Racconto in musica 16: Al ghiaccio (Orville Peck – No glory in the west)

Da queste parti sono passati finora pochi ospiti, così ho pensato di andarmeli a cercare. Magari non lo sapete, ma esiste in Italia un ricco sottobosco di riviste letterarie validissime (se fate un salto qui potete trovare un sacco di informazioni utili) di cui ‘tina è un po’ la madrina. Fondata nel lontano 1996 dallo scrittore, editor e autore televisivo Matteo B. Bianchi, sulle pagine di questa rivista hanno scritto negli anni gente come Tiziano Scarpa, Paolo Nori e Roberto Camurri. È lì che ho trovato anche Riccardo D’Aquila.

Nato nel 1992 a Chieti, città dove risiede e che ama e odia in egual misura, Riccardo è cresciuto a pane e fumetti americani e preferisce film e romanzi in cui o si chiacchiera molto o per niente. È laureato in sociologia e criminologia, ma scrivere storie è l’unica cosa che gli interessa. Su ‘tina sono apparsi ben due suoi racconti, “Termini e condizioni” sul numero 33 e “Zia Dot” sul numero 34, molto diversi come tono ma accomunati dalla stessa cura nei dialoghi. Ho provato a contattarlo, e in poco tempo sono riuscito a coinvolgerlo nella sfida di condensare in un numero limitato di battute la sua prosa. Il racconto c’era già, una storia che parla di un certo tipo di solitudine, così malinconica e profonda da diventare preziosa e avvolgente, come un freddo abbraccio: mancava la canzone a cui abbinarlo, e lì la magia del caso ci ha messo lo zampino, trovando la collocazione ideale nell’ultima canzone di Orville Peck.

Attivo dal 2017, Orville Peck è una figura misteriosa vestita da cowboy che si nasconde dietro una maschera di latex dalle frange lunghe. Di lui si sa pochissimo: sconosciuta l’età, il vero nome, l’unica notizia certa è la sua omosessualità apertamente dichiarata, che gli sta permettendo di rovesciare il concetto di Lone Ranger virile e senza paura. Ha pubblicato due album di un country arioso e senza tempo, di cui il primo prodotto dalla beneamata Sub Pop che fin dai tempi del grunge vive e resiste con noi, e sia musicalmente che visivamente la sua No glory in the west e il racconto di Riccardo sembrano fatti l’una per l’altro: quando mi ha suggerito l’abbinamento non potevo che essere d’accordo.

Il titolo del racconto, Al ghiaccio, evoca sia il freddo che la parola abbraccio, gelo e calore che escono tanto dalle note quanto dalle parole. Sotto trovate, al solito, il video della canzone e il racconto, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Al ghiaccio, di Riccardo D’Aquila

Gli stivali spostavano la neve, mentre il vento gonfiava il pastrano. Fischi lontani andavano a morirgli nelle orecchie, arrivati dalle cime scolpite col silenzio.

Non sapeva quanta strada mancava né quanta se n’era lasciata alle spalle. Ogni scorcio gli pareva uguale e infinito, ma non aveva paura. Era come essere lì da sempre, stanco e infreddolito, senza nessuno.

Era solo.

Era quando lo capiva che ricordava cosa c’era stato, alla luce del camino, tra le trapunte cucite a mano. Loro, così stretti da sembrare fusi. Gli aveva preso la mano e se l’era portata alla guancia, baciandone il palmo, gli occhi nei suoi e poi chiusi, fino al mattino.

A quanti passi era quel tepore? Era davanti o dietro, all’inizio o alla fine del suo cammino? Non lo sapeva più. C’era stato, se c’era stato, o doveva ancora esserci, forse. Gli bastavano il ricordo e l’attesa, che non riusciva più a distinguere.

In quel momento lo tenevano vivo solo il gelo e il sapore del sangue nella gola. Era con quelli che riusciva a capire di esserci ancora, dal cappello allo sperone. Il resto era solo una fantasia nella sua testa.

Puntò lo sguardo dritto all’orizzonte e fece un altro passo in avanti. Vide il precipizio e la cresta bianca e blu, fino alla fine.

Tutto era così lontano.

Così lontano.

Eppure, ne fu sorpreso, andava bene.

Sì, andava bene lo stesso.

Anche il freddo, fosse solo per quel momento, lo sapeva scaldare.

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Musica e sport volume 1: Il ciclismo

Ammetto di aver pensato a un articolo sul rapporto fra musica e sport partendo da un pugno di canzoni, e con l’intenzione di limitare il discorso alla musica indipendente. Poi ho fatto l’errore di chiedere consiglio al riguardo ad amici e conoscenti su Facebook, la lista si è allungata a dismisura e a quel punto non me la sentivo di escludere tutte le canzoni che mi sono state suggerite. Il risultato sarà quindi una serie di articoli, divisi per sport (laddove almeno ce ne sia la possibilità), e si comincia con uno di quelli che più ha solleticato la fantasia degli artisti per la sua stessa natura “eroica”: il ciclismo.

I grandi del passato

I ciclisti che hanno fatto la storia hanno ovviamente stuzzicato la fantasia dei cantautori, e molti di loro non sono riusciti a fare a meno di dedicargli una canzone. Francesco De Gregori è stato il primo che mi è venuto in mente, visto che con la sua Il bandito e il campione ha celebrato non solo un grande atleta ma anche una storia curiosa e degna di un romanzo (che infatti è stato scritto), quella dell’amicizia fra Costante Girardengo ed il bandito Sante Pollastri. Non un’amicizia, ma una rivalità infiammò invece l’Italia nel dopoguerra, quella fra Gino Bartali e Fausto Coppi, immortalati da due diversi cantautori: Paolo Conte con Bartali, di cui è celebre il verso che paragona la china del suo naso alla tristezza di una salita, e Gino Paoli con Coppi. E visto che sono arrivato a citare il gran capo della SIAE all’interno di un blog che cerca di far conoscere la musica indipendente sento di dover fare ammenda pregandovi di cliccare su questo link.

