È brutto ammetterlo, ma le scelte musicali che ho operato in questa sezione sono state molto poco inclusive. Di cinquantacinque racconti usciti solo quattro hanno preso ispirazione da canzoni di band con almeno una componente femminile, una scelta dovuta al fatto che, contrariamente ai libri, i miei ascolti si concentrano perlopiù su musica suonata da uomini. Le eccezioni ci sono, e proverò a ispirarmi a quelle per altri racconti in futuro, nel frattempo potete consigliarmi autrici che mi sono perso per strada nel variegato mondo della musica indipendente: sono sempre aperto ai nuovi ascolti.
C’è una cantautrice però il cui nome mi accompagna da anni, anche se ho approfondito la sua musica meno di quanto avrei dovuto. Non so dire quando è stata la prima volta che ho incrociato il suo nome, ma il momento esatto in cui è scoccata una scintilla è stato nel 2003, con una sua canzone in alta rotazione su Mtv: la canzone era Triathlon, e lei è Cristina Donà.
Una carriera lunga più di vent’anni quella di Donà, costellata di successi e collaborazioni. L’esordio discografico avviene con Tregua, nel 1997, album prodotto da Manuel Agnelli con cui la cantautrice aveva già avuto numerosi contatti: era stata lei a invitare gli Afterhours a suonare al concerto di fine anno all’Accademia di Brera nei primi anni novanta, aprendo poi una loro esibizione di uno dei primi tour della band (quando ancora Agnelli cantava in inglese) con un repertorio di cover chitarra e voce. Tregua ottiene subito ottimi riscontri, permettendo a Donà di portarsi a casa la Targa Tenco per il miglior album d’esordio e il Premio Lumezia come miglior artista emergente.
Ripercorrerne la carriera in ordine cronologico è un’impresa, vista l’enorme mole di progetti in cui è stata coinvolta. Oltre ai suoi sette album in italiano (l’ultimo in coppia con Ginevra Di Marco, nel 2019) uno in inglese (l’album omonimo Cristina Donà, in cui rielabora le canzoni del precedente Dove sei tu) una raccolta dei brani migliori e la riedizione di Tregua nel ventennale dell’uscita, con i brani affidati a nomi emergenti della musica italiana come Birthh e La Rappresentante di Lista, Donà è apparsa in dischi di nomi noti e meno noti della musica italiana, dagli ovvi Afterhours a La Crus, Massimo Volume, Micevice, Gianni Maroccolo, Lubjan, Diaframma, Pacifico, DiMartino…e la lista sarebbe ancora lunghissima. Capace di reinterpretare dal vivo, assieme alla band The Waiting Room, l’opera rock Tommy degli Who, autrice per altri oltre che per sé (da più di dieci anni ha formato un sodalizio artistico col chitarrista e pianista Saverio Lanza, con cui ha scritto fra le altre canzoni per Arisa e Irene Grandi) Donà ha creato negli anni un intenso legame con Robert Wyatt, artista omaggiato in varie occasioni e con cui la stima è reciproca fin dagli esordi, tanto che il musicista votò il suo album d’esordio fra i cinque migliori dell’anno sulla rivista inglese Mojo e duettò con lei in una delle sua canzoni più iconiche, Goccia. Nel 2015 vince nuovamente la Targa Tenco, questa volta per la miglior canzone con il brano Il senso delle cose, estratto dall’album Così vicini, premio a cui fa seguito nel 2016 il Premio De Andrè, ricevuto da Dori Ghezzi per la sua reinterpretazione dell’opera del cantautore genovese: sono solo due degli svariati riconoscimenti di una carriera che negli anni ha fatto innamorare tantissime persone della sua musica, mutata negli anni ma con la sua voce unica come colonna portante, voce da cui potete farvi ammaliare anche nella sigla della recente serie televisiva di Niccolò Ammaniti, Anna.
I duellanti è la quarta traccia de La quinta stagione, album che nel 2007 sancì il passaggio dalla Mescal alla Emi. Ballata meno dolce di quanto ci si aspetti, è nel testo che Donà evoca con maestria un rapporto complicato che ci restituisce per immagini, senza troppe spiegazioni. Proprio quei dettagli sfumati mi hanno ispirato a scrivere una storia che parte come un vero e proprio duello d’onore, con tanto di scelta delle armi, fra un lui e una lei che hanno tante cose da recriminarsi: lo trovate subito dopo il brano, non mi resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).
