento, se non sono facili da togliere.
Prima di uscire ho riordinato l’appartamento, meticolosamente, ho spruzzato lo spray disinfettante con candeggina su tutte le superfici e le ho pulite con il panno in microfibra. In Germania purtroppo non trovo i detergenti che utilizzo abitualmente a casa, e qualche germe potrebbe sopravvivere. Ho allineato i soprammobili e controllato le scarpe impilate nel Mackapär, elemento contenitore bianco 80×102 cm.
Venti minuti di fila ordinata e sono dentro: ho fatto gli esercizi per la respirazione, come mi ha consigliato la dottoressa Morelli; ho anche cercato con lo sguardo gli oggetti color blu di Prussia, fissandoli nella stanza; ho toccato texture diverse ed esercitato il tatto immedesimandomi nella consistenza della moquette che riveste le pareti. Agli esercizi che coinvolgono il gusto e l’olfatto provvederò più tardi, perché il mix di umori corporei e nitriti alchilici che fuoriescono da piccole boccette di vetro permea ampiamente l’aria, provocandomi nausea e un contestuale aumento dei battiti cardiaci.
Nella stanza come previsto non si vede nulla. Intuisco la presenza di una decina di persone. Ferme, in attesa di appagare le proprie cattive abitudini, senza nulla da nascondere qui dove le tenebre avvolgono tutto come un sole nero.
La musica è sconcertante, forse anche per questo non riesco a smettere di far tremare le gambe. Sarebbe comodo andarsene, ma è troppo presto e non posso certo fuggire via così.
La mente costruisce una barriera impenetrabile, come una catena che roteando blocca tutti coloro che vorrebbero entrare. Il corpo, almeno lui, cerca di essere più collaborativo, prodigandosi in slanci verso le vite altrui, utilizza il tartufo per fiutare la selvaggina pregiata, di pelo o di piuma, e schivare il sudore di maghrebino.
Lascio consumare il presente, l’ansia e gli onnipresenti vapori chimici mi anestetizzano. In questa camera oscura, dove per impressionare la pellicola servono percezioni e rituali, ti prendo la mano e prima di andare avanti tengo a dirti che non ti conosco, ma ti voglio bene.
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Ho un passato (e parzialmente anche un presente) da appassionato di punk. Ricordo i concerti di Pornoriviste, Punkreas, Derozer, Shandon e P.A.Y., per citare solo alcuni dei gruppi sopravvissuti negli anni, il pogo, le sudate. Non so se dopo quel periodo si sia spento qualcosa nel panorama punk italiano, ma un fermento come quello di inizi duemila non l’ho più visto: forse ero fortunato ad abitare vicino alla provincia di Varese, che è stata un epicentro di quella scena, forse sono stato disattento negli ultimi anni.
Un gruppo su tutti mi manca di quel periodo, fra quelli che hanno lasciato le scene: gli Skruigners. Diversamente da quello che è il percorso abituale di una band, ovvero ammorbidirsi con gli anni (vale sia ai piccoli che ai grandi livelli), gli Skruigners si sono sciolti dopo aver partorito il disco più cattivo della loro carriera, Niente dietro niente davanti. Canzoni brevissime, molte di poco più di un minuto se non meno, e l’acceleratore schiacciato a tavoletta dall’inizio alla fine.
Non ho ritrovato quell’energia nei progetti dei singoli membri (Discomostro per il batterista Carlame, Gli inutili per il cantante Ivan), equel tipo di furia non l’ho trovata nemmeno altrove. Tutto questo fino a quando non ho scoperto una band che viene dalla stessa provincia (Busto Arsizio invece che Samarate, in questo caso) e che mi ha dimostrato come sia ancora possibile fare punk hardcore con la stessa attitudine. Ovviamente sono i Morso di cui parlo nel titolo.
Lo zen e l’arte del rigetto è il disco che cercavo da anni e che non riuscivo a trovare. Punk hardcore in italiano, testi arrabbiati al punto giusto e canzoni che si infilano come schegge sotto la pelle. La doppietta iniziale con Liberaci dal male e Nessuno e centomila è un manifesto programmatico, due minuti e quaranta in tutto che bastano e avanzano per dare una dimostrazione di forza e capacità stilistiche. I Morso infatti nelle undici tracce del disco riescono a essere potenti ma anche vari, con arrangiamenti non banali e cambi di tempo efficaci.