La SIAE non vi passerà mai la borraccia

Altra grande rivalità è stata quella fra Felice Gimondi e Eddy Merckx, ben rappresentata nella canzone di Enrico Ruggeri Gimondi e il cannibale e, con vena più goliardica, da Elio e le storie tese: per quanto la fama di eterno secondo che Gimondi si è portato dietro sia stata poi giustamente ridimensionata, nella loro Sono felice gli Eelst rimarcano giustamente che “non è facile nella vita scoprire che c’è anche Eddy Merckx”, uno che era stato soprannominato “Il cannibale” non certo per caso.

Pantani, l’eroe moderno

Sarà per gli innegabili meriti sportivi, per la sua parabola tragica e per la sua ancora più tragica fine ma nessun ciclista ha ispirato canzoni negli ultimi anni quanto Marco Pantani. Ne hanno cantato gli Stadio (…e mi alzo sui pedali), gli ha dedicato la sua Uomo in fuga il cantautore Riccardo Maffoni, ma la canzone a cui sono più affezionato, per quanto la prenda larga, è M.P. nella B.G. (riferimento alla biglia gigante con l’effige di Pantani visibile nella storica sede di Mercatone Uno, chissà se almeno quella è sopravvissuta al fallimento della catena) di Giorgio Canali & Rossofuoco: nel testo di Canali il ciclista diventa un emblema degli sconfitti in un’Italia che ha già trovato qualcosa di diverso per cui esaltarsi, che sia Luna Rossa o le “due vetture rosse in testa”, un tributo senza patetismi ma con tanta energia.

Gli (ingiustamente) meno noti

La canzone di Canali è simbolo di un modo diverso di approcciarsi all’argomento che è emblematico della musica indipendente tutta. È da questo sottobosco che emergono alcune delle storie più curiose, come quella di Alfonsina Strada, tradotta in note dai Têtes de bois (autori di un intero album sul ciclismo, Goodbike) nella loro Alfonsina e la bici, unica donna a partecipare al Giro d’Italia (nel 1924, quando pur arrivando fuori tempo massimo fu tra i 33 che conclusero la corsa su 90 partecipanti) e pioniera della parificazione fra sport maschile e femminile. Epica ma semisconosciuta anche la storia di Johan Van Der Velde (l’uomo nella foto in apertura dell’articolo), ciclista olandese che gli Offlaga Disco Pax ricordano nella loro Tulipani, la canzone che mi ha dato l’idea per confezionare questi articoli: al Giro d’Italia 1988 fu protagonista di una fuga solitaria sul Gavia innevato, terminata con un principio di congelamento durante la discesa e l’arrivo con quarantasette minuti di ritardo. Vale la pena di ascoltare come Max Collini e soci raccontano questa vicenda, che potete ascoltare qui sotto.

In tema di discese chiudo citando la canzone dei Bepi & The Prismas, Falco Saoldèl, dedicata a un ciclista che di soddisfazioni se ne è tolte molte ma che gli annali ricordano meno di altri, Paolo Savoldelli. Vincitore di due giri d’Italia, buono scalatore ma soprattutto ottimo discesista, Savoldelli me lo ricorderò sempre recuperare tutti lanciandosi come un pazzo lungo i tornanti di montagna, motivo che gli ha fatto guadagnare il soprannome di “Falco” e lo ha fatto diventare uno dei miei miti sportivi.

La lista non è ovviamente esaustiva, se volete quindi segnalarmi altre canzoni siete liberi di commentare qui sotto. Al prossimo appuntamento, quando si parlerà di calcio e ci saranno ancora più canzoni da farvi sentire.

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Racconto in musica 15: Il circolo del ricordo (Fuck Buttons – Year of the dog)

Sono sempre alla ricerca del “next big thing” musicale, che nella mia accezione significa trovare qualcosa che mi piaccia e che suoni nuovo alle mie orecchie. Anni fa, recensendo dischi, finii per conoscere l’etichetta Supernatural Cat, facendomi una cultura sul genere Doom che mai prima di allora avevo frequentato. In tempi più recenti, stimolato dalla mia ignoranza in materia, ho cercato di approfondire il mondo della musica elettronica, con tanta curiosità e poche soddisfazioni: una di queste, incrociata per caso grazie a un post di facebook, è stata scoprire i Fuck Buttons.

Attivi musicalmente dal 2004, i Fuck Buttons (Andrew Hung e Benjamin John Power, quest’ultimo anche dietro al progetto Blanck Mass) arrivano all’esordio nel 2008 con Street Horrrsing, che già mostra i prodromi dell’atteggiamento musicale del duo: un incrocio fra post-rock (il produttore è John Cummings, chitarrista dei Mogwai), drone e, ovviamente, tanta elettronica. L’anno dopo è il turno di Tarot Sport, in cui scompare la voce e si presentano ritmiche tribaleggianti, ma è con Slow Focus del 2013 che secondo me viene raggiunto l’apice del loro percorso musicale. In Slow Focus c’è un atteggiamento che definirei “modulare” alla musica, un continuo gioco al rialzo in cui nessun elemento viene abbandonato ma viene aggiunto sempre qualcosa, fino a giungere a picchi di epicità che fanno venire i brividi: quando ascolto The red wing ho SEMPRE la pelle d’oca, anche a distanza di anni, e posso dire con certezza che canzone e album stanno comodamente nella mia top ten musicale.

Nonostante il mio amore viscerale per The red wing (ci ho scritto pure un post su facebook che sfiorava l’autoanalisi, per cui fatemi un favore e andatevela a sentire) la canzone che mi ha ispirato per questo racconto settimanale è un’altra. Year of the dog, seconda traccia di Slow Focus, è un brano ipnotico che, per usare le parole spese per l’album in questa azzeccatissima recensione trovata su Ondarock, ricorda l’eterno ritorno del tutto: a questo concetto mi sono ispirato per creare una storia che si svolge in un tempo brevissimo ma potenzialmente infinito, sullo sfondo di una parata del capodanno cinese. Come al solito vi auguro buon ascolto, e buona lettura.