All’ultimo sangue, o quasi
Immagino il momento in cui torneremo a parlarci come un vecchio duello, i nostri secondi ad attenderci fuori città nell’alba di un freddo giorno d’inverno. Tu porterai l’amico con cui eri solito andare a bere, dopo un litigio troppo violento o per festeggiare qualcosa, io la sorella che ha accolto tutte le mie lacrime, detestandoti per ognuna di esse.
Litigheremo, è ovvio, anche per la scelta dell’arma. Vorrai usare lo stocco, per poterti avvicinare tanto da sentire il sangue che mi ribolle nelle vene, io pretenderò la pistola, per non essere costretta a guardarti prima che inizi la sfida. L’avrò vinta, già lo so, perché è d’uso che la parte offesa abbia libertà di scelta: dovrai adeguarti alle mie regole, dopo esserti tanto ribellato per conquistare una supposta libertà.
Schiena contro schiena cercherai le mie mani, ma non lascerò che tu le stringa. Ho ancora nella memoria il freddo provato sfiorandoti le dita, quando mi porgevi un mazzo di margherite solo per lenire l’effetto di quel che avevi da dire. Il calore che vorresti da me non lo meriti, non dopo avermi costretto alla pesantezza dei giorni passati a chiedermi dove fossi e con chi. Attenderai senza il conforto di un mio ripensamento quegli attimi prima di allontanarci, e solo al decimo passo potrai vedere con quali occhi accoglierò il tuo sguardo.
Camminerò chiedendomi se stavolta riuscirai a sostenere il confronto, sei così abituato ad allontanarti quando non sai come replicare alle mie accuse. Non ti basterà conoscere l’arte della fuga per scappare prima che scorra il sangue, col cielo come testimone per una volta andremo fino in fondo.
Penserai a tutti quei momenti passati insieme, allontanandoti da me col passo del condannato, soppesando il modo in cui le tue colpe hanno reso i miei errori trascurabili. Non riuscirò comunque a scordarli nel vento freddo del mattino, mi aggrapperò alla speranza che, voltandomi per affrontarti, la titubanza nel volerti cancellare dalla mia vita non si riverberi alle mani.
Una di fronte all’altro, col sole nascente a illuminare le nostre figure, non avremo più tempo per abbandonare la tenzone senza sentirci vili. Comincerò io a sparare, con la fretta di chi vuol farla presto finita, ma avrai il tempo di rispondere una, due, tre volte ai miei colpi, prima che ci tocchi fermarci per non renderci ulteriormente ridicoli. L’allenamento intrapreso per infliggerti un colpo mortale non avrà l’effetto desiderato, non farò mia la crudeltà con un avversario che finge di essere inerme.
Ci toccherà parlare, ragionare, ritornare ancora su quel passato che ci ha visto insieme e complici, nemmeno così lontano da giustificare una definitiva lontananza. La mia immaginazione è troppo arida per sognare una realtà in cui non ti amo, ma vorrei tanto farti penare di più, prima di accoglierti in un abbraccio.
Avrà ancora senso ingaggiar battaglia, ferirci anche, finché avremo l’accortezza di chiederci chi si è fatto più male.
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Immaginate una band. Alcuni dei componenti potrebbero essere vostri amici, di sicuro li conoscete tutti almeno di faccia perché in una maniera o nell’altra si sono fatti notare. Suonano insieme da una vita, due di loro hanno formato la prima band a undici anni, al primo concerto gli amplificatori glieli hanno dovuti portare i genitori (e posso capirlo, dopo aver portato in giro per una vita un combo Fender che pesa come un macigno). Hanno fatto tutti parte di un sacco di gruppi in città, si sono conosciuti perlopiù così: alcuni hanno fatto uscire delle ottime cose, hanno girato fuori dalla zona con un gruppo famoso quando nemmeno avevano la patente, non se la sono cavata male per un posto che un famoso concittadino, scrittore e giornalista, definisce una weird place. Li avete sempre un po’ invidiati, chiusi nella cantina dei genitori accomodanti di uno di loro a suonare, a volte siete anche andati alle loro prove: bel clima, bella gente, musica pesante, e voi cazzo non potete nemmeno suonare la batteria in casa perché i vostri, di genitori, dicono che fate casino.