Pieno di istanti e Incline da questo punto di vista sono le tracce migliori, espressioni di urgenza e ricerca sonora come a loro tempo gli Skruigners fecero pescando a piene mani anche dalla furia del grind. Nel caso dei Morso sento influssi di band come i compianti Kaleidoscopic (che scopro essere stati coprodotti dalla stessa etichetta, Dischi Bervisti), un po’ di metal e tanta, tanta voglia di sperimentare. Qualche sbavatura qua e là c’è, ad esempio ne Il fine giustifica i mezzi la voce (efficace sia quando urla che quando si fa più morbida) sembra faticare a star dietro alla velocità del pezzo, ma nei venticinque minuti scarsi di musica è tanta l’adrenalina che scorre che alla fine ci si trova frastornati e contenti. Come dopo una bella pogata insomma, ma con meno lividi.
Oltre a essere musicalmente un gran disco (di cui parlo colpevolmente in ritardo visto che è uscito a inizi 2019) Lo zen e l’arte del rigetto ha anche una cover fantastica, ciliegina sulla torta per un esordio da ricordare e oltretutto in free download. Ascoltatelo, condividetelo, e quando questo periodo sarà alle spalle andate a comprare il loro disco a qualche live: ci vediamo sotto al palco.
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L’ho rifatto, ho deciso di farmi del male una seconda volta. Dopo aver preso come ispirazione un pezzo dei Massimo Volume, con tutte le difficoltà di scrivere qualcosa su un brano che già diceva il necessario, stavolta la canzone su cui ho scritto un racconto è di Giovanni Succi.
Leader dei Madrigali Magri prima e dei Bachi da Pietra tuttora (con questi ultimi, giusto per chiudere il cerchio, ha anche registrato uno split assieme ai Masimo Volume), Succi è uno che ha dimostrato lungo tutta la carriera di saperci fare con le parole. Anni fa ho avuto la fortuna di intervistarlo, dopo un suo reading su Gozzano (qui un assaggio) ad Arona, scoprendo di quanti diversi progetti legati alla letteratura è stato protagonista. Negli anni l’ho visto incentrare spettacoli su Dante e Caproni, mi ha fatto scoprire GiorgioManganelli (cosa per cui non smetterò mai di ringraziarlo) col suo progetto di “reading elettronico” La morte e ha trovato il tempo di registrare anche un album tributo a Paolo Conte, Lampi per macachi.
Di recente è uscito l’ultimo suo album da solista, Carne cruda a colazione, dove in veste cantautorale continua a fare ciò che gli esce meglio: giocare con le parole e creare mondi coi suoi testi. Avevo l’imbarazzo della scelta fra le canzoni da cui prendere ispirazione, ma in questo caso è stata più lei a scegliere me che il contrario. Sipario, contenuta nel precedente disco Con ghiaccio, ha evocato subito nella mia testa le immagini di un motel e di un ritorno: il difficile è stato dare una forma alle suggestioni, creare una storia (ne ho fatte almeno tre versioni, di cui una è diventata un racconto a sé stante) e cercare di adottare una prosa che fungesse da mio personale tributo al modo di scrivere dell’autore. Ecco perché dico che ho voluto farmi del male, da un confronto simile si parte già sconfitti.
Al solito qui sotto trovate il brano, seguito dal racconto. Sempre come al solito il consiglio è di andare ad approfondire, ascoltare tutto ciò che ha da offrire lo sterminato mondo musicale e letterario in cui è immerso Giovanni Succi e, quando si potrà, andare sotto a un palco ad ascoltarlo live. Buon ascolto, e buona lettura.
Se poi te ne vai
La camera è proprio come me l’aspetto, una topaia da dimenticare presto, da lasciare sull’asfalto col ricordo dei clienti, dei chilometri e degli astanti, peregrini tutti quanti, pronti a brindare in trattorie malconce che recano immancabile sulle porte la scritta “menu fisso dieci euro”, o forse nove se la fortuna gira per il giusto verso.
Abbandono per terra il mio fardello di scope aspiranti ultimo modello, sciccherie per signora ma anche per l’uomo moderno, sia mai che si discrimini, sia mai. La moquette è consunta, bruciature di sigarette qua e là, anche vicino al frigobar, su una cassapanca un televisore che definire vintage è un favore. Tubo catodico, immagine sgranata, l’antenna non prende che qualche televendita urlata che magari a notte fonda lascerà il posto a un po’ di porno, censurato ovvio ma ci si accontenta. O almeno l’idea è quella.