Il circolo del ricordo

Li ripercorre, nel ricordo, anche dopo anni, e quegli istanti le si ripresentano nitidi, dilatandosi, i secondi che diventano minuti, come in slow motion, la testa del drago che si muove sinuosa, le fauci aperte, gli occhi neri come la pece, le spire del corpo che si contorcono, infilzate da pali di legno, i muscoli lucidi del ragazzo che ne sorregge un segmento, tende le braccia, inspira, espira, i capelli madidi che gli si schiacciano sulla fronte, il braccio di suo padre che si allunga, avvolto nella tela cerata, il dito che indica il balcone, la girandola appesa alla ringhiera che sputa serpentine di fuoco, illumina le mura di uno stinto beige, le facce della gente accalcata, sprizza scintille sulla folla protetta da un muro variopinto di ombrelli e impermeabili, le grida di festa, i rimbrotti di protesta, sempre più vicini, un movimento tellurico fra le persone, discontinuo, un uomo che scansa la calca, si fa largo a fatica, agita le braccia e rotea gli occhi, spalancati, dirige i propri passi verso il corteo, i suonatori di tamburo che si avvicinano, le bacchette che rullano, le pelli che fanno rimbalzare le gocce di pioggia, l’uomo che cade ai loro piedi, spinto dalla folla, disteso a terra, bagnato e sporco, alza gli occhi e trova le spire del drago, scaglie rosso fiammante, lucide, le guarda affascinato prima di voltarsi, seguire l’eco di un grido, un uomo vestito di nero fra i tamburi, il cappello calato sugli occhi, la mano che si alza, una pistola stretta in pugno e due colpi che esplodono, coperti dalle grida, dai tamburi, dai fuochi d’artificio e dalla pioggia che scroscia, tempesta il corpo dell’uomo che ancora a terra, gli occhi che iniziano a chiudersi, si volta, e stramazzando al suolo guarda lei, ritta sulle spalle del padre, che in quel giorno di festa, l’avvento dell’anno del cane, ha il suo primo incontro con la morte, la vede negli occhi dell’uomo, neri, negli occhi del drago, neri, la sente entrare nei suoi occhi, neri, colmi di lacrime che si confondono con la pioggia, e mentre l’assassino scompare, la folla si disperde, il corteo avanza ignaro, lei si chiede la motivazione di quell’atto violento, il senso di quegli attimi terribili, e non trovando una risposta li ripercorre, nel ricordo, anche dopo anni, e quegli istanti le si ripresentano nitidi…

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La colonna sonora della fragilità: Fiori recisi, il nuovo album de Il silenzio delle vergini

È un esperimento molto particolare e lodevole quello che fanno gli Il silenzio delle vergini nel loro terzo album, Fiori recisi: partendo da una base musicale che pesca principalmente dall’oscurità della new wave e dall’ariosità del post-rock, spruzzando il tutto di elettronica, la band costruisce un percorso in cui la voce di Cristina Tirella si limita a vocalizzi evocativi e le parole sono affidate a brani tratti da film. Una sorta di colonna sonora immaginaria di una storia unica composta da vari frammenti, che rinsalda la commistione di influenze che è alla base del progetto, nato nel 2016 e arrivato all’esordio l’anno seguente con l’album Colonne sonore per cyborg senza voce, ispirato fra le altre cose dall’anime Cyborg 009 di Shōtarō Ishinomori.

Il filo conduttore del disco sembra essere la fragilità, visto che il titolo esprime un concetto che la stessa band spiega: “siamo tutti dei piccoli fiori e nella vita abbiamo passato momenti che ci hanno recisi”. Gli inserti audio parlano di vite problematiche, come nel caso della title track dove l’esperienza di una ragazza vittima di cyberbullismo ci viene sbattuta in faccia dalla sua stessa voce o di Non ho più paura, la traccia di apertura, dove è la malattia a insinuarsi gradualmente, ma anche la tranquillità di certi momenti è relativa: l’atmosfera lieve di Cuore di farfalla include un frammento spensierato di Buon compleanno Mr. Grape, film in cui un giovane Leonardo di Caprio interpreta la parte di un ragazzo autistico, mentre Radici di paradiso nel suo breve inserto non può certo esplicitare completamente la parabola di caduta e redenzione del Leon di Luc Besson.

Facciamo un gioco

Musicalmente il disco è vario, con basso e batteria a creare il sottofondo e chitarra e tastiere a colorare il tutto, pur mantenendo quasi sempre una certa vena ansiogena di sottofondo. Fra episodi cupi ed elettronici come Necessità e sfoghi distorti trattenuti a stento fino a metà brano come Mental code passa una sottile linea di disagio, un effetto claustrofobico che permea anche le canzoni più ariose come Cenere, testo poetico adagiato su un tappeto elettronico che ricorda certe atmosfere di Vangelis. Quello che manca però è l’energia, anche laddove i suoni si fanno più muscolari.

i brani di Fiori recisi sono perlopiù indecisi fra la volontà di avere una forma canzone e la necessità di mettersi al servizio degli estratti audio, stazionando in un limbo che impedisce di dare una struttura coesa al lavoro. Non aiuta che gli estratti siano spesso confusi, disturbati o mantenuti a livello troppo basso, una scelta stilistica che amplifica l’effetto finale: quello di un collage sonoro ben architettato e suonato, pieno di influenze, ma così voglioso di andare da più parti contemporaneamente che alla fine non riesce a prendere una direzione precisa. Gambino è un esempio emblematico: ad una base sonora che pesca anche dall’industrial si aggiunge un monologo di Morgan Freeman tratto da Le ali della libertà, ma quando c’è la voce la musica si defila e al posto di uno spoken word ben amalgamato si ottiene un brano dove voce e musica collaborano solo saltuariamente.

Fiori recisi è un’occasione mancata, perché emergono dovunque tecnica e creatività. C’è il coraggio di sperimentare con le strutture ma non coi volumi, un’ispirazione originale ma confusa, la voglia di raccontare qualcosa che si scontra con quella di intessere tessuto sonori. Se gli Il silenzio delle vergini (nome dicotomico di per sé, visto che è l’unione di due film distanti fra di loro come Il silenzio degli innocenti e Il giardino delle vergini suicide) riusciranno a dare ordine alla loro bulimia creativa si ritroveranno di sicuro con un disco molto migliore di questo, senza bisogno di strafare.