I vostri amici che suonano in cantina, e non è manco insonorizzata
Sperate tanto che facciano strada, ma chi ci riesce dalle vostre parti (a parte il famoso scrittore e giornalista)? Il primo concerto lo fanno in una chiesa, con le vecchine che scappano appena iniziano, come aneddoto funzionerebbe in una biografia ma ne avete visti troppi che si sono fermati a quello. Un famoso detto recita “la fortuna non esiste: esiste il momento in cui il talento incontra l’opportunità”: loro hanno il talento, hanno qualche bella opportunità, ma fortuna neanche per il cazzo. Registrano il primo disco con un nome abbastanza noto del giro, ma scontano l’inesperienza e ne esce fuori una cosa che non li soddisfa, tanto che il bassista addirittura se ne va. Provano a farlo uscire per un’etichetta che adorano, ma finisce per aiutarli a stamparlo un’amica. Fanno loro le foto del booklet, i titoli delle canzoni hanno i nomi dei genitori dei componenti e del cane di uno di loro: divertente, ma è esattamente quello che ti aspetti da chi non si prende troppo sul serio perché tanto non arriverà troppo in là. Insieme al nuovo bassista, che è sempre uno del vostro giro, registrano un altro paio di pezzi col nome abbastanza noto, ma non li fanno uscire. Poi si allontanano un po’, per la scuola e cazzi vari.
Il primo album dei vostri amici
Quando tornano a suonare dal vivo rimanete impressionati, una cosa così non l’avete mai sentita. Non sapete dire se vi piace, ma è qualcosa di nuovo, qualcosa che dovrebbe uscire dalla vostra zona. Li vedete nella solita cantina a provare cinque giorni a settimana, sentite dire che sono pronti a registrare il secondo disco e questa volta glielo pubblicherà l’etichetta che adorano, che ha davvero un bel giro: neanche fate in tempo a pensare che la fortuna stavolta gira da queste parti che il chitarrista viene investito, manca poco che ci rimane secco. Una volta che si è ripreso partono i lavori, i ragazzi stavolta hanno le idee chiare ma devono registrare tutto di fretta, in un solo fine settimana, per ridurre i costi. Fanno le ore piccole, qualcosa lo improvvisano, ma il risultato è più in linea con quello che volevano. Hanno un tour pianificato in Europa, pensate ancora che è la volta buona ma a quel punto temete di menare sfiga, perché la band si scioglie prima ancora dell’uscita dell’album. Il disco ha una copertina in bianco e nero, bella ma anonima, non ci sono nemmeno il titolo e il nome del gruppo. Zero interviste, zero promozione, giusto una recensione entusiastica del nome abbastanza noto che aveva registrato il primo album. Un annetto dopo ci riprovano, si chiudono in una baita e cercano di tirare fuori altro, ma è troppo tardi: addio gruppo, è andata come mille altre volte.
Solo che questa volta i vostri amici che speravate ce la facessero sono Brian McMahan (chitarra e voce), Britt Walford (batteria), David Pajo (chitarra) e Todd Brashear (basso), gli Slint, e l’album è Spiderland.