Nel bagno la muffa corrompe le pareti, del letto non voglio sapere dai pareri di qualche sito quali malattie potrei contrarre toccando lenzuola e cuscino. Mi faccio una doccia, di asciugamano ho il mio, abituato come sono alle sorprese preferisco evitarne di maligne per dio, ma mentre mi pettino e mi osservo allo specchio vedo un particolare che mi porta indietro nel tempo.
Poche parole, in una tremolante grafia. La riconosco, è la mia.
E ritorno ad anni fa, con una lei di cui ho scordato il nome ma che faceva rima con viole, in fuga con la macchina di papà e un foglio rosa inutile in caso di controllo, ma eravamo giovani e folli e li avremmo fatti l’indomani i conti, o forse non li avremmo fatti proprio, chissà. Indossava una maglietta fucsia con scritto “Bob Marley è morto da cretino”, perché per lei era anarchico andare contro ogni pensiero precostituito, ma come manifesto lo trovo lacunoso anche dopo aver letto da sbronzo un saggio su Bakunin troppo verboso.
Ai miei dissi che dormivo da un amico, mi sentivo un po’ cretino, non so se lei ebbe bisogno di dare un motivo. Ci fermammo in un motel ridicolmente vicino a casa, con l’eccitazione dei miei vent’anni scarsi e per lei la maggiore età ancora lontana, ci spogliammo, ci toccammo, poi fermi, per andare più in là avremmo avuto giorni, mesi, forse anni. Andando in bagno con le chiavi dell’auto lasciai un segno, per ricordarmi di quel luogo magico dove tutto stava acquistando un senso, la vita l’universo e tutto il resto.
Scrissi “sono stato qui”, niente di che, e la fuga finì il giorno dopo quando capii che non l’avevo mica io, il coraggio, per rubare la macchina dei miei e andare verso dove, non ci avevamo nemmeno pensato. Lei mi diede del codardo, aveva ragione, chissà se è ancora ribelle o come me tira a campare senza una buona motivazione.
Ma qualcosa posso farlo ora, per tenermi il ricordo di un bel posto e non di una camera sporca e vuota. Al mattino scrivo “anch’io”, sul soffitto ammuffito, e lascio a chi verrà il mio bagaglio da venditore intristito. Me ne vado leggero, felice, verso cosa si vedrà.
Certi posti son più belli, se poi te ne vai.
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Ho scoperto il libro di Natascha Wodin grazie al gruppo di lettura organizzato dalla “lettrice al contrario” Désireée Pedrinelli, incentrato sulle saghe famigliari (gli altri titoli, tutti consigliati, sono stati Il caos da cui veniamo di Tiffany McDaniel, La famiglia Karnowski di Israel J. Singer e Quando i padri camminavano nel vuoto di Piergianni Curti). Presentato come una ricerca delle proprie origini, nata quasi per caso navigando su un sito ucraino, Veniva da Mariupol diventa con l’avanzare delle pagine molto di più, andando a scavare nel profondo in vicende storiche di cui, in alcuni casi, si sa troppo poco.
Nata in Germania al termine della seconda guerra mondiale da genitori ucraini, vissuta l’infanzia in un clima di emarginazione, Natascha conserva pochi e confusi ricordi della sua famiglia. La madre, il suo unico legame con la terra d’origine, è morta suicida quando aveva soli dieci anni, e i tentativi di ricostruirne la storia sono sempre sfociati nel nulla. I dettagli impressi nella sua memoria (un’ascendenza italiana, uno zio cantante d’opera, una zia deportata) le sembrano ormai fantasie create da piccola per estraniarsi dalla realtà, come la bugia riservata ai compagni di scuola su una fantomatica discendenza nobiliare. Il suo mondo viene scosso nel profondo quando grazie all’aiuto di Konstantin, un ucraino di origini greche appassionato di ricerche storiche e di alberi genealogici (è riuscito a ricostruire il proprio fino al sedicesimo secolo), scopre che in realtà ciò che ricorda è molto più reale di quanto pensasse e si lega in maniera profonda con gli sconvolgimenti storici della Russia e dell’Europa intera.