Potete farvi una vostra idea ascoltando l’album dal link qua sotto:

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Racconto in musica 14: All’infinito (Russian Circles – Kohokia)

Nella mia dichiarazione d’intenti all’apertura di questo sito (ne trovate un sunto qui) parlavo della difficoltà di fissare una linea netta fra ciò che può essere considerato musica indipendente o meno. Per fare un esempio nostrano i Baustelle, già protagonisti di un racconto dedicato, sono partiti dal basso per accasarsi solo dopo con una major e diventare protagonisti dell’airplay radiofonico. Ancora più difficile è fare questo distinguo in ambito internazionale, visto che band che da noi sono di nicchia (e che le radio si sognano di trasmettere) possono avere un seguito molto forte nei loro paesi di origine. Gruppi come gli Alt-J e i Sigur Rós sono conosciuti anche entro i nostri confini, ma la loro originalità e il loro essere al di fuori da schemi musicali prestampati mi porta comunque a considerarli parte di quel calderone di musica “originale” che apprezzo e che mi piace a portare alle orecchie di chi ha ascolti meno variegati. I Russian Circles, che il loro buon seguito ce l’hanno ma fanno un genere che in Italia probabilmente sarà snobbato a vita anche da radio cosiddette “rock” come Virgin Radio, stanno anche loro in quel labile confine in cui la mia interpretazione della parola indipendente sguazza confuso.

Trio strumentale di Chicago, alfieri di quel genere altrettanto confusamente definibile come post-rock, i Russian Circles mi hanno rapito fin dai primi ascolti per la loro capacità di unire delicatezza e potenza sonora. Attivi dal 2004, hanno realizzato sette album di cui l’ultimo, Blood Year, è uscito nel 2019 per la loro etichetta storica Sargent House. I più nerd li conosceranno anche per altri motivi: un loro brano, Fathom, risuonava durante i titoli di coda del videogioco Dead Space 2.

Kohokia è il quarto brano dell’ultimo disco, un album che sinceramente ho apprezzato solo a tratti ma che ha questa canzone fra i punti di forza. I saliscendi emozionali che mi ha fatto avere durante l’ascolto mi hanno ispirato una storia fissata in un tempo breve ma potenzialmente infinito (il titolo non è scelto a caso), debitrice del mito di Sisifo e dell’interpretazione che Camus ne diede in un suo saggio. Al solito vi auguro buon ascolto, e buona lettura.

All’infinito

Emergere dalle viscere della terra con nulla più che la mia fatica come ricompensa ancora m’inquieta. La pena che mi è stata comminata la sento in tutto ciò che mi attornia, nell’aria pesante, nei muscoli che si irrigidiscono. Ogni sforzo è vano, eppure avanzo.

Mi concentro sulla materia, le sensazioni tattili. La consistenza di ciò che sospingo è l’unica fuga che posso permettermi, stringo le mani lungo la sbarra di ferro del carrello che devo far avanzare, sento l’attrito delle piante dei piedi sulla ghiaia, avverto la scia di ogni goccia di sudore attraversare il mio corpo, lungo il collo, la schiena, le gambe e infine ne percepisco l’abbandono, l’ennesima perdita, una parte di me che si mischia alla terra che sono costretto a calpestare.

I pensieri mi assalgono, soffro l’ingiustizia della mia condanna, la rabbia e la frustrazione mi danno energia solo per agire come uno schiavo e salire più in alto, ancora di più, a dimostrare in vetta ai miei aguzzini che nemmeno oggi mi sono piegato e illudermi che la lotta giustifichi la vita, boia e carceriere di me stesso per paura di un peggio che non viene e non verrà perché è già qui anche se rifiuto di osservarlo e osservarmi.

Oltre il buio che mi avvolge, al limite della rottura per la fatica e i passi infiniti e la follia che mi guata, ecco sorgere di lontano una luce che mi rischiara. Il sole si rivela, m’accalora, rende il sudore una conquista e l’ansia di refrigerio un obiettivo, mi spinge a proseguire con la consapevolezza che consolazione e speranza ancora non mi sono state tolte, non mi possono essere strappate, ancora un passo e dalla cima potrò urlare che ho vissuto e ancora sopravvivo.

Ma ecco, il respiro mi si mozza. Tremo osservando ciò che mi attornia, provo orrore all’improvviso per quella luce che dall’alto illumina vallate, laghi, monti e le vite di chi ignora me e i miei tormenti e le mie lotte per loro, gli ignari, a cui restano i frutti mentre l’albero che glieli ha donati imputridisce. Crollo a terra, l’aria aperta è solo un’altra gabbia, la speranza l’ennesima illusione con cui cerco di giustificare la mia essenza.

Eppure mi alzo per l’ennesima volta, di nuovo in piedi, volgo le spalle a ciò che ho contribuito a creare, causa della mia condanna e ragione delle mie azioni. Vivo per immaginarmi in quei frutti, in coloro che li assaporeranno, per quell’istante in cui sono un tutt’uno con l’esistenza e i miei atti sono vani e necessari allo stesso tempo. Scorderò questa sensazione, all’infinito, soffrirò ancora e ancora fino a che non sarò io, saremo noi, quell’infinito.

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Su Netflix, lo spirito critico e la nostra insopprimibile voglia di guardare tutto ciò che è “pazzesco!”

Quando inizio un libro devo arrivare fino alla fine. Per quanto la lettura possa essere pesante, noiosa e poco soddisfacente non riesco ad arrendermi all’evidenza che, semplicemente, quel libro non fa per me. Anni fa ripresi la lettura de L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon solo perché non volevo “dargliela vinta”. Risultato? Tre mesi a penare su quelle novecentosessantasei pagine, solo per poter dire che ce l’avevo fatta. Ma non so se ho davvero vinto io, o il mio bisogno ossessivo-compulsivo di completismo.

Per alcuni al mondo ci sono così tanti libri da leggere che è stupido incaponirsi su quelli che non ti danno soddisfazione, e comprendo il loro punto di vista, ma per me anche la fatica di entrare nella testa di quegli autori che non capisco è una (masochistica) soddisfazione. Passando a un altro media, e avvicinandomi al tema del titolo, pensare di guardare un film di Lynch con lo stesso livello di attenzione di un American Pie qualsiasi è inutile: non siete costretti a farlo, ma se lo state facendo è perché qualcosa vi spinge, una malsana curiosità verso quel “di più” che magari non capirete fino in fondo, ma è una porta verso nuovi modi di vedere le cose. E parla uno che adora Mulholland Drive e si è addormentato a più riprese con Inland Empire, quindi non un apostolo del regista di Twin Peaks.