I vostri amici alla cava vicino casa, senza sapere che stanno per essere immortalati in una foto iconica
Dell’importanza musicale del secondo parto creativo degli Slint si è parlato già moltissimo: ha contributo a creare un genere, il post-rock, e ha influenzato artisti in tutto il globo, dai Mogwai ai Sigur Rós. Che piaccia o meno, e può non piacere a tutti, Spiderland è uno di quei dischi realizzati senza pensare di fare la storia, ma che riescono a dire qualcosa di completamente nuovo in maniera sincera e personale. Sei brani con un’idea precisa in testa, un suono scarno ed essenziale, testi che sono dei veri e propri racconti, minimali ed evocativi di un’atmosfera bizzarra e oppressiva. Le parti vocali, registrate all’ultimo principalmente dal chitarrista Brian McMahan, alternano sussurri e urla in un saliscendi che dona ai brani un moto emozionale aggiuntivo, rendendo l’esperienza dell’ascolto allo stesso tempo straniante e confortevole, come trovarsi in un posto inquietante senza sapere come ci sei arrivato ma consapevole che lì niente vuole farti veramente del male. Spiderland è un disco che non ha fretta di dire qualcosa, si lascia scoprire piano piano, piazzando sfoghi distorti ogni tanto ma costruendo la propria particolarità più sui silenzi, sui riff tirati al limite, sui pochi colpi di batteria piazzati nei punti giusti: è sperimentale in tutto, nell’escludere ciò che non è essenziale al brano specifico (la batteria in Don, Aman, una specie di canzone folk allucinata e incalzante, la voce in For dinner), in quelle liriche dal sapore spoken word, negli arrangiamenti che se ne fottono totalmente della forma canzone. È un disco che sembra costruito apposta per non fare successo, con una cover senza riferimenti a parte le facce di chi lo ha realizzato (la foto è stata scattata dall’amico Will Oldham, meglio conosciuto in seguito come Bonnie “Prince” Billy), fuori da ogni logica commerciale, troppo tranquillo per chi ascolta musica distorta e troppo distorto per chi è affascinato dalla sua essenzialità, lento in una maniera che sembra non voler andare da nessuna parte: eppure ci è andato, e a trent’anni di distanza stiamo ancora parlando di un miracolo che dovrebbe dare speranza a tutti.
Ripassate
Gli Slint si sono sciolti per una serie di motivi concatenati, principalmente la depressione che colpì McMahan qualche tempo dopo l’incidente in cui rischiò la vita e i suoi dubbi sul voler diventare un musicista di professione (cosa che lo accomuna almeno a un altro musicista in quegli stessi anni, il bassista dei SoundgardenHiro Yamamoto, che lasciò la band perché non si sentiva a suo agio col successo crescente). Ognuno dei membri è andato avanti a suonare con altri progetti, dai The For Carnation dello stesso McMahan (che come Brashear è però da tempo lontano dai palchi) alle The Breeders, in cui Walford ha suonato registrando con un nome diverso, riunendosi spesso per suonare sui dischi dell’amico Bonnie “Prince” Billy. Hanno fatto tre reunion, tutte in occasione del festival inglese All Tomorrow’s Parties (di cui hanno anche curato parte dell’edizione 2005), arrivando finalmente in Europa con quattordici anni di ritardo su quel tour che avrebbe dovuto renderli qualcuno e che invece non è stato necessario fare per entrare nella storia.
L’ultima esibizione degli Slint, avreste voluto esserci eh?
L’importanza di Spiderland, a trent’anni dalla sua uscita, va al di là della musica, perché è la prova tangibile che se qualcosa deve arrivare alle masse ci arriverà. La Touch & Go, etichetta che lo fece uscire, azzeccò di lì a poco talmente tante mosse che forse il disco risentì anche di quella spinta, così come la recensione entusiastica di Steve Albini (il “nome abbastanza noto” che registrò il primo disco Tweez) su Melody Maker potrebbe aver attratto un po’ di gente, ma questo non basta a spiegare la rilevanza che ottenne, vendendo sempre di più con gli anni e incantando le orecchie di una schiera di musicisti e semplici ascoltatori. Ciò che hanno fatto gli Slint, col loro successo “postumo”, è stato rendere giustizia a tutte quelle piccole band a cui il successo non ha arriso anche se lo meritavano, ai gruppi scioltisi troppo presto, ai musicisti che venivano dal buco del culo del mondo come loro perché, come diceva l’illustre concittadino Hunter S. Thompson (lo “scrittore e giornalista”) in una frase piazzata in apertura del documentario Breadcrumb Trail (fonte di molte delle informazioni di questo articolo) che Lance Bangs ha dedicato loro nel 2014:
Just keep in mind for the next few days that we’re in Louisville, Kentucky. Not London. Not even New York. This is a weird place.
Hunter S. Thompson
Grazie quindi agli Slint, per la loro musica e per farci credere ancora oggi che fregarsene delle mode è una scelta giusta e doverosa, anche se magari non ti porterà da nessuna parte.