Se la prima parte del libro si concentra sulle ricerche e i relativi progressi di Natascha (inframmezzati a speculazioni sulle reazioni della madre a quegli eventi che sta faticosamente mettendo in fila, la parte più debole del libro), che oltre ai suoi avi la portano a scoprire anche parenti ancora in vita di cui ignorava l’esistenza, è dalla seconda parte che il libro si fa più coinvolgente. Complice la scoperta del diario di sua zia, la sorella della madre data per dispersa in un campo di detenzione russo, abbiamo la possibilità di entrare direttamente negli orrori di cui è costellata la storia russa.
Veniva da Mariupol diventa da qui in avanti un’analisi dettagliata di drammi storici ignorati o di cui sapevo colpevolmente poco. La rivoluzione bolscevica e la sua ripercussione sulla nobiltà e sulla popolazione tutta, le epurazioni staliniane e gli esili nei campi di lavoro, le deportazioni tedesche nei campi di lavoro forzati e le morti qui avvenute, ancora parzialmente avvolte nel mistero, che ne hanno fatto un ricettacolo di vittime simile a quello dell’olocausto ebraico. La Storia con la S maiuscola si interseca con quella della famiglia Ivascenko, della città di Mariupol da cui proviene e dell’Ucraina tutta: la scoperta di un compagno di classe della zia parente stretto di uno dei capi della rivoluzione d’ottobre, Lev Trockij, è solo una delle tante sorprese che si trovano fra queste pagine.
Nel diario della zia sono gli orrori perpetrati in Russia, dalla guerra civile prima e dalla dittatura di Stalin in seguito, a porsi all’attenzione del lettore. Nelle ultime due parti del libro lo scenario si sposta invece in Germania, alla fine della guerra e nell’immediato dopoguerra, coi genitori di Natascha che arrivano nella Lipsia bombardata incessantemente dagli alleati per lavorare alla fabbricazione di armi in un’industria del gruppo Flick, nota per le sue disumane condizioni lavorative. Vengo così a conoscenza di un gerarca solo apparentemente minore, un nome che non è ricordato al pari di Hitler, Himmel o Göring ma che alla stessa stregua è stato condannato quale criminale di guerra: Fritz Sauckel, il generale plenipotenziario del lavoro, che sul finire della guerra porta ai massimi termini la politica di deportazione a fini lavorativi del Reich.
“Figlio di un impiegato delle poste francone e di una sarta, quest’uomo, che più tardi durante il processo di Norimberga verrà definito il «più grande e crudele schiavista dall’epoca dei faraoni», dà il via alla caccia all’uomo annunciando: «È giunta l’ora di liberarsi anche delle ultime scorie di becero umanitarismo». L’Ucraina è il suo terreno di caccia prediletto.
Veniva da Mariupol
La vita dei lavoratori forzati, orribile durante gli ultimi mesi della guerra, non migliora alla fine del conflitto mondiale. Stipati in campi per sfollati, a cui i genitori di Natascha riescono a sfuggire per cinque anni insediandosi in una rimessa con un’altra famiglia ucraina, le condizioni di vita di queste persone non migliorano di molto. Eppure per i russi potrebbe andare anche peggio: se da una parte quelli che riescono a rimanere in Germania sono sospettati dagli statunitensi di collaborazionismo coi nazisti, dall’altra ritornare in patria significa fare i conti col regime di Stalin.
“Agli occhi di Stalin gli ex lavoratori forzati sono traditori della patria, collaborazionisti che invece di opporsi si sono piegati allo sfruttamento del nemico mentre milioni di loro connazionali perdevano la vita per la difesa della causa sovietica.”…
…”Oltre alla povertà sperimentano l’isolamento più completo: frequentare quei redivivi dichiarati ufficialmente traditori fa paura. Le donne sono bollate come «puttane dei tedeschi».”
Veniva da Mariupol
Scritto con uno stile asciutto, che evita il più possibile i commenti a fatti che già si commentano da soli, Veniva da Mariupol è un libro che colpisce duramente. Chi pensa di trovarvi solamente la storia di una famiglia e delle sue vicissitudini è sulla strada sbagliata, perché Natascha Wodin ha avuto il grandissimo merito di anteporre alla storia delle sue origini, ciò che inizialmente le premeva e che per lungo tempo ha ignorato, quella di un lungo periodo storico fatto di eventi terribili che hanno segnato milioni di persone. Sua madre è stata una di quelle, e nel ripercorrere tutte le strazianti vicende di cui lei e i suoi famigliari sono stati testimoni Natascha può finalmente rendere giustizia alla sua memoria.
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