Il mio sguardo alla fine di Inland Empire, con un po’ di occhiaie per il sonno in meno

Come ci sono tantissimi libri obbligatori da leggere ci sono anche tantissimi film e serie tv che sembrano imperdibili, ma in questi due ultimi casi c’è uno strumento che ci rende molto più facile e immediato il recupero, se non a scapito “solamente” del nostro tempo e del prezzo di un abbonamento mensile: i servizi on demand, tipo Netflix, Amazon Prime, Apple tv e chi più ne ha più ne metta.

Sono stato anche io drogato di binge watching. Lo sono ancora, ogni tanto, tipo che con la mia fidanzata stiamo recuperando a velocità record Mad Men prima che Netflix lo tolga dal suo catalogo. Abbiamo fatto tirate in tempi brevissimi di Game of Thrones, Bojack Horsemen e Better Call Saul, e sono sicuro che altre ne faremo, ma in tutta l’abbondanza di contenuti che mi viene sparata in faccia costantemente ho trovato modo anche di dire, a differenza dei libri, “io qui mi fermo”. L’ho fatto anche grazie agli influencer, o meglio nonostante loro.

Ho un profilo Instagram che uso pochissimo, ma chi è più avvezzo di me a questo social network avrà sicuramente sentito definire un sacco di cose “pazzesche”. L’ho sentito usare per tanti di quei contenuti di Netflix che ho cominciato a chiedermi quale fosse il limite fra product placement camuffato e spirito critico assente, al punto che a ogni nuovo consiglio ho cominciato a dire no, oltre questo episodio non vado.

Non ci rimanere male, Messiah, ma oltre il quarto episodio non vado

La riflessione mi è scattata dopo essere caduto nell’inganno, per l’ennesima volta, con Unorthodox, miniserie tedesca basata molto liberamente sull’autobiografia di Deborah Feldman. Il tema alla base è controverso e interessante: l’esperienza di una donna che decide di abbandonare una comunità chassidica (ala dell’ebraismo ortodosso caratterizzata da regole piuttosto rigide, in particolare per le donne), perseguendo le sue aspirazioni e cercando di evitare il ritorno forzato all’interno della comunità. Critiche unanimemente positive, addirittura un documentario riguardante la lavorazione, eppure dopo il primo episodio rimango perplesso e mi dico “ci sarà sicuramente di più”. E invece no.

L’unico lato positivo di Unorthodox sta nel suo far vedere i lati negativi di una comunità ultra ortodossa senza cercare di demonizzare chi ne fa parte, cosa che sarebbe stata facile viste le ferree regole che vigono all’interno della comunità, ma dal punto di vista del racconto latitano troppe cose per giustificare quanto se ne parla bene. Tutto si risolve fondamentalmente in una favoletta in cui il realismo va a farsi benedire, tanto che infatti la vera storia della Feldman è molto diversa nella sua fase post-matrimonio: il modo in cui la protagonista Esty riesce a trovare nuovi amici, una sistemazione, la realizzazione dei suoi sogni e la libertà dalla comunità opprimente in cui è cresciuta è credibile solo se si ha una fiducia nell’umanità molto maggiore della mia, e io pensavo di essere messo bene da questo punto di vista. Aggiungiamo che gli eventi importanti nelle quattro puntate della miniserie sono davvero pochi, che il ritmo ne risente e che l’unico personaggio su cui avrei davvero voluto un approfondimento (Moishe, il cugino del marito Yanki incaricato di accompagnarlo a Berlino per riportare la fuggitiva a casa) viene lasciato monco di approfondimenti sul suo passato. Ho evitato accuratamente spoiler, ma se avete visto la serie e volete un parere approfondito sappiate che la penso più o meno come chi ha scritto questo articolo.

“Io spero in uno spinoff!”

Ho visto tutto Unorthodox perché in fondo si trattava di sole quattro puntate, ma già da tempo ho imparato che non posso sospendere il mio giudizio per tutto ciò che viene propinato come fondamentale. Quando sento di persone che hanno mollato Breaking Bad a metà della prima stagione (l’unico vero punto di stasi della serie) mi scandalizzo, ma comincio a capirli, perché probabilmente anche loro hanno ricevuto troppe delusioni basate su aspettative gonfiate da chi trova tutto entusiasmante. Vale la pena fare lo sforzo, dare un’opportunità, ma anche il tempo ha un valore e lo spirito critico si forma anche rifiutando qualcosa nel momento in cui i “capolavori” diventano prodotti carini ma tutt’altro che epocali: per dire, bello Stranger Things, ho guardato le tre stagioni e guarderò anche la quarta, ma ce ne ricorderemo fra dieci anni?

I miei NO possono essere più o meno condivisibili. Ho detto addio a Messiah dopo una prima puntata promettente e tre episodi interlocutori che sembravano voler allungare il brodo per non giocarsi tutti gli assi nella manica subito (gli è andata male, la seconda stagione non si farà), difetto che a un certo punto ho temuto infettasse anche The Morning Show salvo ricredermi, per fortuna, dopo una breve impasse. Mi è spiaciuto non dare fiducia a Jason Bateman, ma dopo due episodi Ozark non aveva fatto niente per meritarsi il recupero di tre stagioni. Mi sono incaponito, da amante della fantascienza, su Altered Carbon per sette episodi prima di vedere inabissarsi le mie speranze su un’ambientazione interessante in un mare di luoghi comuni e colpi di scena telefonatissimi che la sprecano in maniera criminale. E sì, ho mollato anche il cult del momento, La casa di carta, dopo soli tre episodi: non so voi, ma personalmente vedere che il piano geniale del Professore va subito a monte perché non è riuscito a scegliere le persone giuste per farlo funzionare mi ha fatto sentire preso in giro, e non ho avuto voglia di scoprire quanto fosse geniale nel recuperare una situazione di merda causata dalla sua stupidità.

E voi? Cosa avete seguito, cosa avete lasciato, e perché? Fatemelo sapere, e già che ci siete spiegatemi anche il senso di Inland empire, se lo avete trovato.