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Nella mia adolescenza fui folgorato sulla via di Seattle. Era il 1994 ed ero già in pericoloso ritardo, visto che di lì a poco Kurt Cobain avrebbe fatto la fine che tutti conosciamo e il movimento si sarebbe schiacciato su sé stesso, portando pian piano allo scioglimento dei Soundgarden (lo appresi da Tv Sorrisi e Canzoni, può una notizia arrivare in maniera più schifosa?), all’arrancare per un periodo giusto un po’ più lungo degli Alice in Chains e alla trasformazione dei Pearl Jam in epigoni di Bruce Springsteen (per fortuna scoprii poi i Mudhoney, approcciandomi al lato meno commercialmente fortunato del grunge). Ascoltai innumerevoli volte ogni album dei miei gruppi preferiti, che poi erano quel quartetto lì, ignorando che negli stessi anni un altro movimento andava spandendosi sulla stessa costa, ma più a sud: lo stoner.
Saluti dalla patria dello stoner
Se il grunge mi si schiantò addosso (e vivaiddio che capitò quell’incidente), lo stoner fu la scelta consapevole di un me poco più che ventenne che iniziava ad allargare i propri orizzonti musicali. Rispetto alla scena di Seattle, a cui era stato tentato di attaccare un respiratore artificiale col filone post-grunge, il genere portato agli albori della cronaca principalmente da Kyuss e Monster Magnet (con diversi approcci, di cui il secondo sempre più hard rock e tamarro man mano che gli anni avanzavano) aveva in sé un nucleo più semplice e sincero: frequenze basse, una certa dose lisergica e il gioco, se ci SAI giocare, è fatto. Lo stoner rappresenta per questo una “comfort zone” per le mie orecchie, più del grunge, perché spesso chi lo fa si perde in un’atmosfera desertica e riesce a raggiungere quel nucleo, anche se ad esempio vivi in Danimarca e il deserto è la cosa più lontana dai tuoi orizzonti abituali. Proprio da quella piccola propaggine d’Europa arrivano i Causa Sui, e tutta questa introduzione di cazzi miei è servita solo a fare da preambolo al loro accoglimento nella grande famiglia di Tremila Battute.
Non fingerò di conoscere vita, morte e miracoli di Jonas Munk (chitarra, tastiera, spippolamenti elettronici e voce, quando raramente c’è), Jess Kahr (basso), Jacob Skøtt (batteria) e Rasmus Rasmussen (tastiera), perché fino a un mese fa non sapevo neanche chi fossero. Mi è bastato però solo qualche ascolto per trovare in loro onestà e ricerca di una via personale, capacità di perdersi nella propria musica partorendo un mondo sonoro capace di omaggiare il passato ma con spirito nuovo. Prolifici a dir poco, hanno pubblicato dal 2005 sei album in studio, due live e, memori della lezione di Josh Homme con le Desert Sessions (o forse semplicemente presi bene con le collaborazioni spontanee), sei dischi in collaborazione con artisti ospiti (Johan Riedenlow nelle tre Summer Sessions, Ron Schneiderman nelle Pewt’r Sessions) in cui è l’improvvisazione a farla da padrona. I Causa Sui hanno abbracciato nella loro musica influenze che vanno dal jazz al kraut-rock, spingendosi sempre più in là senza farsi problemi di durata dei brani, che passano dai dieci minuti abbondanti alla media al di sotto dei cinque dell’ultimo album Szabodelico (in cui sono presenti un paio di brani dal titolo curiosamente in italiano, Sole elettrico e Rosso di sera bel tempo si spera). Munk e Skøtt hanno anche creato una loro etichetta, la El Paraiso Records, con la quale pubblicano tutti gli album dei Causa Sui, di progetti paralleli in cui sono coinvolti membri della band e di un fottio di altre band sparse qua e là per il globo, dalla vicina Norvegia alla California, tutte riunite nel nome della psichedelia in ogni sua forma.
Dust Meridian è la prima traccia del disco Return to sky, un viaggio evocativo tra distorsioni grezze, tastiere impazzite e momenti di pura calma. Perdercisi dentro è stato facile, portato dalle note a immaginare una fuga nel deserto più interiore che esteriore, una sorta di ricerca del proprio sé ambientata in un mare di sabbia. Trovate il risultato di questo mio improvvisato viaggio astrale (non si offendano quelli che ne sanno veramente di queste cose, non voglio millantare conoscenze mistiche che non ho) come al solito sotto al brano che lo ha ispirato, non mi resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).
