
Ho scoperto il libro di Natascha Wodin grazie al gruppo di lettura organizzato dalla “lettrice al contrario” Désireée Pedrinelli, incentrato sulle saghe famigliari (gli altri titoli, tutti consigliati, sono stati Il caos da cui veniamo di Tiffany McDaniel, La famiglia Karnowski di Israel J. Singer e Quando i padri camminavano nel vuoto di Piergianni Curti). Presentato come una ricerca delle proprie origini, nata quasi per caso navigando su un sito ucraino, Veniva da Mariupol diventa con l’avanzare delle pagine molto di più, andando a scavare nel profondo in vicende storiche di cui, in alcuni casi, si sa troppo poco.
Nata in Germania al termine della seconda guerra mondiale da genitori ucraini, vissuta l’infanzia in un clima di emarginazione, Natascha conserva pochi e confusi ricordi della sua famiglia. La madre, il suo unico legame con la terra d’origine, è morta suicida quando aveva soli dieci anni, e i tentativi di ricostruirne la storia sono sempre sfociati nel nulla. I dettagli impressi nella sua memoria (un’ascendenza italiana, uno zio cantante d’opera, una zia deportata) le sembrano ormai fantasie create da piccola per estraniarsi dalla realtà, come la bugia riservata ai compagni di scuola su una fantomatica discendenza nobiliare. Il suo mondo viene scosso nel profondo quando grazie all’aiuto di Konstantin, un ucraino di origini greche appassionato di ricerche storiche e di alberi genealogici (è riuscito a ricostruire il proprio fino al sedicesimo secolo), scopre che in realtà ciò che ricorda è molto più reale di quanto pensasse e si lega in maniera profonda con gli sconvolgimenti storici della Russia e dell’Europa intera.

Se la prima parte del libro si concentra sulle ricerche e i relativi progressi di Natascha (inframmezzati a speculazioni sulle reazioni della madre a quegli eventi che sta faticosamente mettendo in fila, la parte più debole del libro), che oltre ai suoi avi la portano a scoprire anche parenti ancora in vita di cui ignorava l’esistenza, è dalla seconda parte che il libro si fa più coinvolgente. Complice la scoperta del diario di sua zia, la sorella della madre data per dispersa in un campo di detenzione russo, abbiamo la possibilità di entrare direttamente negli orrori di cui è costellata la storia russa.
Veniva da Mariupol diventa da qui in avanti un’analisi dettagliata di drammi storici ignorati o di cui sapevo colpevolmente poco. La rivoluzione bolscevica e la sua ripercussione sulla nobiltà e sulla popolazione tutta, le epurazioni staliniane e gli esili nei campi di lavoro, le deportazioni tedesche nei campi di lavoro forzati e le morti qui avvenute, ancora parzialmente avvolte nel mistero, che ne hanno fatto un ricettacolo di vittime simile a quello dell’olocausto ebraico. La Storia con la S maiuscola si interseca con quella della famiglia Ivascenko, della città di Mariupol da cui proviene e dell’Ucraina tutta: la scoperta di un compagno di classe della zia parente stretto di uno dei capi della rivoluzione d’ottobre, Lev Trockij, è solo una delle tante sorprese che si trovano fra queste pagine.
Nel diario della zia sono gli orrori perpetrati in Russia, dalla guerra civile prima e dalla dittatura di Stalin in seguito, a porsi all’attenzione del lettore. Nelle ultime due parti del libro lo scenario si sposta invece in Germania, alla fine della guerra e nell’immediato dopoguerra, coi genitori di Natascha che arrivano nella Lipsia bombardata incessantemente dagli alleati per lavorare alla fabbricazione di armi in un’industria del gruppo Flick, nota per le sue disumane condizioni lavorative. Vengo così a conoscenza di un gerarca solo apparentemente minore, un nome che non è ricordato al pari di Hitler, Himmel o Göring ma che alla stessa stregua è stato condannato quale criminale di guerra: Fritz Sauckel, il generale plenipotenziario del lavoro, che sul finire della guerra porta ai massimi termini la politica di deportazione a fini lavorativi del Reich.
“Figlio di un impiegato delle poste francone e di una sarta, quest’uomo, che più tardi durante il processo di Norimberga verrà definito il «più grande e crudele schiavista dall’epoca dei faraoni», dà il via alla caccia all’uomo annunciando: «È giunta l’ora di liberarsi anche delle ultime scorie di becero umanitarismo». L’Ucraina è il suo terreno di caccia prediletto.
Veniva da Mariupol
La vita dei lavoratori forzati, orribile durante gli ultimi mesi della guerra, non migliora alla fine del conflitto mondiale. Stipati in campi per sfollati, a cui i genitori di Natascha riescono a sfuggire per cinque anni insediandosi in una rimessa con un’altra famiglia ucraina, le condizioni di vita di queste persone non migliorano di molto. Eppure per i russi potrebbe andare anche peggio: se da una parte quelli che riescono a rimanere in Germania sono sospettati dagli statunitensi di collaborazionismo coi nazisti, dall’altra ritornare in patria significa fare i conti col regime di Stalin.
“Agli occhi di Stalin gli ex lavoratori forzati sono traditori della patria, collaborazionisti che invece di opporsi si sono piegati allo sfruttamento del nemico mentre milioni di loro connazionali perdevano la vita per la difesa della causa sovietica.”…
…”Oltre alla povertà sperimentano l’isolamento più completo: frequentare quei redivivi dichiarati ufficialmente traditori fa paura. Le donne sono bollate come «puttane dei tedeschi».”
Veniva da Mariupol
Scritto con uno stile asciutto, che evita il più possibile i commenti a fatti che già si commentano da soli, Veniva da Mariupol è un libro che colpisce duramente. Chi pensa di trovarvi solamente la storia di una famiglia e delle sue vicissitudini è sulla strada sbagliata, perché Natascha Wodin ha avuto il grandissimo merito di anteporre alla storia delle sue origini, ciò che inizialmente le premeva e che per lungo tempo ha ignorato, quella di un lungo periodo storico fatto di eventi terribili che hanno segnato milioni di persone. Sua madre è stata una di quelle, e nel ripercorrere tutte le strazianti vicende di cui lei e i suoi famigliari sono stati testimoni Natascha può finalmente rendere giustizia alla sua memoria.
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