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Racconto in musica 13: Del movimento spontaneo (Ezio Bosso – Between men and trees)

Ci sono vari passaggi che mi hanno portato alla decisione di scrivere racconti basati su canzoni. Anni fa mi era venuta l’idea di raccontare l’assedio di un motel sperduto da parte di un gruppo di folli, traendo ispirazione per ogni capitolo da una canzone diversa: all’inizio ci sarebbe stata L’agguato dei Marlene Kuntz, seguita da The moonlight murders psychedelic band di Samuel Katarro (oggi a capo del nuovo progetto King of the opera) e Questa no di Giorgio Canali & Rossofuoco. Poi mi sono incartato, ho cominciato a pensare ad altre cose e il motel è ancora salvo. Per ora.

Della rubrica Musica Aumentata su Indie-Zone avevo già parlato, ma c’è stato un piccolo passaggio prima di questa esperienza, un esercizio svolto alla scuola di scrittura Belleville di Milano che consisteva proprio nell’inventare una storia di tremila battute su un argomento diverso per ognuno: poteva essere un quadro, una fotografia, nel mio caso fu una canzone.

Di Ezio Bosso so ben poco, se non che era un compositore famoso e che da anni era affetto da una grave malattia. Non mi metterò a cercare su Wikipedia per elencare dati che non fanno parte del mio bagaglio di conoscenze, ma se questo blog esiste lo devo anche al tempo speso sulle sue note. Il primo, vero racconto in musica è stato questo, e mi è sembrato giusto pubblicarlo a pochi giorni dalla sua morte: un sincero tributo a un ispiratore.

Questo racconto cerca parzialmente di rispondere anche a una domanda che mi sono fatto spesso negli anni: perché esistono così pochi film horror che si svolgono alla luce del giorno? Se c’è una cosa che, a mio parere, può testimoniare la perdita di ogni speranza è la conferma che i tuoi incubi notturni non svaniscono con la luce del sole, eppure riesco a pensare solo al recentissimo Midsommar come esempio di esperimento in questa direzione. Forse scriverò qualcosa al riguardo in un articolo, per ora godetevi una storia che parla del coraggio che ci vuole ad affrontare la vita quando qualcosa ci convince che non c’è più speranza. Buon ascolto, e buona lettura.

Del movimento spontaneo

La prima cosa a cui pensa è la fuga.

Ma dove può rifugiarsi? Non c’è nessun luogo sicuro, così si abbandona. Inspira. Espira. A lungo, affannosamente, cercando di escludere il mondo pur consapevole di non avere la forza di abbandonarlo.

E, quando riapre gli occhi, tutto esplode attorno a lei.

I colori la avvolgono, il rosso delle foglie sugli alberi, il giallo dei fiori, il verde dell’erba su cui poggia i piedi. Sente il vento scuoterle i capelli, il rumore delle fronde che si muovono ad un ritmo asincrono, il ronzare delle api che attorno a lei infondono vita alla natura. Avverte il lieve tremore del proprio corpo ogni volta che una le si avvicina troppo. Guarda lo spettacolo attorno a sé, cercando di non ascoltare il battito del proprio cuore, quel ritmo serrato che la avvisa che qualcosa non va.

Che c’è un elemento stonato.

Quello strisciare, lento e tormentato, proprio di fronte a lei, dove non ha più il coraggio di guardare. La creatura che le si avvicina, come vomitata da una terra che immaginava capace solo di magnificenza.

Non può ignorarla a lungo, e quando la fissa si accorge di esserne avvinta. Sa che la vedrà ovunque, d’ora in avanti, se non lei la sua minaccia di destino ineluttabile. Sarà in ogni specchio d’acqua in cui si bagnerà, pronta a trascinarla a fondo. In ogni atomo d’ossigeno che inspirerà, pronta a diffondersi nel corpo come un cancro.

Il battito del suo cuore si piega al movimento della creatura. C’è qualcosa di ipnotico in quell’incedere, una grazia che supera l’orrore. Non sono più le fauci sbavanti a soggiogarla. Non il puzzo nauseabondo. Quello strisciare è ormai una ninna nanna gotica, promette un riposo eterno. Lì, il ritmico pulsare che sente rimbombare nelle orecchie non sarà più un fastidio.

Si sente pronta a dire addio, a salutare una vita che ormai promette solo paura. Chiude gli occhi, si protende in avanti, aspetta l’ultimo istante della sua esistenza con estatica enfasi.

Così assorta che lo scatto dei denti a vuoto stupisce anche lei.

Cos’è quel battito ribelle? Da dove vengono le energie che l’hanno fatta ritrarre di scatto?

Si sente muovere, quasi non avesse più il controllo dei propri arti. Guarda un’ultima volta la creatura prima di volgerle le spalle, di cominciare a camminare, a correre, libera, senza temere le api, il vento impetuoso o i rami che la graffiano mentre si protende oltre il bosco e la paura.

Perché la vita non è questo. Non è arrendersi all’orrore, ma lottare per conquistarsi il diritto a godere di ciò che di bello porterà il prossimo attimo. È un cammino, forse inutile, ma che può essere permeato di gioia oltre che di sofferenza.

E così corre, oltre gli alberi, oltre il lamento che sente alle sue spalle, oltre la paura, oltre i sogni gli incubi le aspettative i timori e ad ogni battito un passo la porta un po’ più in là, sempre più in là, ancora più in là.

Finché, esausta e ormai salva dal mondo e da sé stessa, comincia a vivere per ogni istante che le è concesso.

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Ode a un compositore: Carter Burwell e le sue colonne sonore

Ho da poco finito di vedere una serie di cui magari avrete sentito parlare. Si chiama The Morning Show, ha Jennifer Aniston e Reese Whiterspoon come interpreti principali (e produttrici) e scandaglia le reazioni del personale di un network televisivo quando le accuse di molestie sessuali sul posto di lavoro, che hanno dato il via al movimento #MeToo, arrivano a toccarli da vicino. Al netto di poche concessioni alla drammatizzazione stucchevole la serie è davvero ben scritta, ma non è di questa che voglio parlare bensì della musica che la accompagna: mi sono bastate poche note di piano infatti per riconoscere la mano, alla direzione della colonna sonora, di Carter Burwell.