Scappa
Inseguo il demone e il demone insegue me. Ovunque guardi vedo solo sabbia, la distesa infinita sede del confronto cui mi accingo, così sensuale nella sua morbida sinuosità da farmi provare orrore per me, attratto da una promessa d’annullamento.
Dove siete finiti tutti? Corro e affondo, nuoto controcorrente in questo mare solido che mi accarezza la pelle, mi entra dentro e ambisce a trattenermi in catene. Osservami così, sole, dammi un segno della tua presenza che non sia solo il calore su queste ossa pronte a sbriciolarsi in eterno, scaldami d’amore e non d’indifferenza! Sono perso e vorrei ritrovare la strada, ma chi mi ha condotto qui se non son stato io, quale meta vagheggiavo mentre mi muovevo senza coscienza di me? Terribile è la memoria quando t’abbandona in luoghi che non sai chiamare casa.
Il crepuscolo s’avvicina, le forme del demone s’allungano a sfiorarmi, ombra di me che mi si attorciglia intorno. Sdraiarmi, arrendermi a quell’oscurità promessa sembra un atto dovuto, abbandonare la lotta ora che il calore dei granelli che mi accolgono può ancora darmi un’illusione di presenza. Sprofondare così è come farmi improvvisamente mare, sento spandermi lontano come onde che si propagano dal centro del mio petto ma è illusione, sono sempre qui, ero già là.
Potete sentirmi arrivare, ora che mi rendo conto di esserci sempre stato? Accoglierete il mio ritorno, ora che intuisco la strada di casa che ho sempre conosciuto? L’ultima luce del giorno mi indica un punto lontano, oltre cui trovare ciò che anelo e da cui sono fuggito, ma non ha senso chiamare ritorno l’arrivo in un posto che può essere ovunque.
Il deserto è ancora e non è più. Il demone dentro di me scappa inorridito ma la nostra fuga è impossibile. Immobile nel mio continuo movimento a tendere osservo il confine fra me e gli altri. Il cielo qui è pieno di stelle e io non so se entrare a far parte del firmamento o rimanere sulla terra nuda, a guardare ciò di cui faccio parte e non so ancora accettare. Ma è così bella, quella vista, che mi basta perdermi nell’atto di contemplare una differenza che non esiste.
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Hayao Miyazaki è un nome che difficilmente qualcuno non avrà mai sentito nominare. I più vecchi ricorderanno l’anime Conan il ragazzo del futuro, con cui il regista giapponese aveva mosso i primi passi da autore (dopo aver diretto parecchi episodi della prima serie di Lupin III, personaggio con il quale esordì alla regia di un lungometraggio ne Il castello di Cagliostro), ma il grande pubblico e la critica si accorsero veramente di lui quando nel biennio 2002-2003 La città incantata vinse l’Orso d’oro al Festival di Berlino e in seguito l’Oscar al miglior film d’animazione, unico esempio di animazione orientale a riuscirci in un segmento dominato negli anni perlopiù da Disney e Pixar. Non fingerò di essere un esperto della sua filmografia, perché nonostante vari amici appassionati delle sue opere ho ancora molte lacune: un film su tutti però mi ha colpito, visto con estremo ritardo solo un mese fa, ed è Principessa Mononoke.
Storia di uno scontro fra umani e natura ambientato nel Giappone del sedicesimo secolo, la pellicola veicola uno dei temi più cari a Miyazaki, quello ecologista. Non è difficile ritenerne attuale il messaggio, in tempi in cui le contromisure al surriscaldamento globale si fanno strada nei piani politici di quasi tutte le nazioni (con logiche, ahinoi, ancora principalmente capitalistiche), ma sono anche altri i motivi per cui, guardandolo oggi, Principessa Mononoke non ha perso niente della sua carica.
Un mondo inclusivo
Sebbene la trama segua il viaggio di Ashitaka alla ricerca di una cura alla piaga che lo affligge, infezione ricevuta nello scontro con un Dio-Cinghiale trasformato in demone dal rancore, il giovane principe rappresenta più l’ago della bilancia fra forze contrastanti che il vero motore dell’azione. A portare avanti la storia sono infatti due donne: San, la principessa spettro (termine italiano più vicino al giapponese Mononoke) che protegge la foresta, alleata della Dea-Lupo Moro da cui è stata salvata e cresciuta, ed Eboshi, padrona della Città del Ferro simbolo del progresso che avanza.
Pensare a due personaggi femminili così forti in un contesto come quello giapponese, dove ancora oggi (o forse maggiormente oggi) il sessismo è ben radicato, soprattutto sul luogo di lavoro, è una scelta di larghe vedute da parte di Miyazaki, che in generale mostra nell’arco del film come il sesso non sia una discriminante in nessun contesto: quando gli uomini muovono verso la montagna, impegnati nel recupero della testa del Sommo Dio-Bestia, sono le donne a difendere la città dall’attacco dei samurai, senza che a nessuno venga in mente di dubitare delle loro capacità. La scelta è in realtà coerente con il periodo storico, visto che nell’antico Giappone non era inusuale vedere donne in posizioni di potere (le cose cominciarono a cambiare dal 1600 in avanti, durate i periodi Edo e Meiji), ma rappresenta l’ennesimo tassello nella filmografia di un regista che, a differenza di quanto fatto in occidente dalla Disney per decenni, ha spesso dipinto le donne come padrone del loro destino e non vincolate al salvatore di turno.
Ecologia come rapporto paritario con la natura
Anche il messaggio ecologista, già esplicitato nel cappello introduttivo, rappresenta un tema che Miyazaki ha affrontato svariate volte, particolarmente nel film Nausicaä nella Valle del vento. L’avanzare del progresso, esemplificato dalla Città del Ferro che vede nella foresta solo una fonte da cui attingere indiscriminatamente, divide sempre più l’uomo dal contatto con la natura, tanto che apparizioni come quelle dei kodama, bizzarri spiriti degli alberi che testimoniano della buona salute degli stessi, provocano reazioni d’orrore nel soldato ferito che Ashitaka salva dalla morte. Non c’è però nel messaggio del film un connotato moralistico, bensì la volontà di esplicitare l’importanza del dialogo: bene e male non sono termini ascritti all’una o all’altra categoria, perché anche la natura sa essere crudele quando il rancore la avvelena (succede agli Dei-Cinghiale Nago e Okkoto, ma anche al Sommo Dio-Bestia che, nel tentativo di recuperare la sua testa, avvelena tutto ciò che incontra), quindi sono la pace e la coabitazione a dover regnare per rendere prospere tanto la foresta di San quanto la città di Eboshi.
Secondo questa logica Miyazaki dipinge anche i suoi personaggi, tutti dotati di saggezza ma anche di lati oscuri. Per citare I Cani e la loro Wes Anderson né i “buoni” né i “cattivi” lo sono davvero fino in fondo, tanto che basta ascoltare le parole che la Dea-Lupo Moro rivolge ad Ashitaka prima che questi parta per la Città del Ferro per capire che, se anche la ragione può essere da una delle due parti, l’odio ci mette poco ad avvelenare gli animi più giusti:
Io quassù col corpo che va marcendo mentre porgo gli orecchi alle grida del bosco sto aspettando quella donna, mentre sogno l’istante in cui le azzannerò quella sua testa!
Moro
Dalla parte della natura, costretta suo malgrado a difendersi dagli attacchi umani, assistiamo a episodi come quello dei saggi Oranghi che di fronte ad Ashitaka ferito pensano di cibarsene per acquisirne la forza, mentre nella Città del ferro che sta crudelmente rovinando la foresta le armi sono sviluppate da uomini colpiti dalla lebbra, che Eboshi accoglie quando nessun altro è disposto a farlo, dimostrando uno spirito caritatevole laddove sembrava esserci solo calcolo. Persino il bonzo Jiko quando appare la prima volta dimostra con le sue parole una saggezza che mal si accorda con la decisione, quale emissario dell’Imperatore, di tagliare la testa al Sommo Dio-Bestia per nient’altro che cupidigia. La pace fra tutte queste diverse forze in gioco è un equilibrio difficile da trovare, possibile solo grazie ad Ashitaka che, prima ancora che ad una cura per sé, ambisce a “discernere ogni cosa con pupille non offuscate”, augurio che l’anziana Hii gli rivolge prima che egli sia costretto ad abbandonare il suo villaggio: ecco quindi che natura e uomo (posto che l’uomo possa essere pensato al di fuori della natura, ma potremmo passarci ore a discuterne filosoficamente) tornano a essere una cosa sola se si ha il coraggio di guardare al di là delle categorie che siamo abituati a conoscere, rinnovando quel rapporto simbiotico che perdiamo mossi dall’ego o dall’odio per l’altro.