Burwell l’ho scoperto casualmente proprio col primo film a cui ha collaborato, Blood simple, esordio alla regia di una coppia che da lì ha fatto molta strada: i fratelli Ethan e Joel Coen. Già da quel momento (siamo nel 1984) si instaura un sodalizio che ha visto Burwell collaborare a tutti i film della coppia, A proposito di Davis escluso visto che le musiche furono curate dal cantautore T-Bone Burnett. Il tema portante di quell’esordio ce l’ho stampato in testa, l’ho perfino usato in una canzone del fallimentare progetto di reading distorto [progetto morosa], che avevo messo in piedi più di dieci anni fa: registrammo solo sei canzoni, perse ormai nell’etere dopo la morte di myspace, in una sala prove di Gaggiano con un’ora di tempo e zero esperienza, ma sono orgoglioso di essere riuscito con le mie scarse capacità musicali a registrare al volo una sopra l’altra tre parti di chitarra per citare la musica che trovate qui sotto.

Non è certo l’unico compositore che ha associato il proprio lavoro alla quasi totalità dei film di un regista (penso a Ennio Morricone con Sergio Leone, o John Williams con Steven Spielberg, giusto per fare due esempi), ma quello che mi ha colpito di Burwell è come sia riuscito a collaborare stabilmente con alcuni dei miei autori preferiti. Oltre ai Coen, che venero a partire da quel cult che è Il grande Lebowski, altri due registi lo hanno richiesto stabilmente per i loro lavori, e se non mi ero sinceramente accorto della sua mano nei film di Spike Jonze l’avevo invece notata eccome in quelli di Martin McDonagh.

Ho adorato ogni film di McDonagh, tanto che quando ho visto la pioggia di nomination per il suo Tre manifesti a Ebbing, Missouri ho deciso di farmi l’unica tirata della mia vita per vedere tutta la cerimonia degli Oscar. Tristemente vinsero solo l’annunciatissima Frances McDormand e Sam Rockwell (altro mio feticcio), e fra quelli che rimasero a bocca asciutta c’era lo stesso Burwell, alla seconda nomination dopo il Carol di Todd Haynes (altro regista con cui la collaborazione è continua). Se questo film e In Bruges hanno però ottenuto la visibilità che meritavano, mi sono sempre chiesto per quale motivo la stessa attenzione non l’ha ricevuta Sette Psicopatici: cast di attori azzeccatissimo, storia metacinematografica come non se ne vedeva da Il ladro di orchidee (Spike Jonze, guarda caso), e scelte musicali fantastiche. Quando parte il tema sottostante, subito dopo l’ultima scena del film, io ho sempre un brivido.

Non ho i mezzi per analizzare il lavoro musicale di un compositore, ma da appassionato mi sono sentito in dovere di far conoscere un nome che ha contribuito a fare la storia del cinema e che è ingiustamente poco noto fra il pubblico (chissà se il suo nome dice qualcosa ai fan della saga di Twilight: i due Breaking Dawn hanno la sua impronta musicale, altro rapporto di lunga data col regista Bill Condon). Sentire la sua mano e riconoscerla, oggi come anni fa, mi fa sempre piacere: spero che prima o poi se ne accorga anche l’Academy.

Bonus track: negli anni 80 ha fatto parte di molte band a New York, fra cui i Thick Pigeon. E in un brano come questo la sua mano è già riconoscibile.

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Racconto in musica 12: Una promessa (Muschio – Burian)

Da un qualche anno ho avuto modo di appassionarmi alla musica strumentale, e su questo blog ho già pubblicato due racconti ispirati a gruppi di questo interessante sottobosco musicale. La presenza della sola musica in fondo rende facile vagare con la mente, immaginarsi storie di cui la canzone può fungere da ideale colonna sonora. Mai come in questo caso è stato così.

I Muschio li ho scoperti dal vivo, in una data che dividevano con quell’altra grande band che sono i Valerian Swing, ed è stato amore al primo ascolto. Due chitarre e batteria, un suono potente e psichedelico, nella loro carriera hanno pubblicato due album (Antenauts del 2013 e Zeda del 2016). Ho avuto la fortuna di suonare in apertura ad un loro live, intervistarli e, in generale, seguirli per tutti questi anni: quando una loro canzone mi ha lasciato intravedere le basi per un racconto è stato quindi un piacere seguire la corrente.

Burian è il quinto brano di Zeda, una canzone dal ritmo incalzante che, complice la splendida cover del disco (di Luca Solomacello), mi ha subito fatto pensare a una storia dalle tinte horror. Mi sono divertito a giocare con il ritmo, orchestrando gli avvenimenti in base alle pause e ripartenze della musica: il risultato lo trovate qui sotto, subito dopo il brano. Buon ascolto, e buona lettura.

Una promessa

Non gli ho mai creduto quando diceva che non ci sarebbe successo niente, che isolati non significava in pericolo. Ho vissuto sempre all’erta.

Lo schianto della porta non mi coglie impreparata, i muscoli sono già tesi per lo scatto che mi porta in cucina mentre l’ingresso viene invaso dal vento e dal gelo della notte, corro di stanza in stanza sbattendo porte che si schiantano alle mie spalle mentre l’invasore avanza, inesorabile, finché non sposto la cassapanca dello studio a bloccargli la strada.

L’impatto è forte, ma la barricata regge. Ero preparata, sapevo dove sarei dovuta andare per riprendere fiato. L’invasore batte forte contro il legno, il vento fuori impazza, ma da qui posso raggiungere le scale. Rido di quella presenza che vuole ghermirmi, delle false promesse di sicurezza. Ora sono la preda, ma sono tutt’altro che inerme.

Forti colpi tempestano la porta. Le fronde degli alberi si agitano impazzite.

Scatto appena prima che il legno si deformi, che la forma dell’invasore violi un altro angolo del mio rifugio, balzo alla volta del piano di sopra col buio che mi incalza, mi sfiora, ulula di collera per la mia audacia, quasi scivolo prima di raggiungere il pianoforte, le mani tremano mentre stringo il tassello che lo tiene in equilibrio e lo strappo con un urlo coperto dal fracasso degli scalini sfondati quando rotola giù, libero di investire il mio inseguitore.

Resto sul pianerottolo, il cuore in gola. Immobile osservo il buio che nasconde lo sfacelo, impossibilitata a tornare indietro. Troppo curiosa per andare avanti. Gli ultimi scricchiolii si placano, le note dolenti dei tasti sfondati cessano la loro melodia distorta. Il silenzio incombe su di me. Mi scuoto, avanzo con cautela lungo il corridoio. Ogni passo non calibrato è una possibile condanna. Salgo verso la soffitta, mi stendo sul pavimento a ritrarre la scaletta, scivolo verso un angolo fra bauli e libri impolverati. Le ombre dei rami sembrano dita protese verso di me.

Un refolo d’aria mi sussurra all’orecchio che non gli sfuggirò.

Le finestre vanno in frantumi, schegge di vetro mi si piantano nella carne, cercando gli occhi, correnti violente mi agitano i capelli strappandomi un urlo dalla bocca.

E la scala si stende, i passi avanzano, il buio si fa più denso man mano che l’invasore si avvicina, mi trova, ride di me e dei miei sforzi e mi tocca, lascivo, prima una guancia e poi l’altra, a cercare le lacrime che provo a trattenere con un ultimo sussulto d’orgoglio prima di cedere mentre la sua voce mi raggiunge dai recessi di tenebra che ne sono l’essenza.

«Ma che fai quassù? Ancora i tuoi incubi?»

Apro gli occhi sul suo sorriso paterno, lo guardo fra lacrime di pentimento. Aveva promesso che mi avrebbe difesa, anche da me stessa, portandomi dove non sarei più stata in pericolo. Non pensava che potessi essere io, il pericolo.

Guardo i suoi vestiti sporchi di terra, la sua pelle pallida, l’erbaccia fra i capelli. Aveva fatto una promessa, ora non potrò più impedirgli di mantenerla.

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Abbiamo ancora bisogno di Tutorial: alla scoperta dell’ultimo album de iFasti

iFasti sono una band torinese in giro da molti anni, e con alle spalle progetti fra i più disparati. Hanno realizzato tre album e due Ep di cui uno, Morula, registrato in una sola notte e contenente tre canzoni, quattro racconti e molte immagini. Hanno sonorizzato due libri, promosso una compilation, Un disco grezzo, un disco che ci impegna, nata con l’intento di prendere posizione su temi sociali come l’uso di psicofarmaci sui bambini e la discriminazione subita dagli immigrati (in tempi non sospetti, era il 2009). Dal vivo alternano live elettrici ad altri più sperimentali, da sonorizzazioni di libri e film a reading.

Io tutto questo me lo sono perso, perché iFasti li conosco solo da poco più di una settimana grazie all’ascolto continuo dell’ultimo album Tutorial.

Mi sono avvicinato a questo disco leggendo una recensione su Impatto sonoro, incuriosito dal paragone con Il teatro degli orrori. La voce di Rocco Brancucci in effetti ha molte affinità con quella di Pierpaolo Capovilla, così come i testi, ma la musica qui è più affine, se vogliamo continuare a fare esempi, a degli Offlaga Disco Pax con più ritmo nelle vene. Fare nomi di altri non vuole essere sminuente, perché per fortuna iFasti hanno una loro personalità ben definita.

In Tutorial viene indagata la nostra realtà quotidiana, in maniera addirittura profetica visto che nel singolo Bomba Rocco dice “ci hanno convinti ad aver paura, tutti chiusi in casa”. Viene analizzato il nostro modo di comunicare, dall’individualismo imperante persino nel modo di raccontare le storie (Ionoi) a quello che rende banale e simile ogni canzone d’amore (Lamore), un “linguaggio che diventa sempre più americano” come dicono in Buoni anni. Finisce sotto esame il nostro modo di isolarci, ignorando ciò che ci accade intorno per un falso senso di sicurezza che rende amorfa la nostra vita (“Mentre beato fischiettavi contento/ scegliendo e baciando la tua latitanza dall’impegno/ non ti sei neanche accorto del numero chiuso nelle scuole/ del numero chiuso nelle feste/ ogni cosa è chiusa/ e ogni casa è chiusa”, Tpunto4), dove al massimo possiamo fantasticare sulla donna che ci mette gli occhi addosso al supermercato solo per scoprire che puntava ai nostri bollini della spesa (Meritiamo). È quasi paradossale che in tanta amarezza, velata comunque di un’ironia che ci ammanta sempre, il messaggio iniziale sia che per L’umanità migliore “è una questione di minuti e poi ritornerà”, ma in fondo il discorso è circolare: le ultime parole dell’album, dedicate a “un avveduto consumatore”, gli ricordano che merita ancora una vita “assolutamente pazza e meravigliosa”.

Tanta mole di contenuto viene veicolata musicalmente in modi diversi ma complementari. L’armamentario tecnico della band (due bassi, due computer, una chitarra e un sax) porta ad un approccio elettronico in brani come Tpunto4, dove si flirta con la house, e in Buoni anni e Pietro, dove invece i toni sono più minimali e cupi (ed è un peccato che in quest’ultima lo sfogo distorsivo tanto atteso non giunga mai). Bomba è il brano più “indie” e debole del lotto, arpeggio continuo in sottofondo ed esplosione contenuta nel finale a cui il sax riesce a donare un’anima più profonda. La palma di brano migliore va sicuramente a Lamore: sbarazzina senza essere stupida, la canzone ha un ribaltone a metà brano che ci proietta in un’atmosfera da discoteca ma con qualcosa di malinconico nella melodia, perfetta espressione sonora del concetto “si parla d’amore e ci si nutre d’odio, che strano paradosso” che Rocco continua a recitare come un mantra. In generale c’è un equilibrio fra gli elementi che si apprezza sempre più col procedere degli ascolti, dato che la prima cosa che spicca è la voce: dategli tempo e fiducia insomma, non ve ne pentirete.

Anche il video è perfetto

Per farvene un’idea di persona potete ascoltare Tutorial qui. L’album esce per I dischi del Minollo e Scatti Vorticosi Records, e voglio approfittare di questo spazio anche per portare all’attenzione un’iniziativa di quest’ultima etichetta: riunendo settanta band musicali indipendenti, fra cui gli stessi iFasti, hanno creato una compilation benefit il cui ricavato andrà tutto nelle tasche dei live club. Per scaricarla potete fare un’offerta libera direttamente al locale prescelto, e se volete suggerire al vostro locale preferito di aderire (e per ulteriori istruzioni) vi invito a dare un’occhiata a questo link: pensate ai soldi che avete risparmiato non andando ai concerti, ai locali che avete amato, alle band che potete scoprire attraverso questo vortice di musica e donate qualcosa.

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