Una lingua comune per instaurare il dialogo
Non mi intendo di doppiaggio, quindi non mi dilungherò sulla polemica che si sviluppò nel 2014 quando, in vista della riedizione di Principessa Mononoke, il film venne integralmente ridoppiato: qui trovate un articolo che, al netto di innegabili interventi sul senso della storia, propende per l’operato svolto nella vecchia versione, qui uno dove si esalta quella nuova. Senza minimamente conoscere tutto questo mi sono avvicinato all’opera di Miyazaki nella “2014 edition”, innamorandomene proprio per il lavoro svolto sulla lingua.
Era intenzione del regista, anche per calarsi nella realtà del Giappone in cui si svolgono le vicende, quella di usare una lingua aulica e desueta, direzione che il nuovo doppiaggio accoglie in pieno. Ascoltare le linee di dialogo è una gioia per le orecchie, anche quando la complessità rende difficile capire completamente il discorso, perché in fondo quello a cui stiamo assistendo è la messa in scena di un mondo in cui già si sta perdendo la capacità di dialogare. Lo sforzo che dobbiamo fare è in qualche maniera parte dell’esperienza, commisurato a quello che i personaggi sono costretti ad affrontare per arrivare infine ad un punto comune.
La cura nei dialoghi è riscontrabile anche nelle sottili differenze fra il linguaggio utilizzato nel villaggio di Ashitaka, patria degli Emishi (popolo discendente diretto delle prime popolazioni di cacciatori raccoglitori che si instaurarono in Giappone), e quello utilizzato nei restanti luoghi: ancora più denso (e stiamo parlando di un film in cui alcune ragazze, ridendo di una battuta, esclamano “senza dubbio” in risposta, come se limitarsi alla risata fosse stupido), trova un senso nelle parole di uno degli anziani, che argomenta riguardo alla prossima partenza di Ashitaka:
Battuti nella battaglia con lo Yamato, sono più di cinquecento anni che ciceriamo in queste terre. E ora dicono che la forza del sovrano dello Yamato stia appassendo, e che anche le zanne degli shogun si siano spezzate. Tuttavia, anche il sangue della nostra stirpe si è altresì sciupato. In un momento simile, che il giovanotto dato a divenire il capo della nostra stirpe si metta in viaggio per l’Ovest potrebbe essere il destino.
Nelle parole dell’anziano ci sono l’idea di un isolamento che, se da una parte permette al proprio popolo di mantenere salde radici con la natura (prima di uccidere il corrotto Dio-Cinghiale Nogo Ashitaka tenta in in tutti i modi di dialogare con lui, e al suo cadavere vengono offerti un tumulo e celebrazioni nonostante il pericolo corso), dall’altra prospetta loro un lento declino. Il viaggio del principe della stirpe, prospettato da un destino che non possono capire ma accettano comunque, porterà effettivamente nel mondo parte di quella saggezza, aiutando a ristabilire un equilibrio che, una volta spezzato definitivamente, avrebbe comunque mostrato i suoi effetti anche nelle terre degli ultimi Emishi.
Al di fuori di quell’isolato Eden le parole non sono certo rozze, tuttavia il linguaggio perde un poco del suo carattere aulico. Se il senso del film è riscontrabile nella necessità di un dialogo fra forze contrapposte, altrettanto valore va dato alle parole che questo dialogo devono veicolare: questa scelta linguistica apparentemente solo estetica acquista valore proprio in questo contesto, dimostrando che anche solo un lieve imbarbarimento del linguaggio ci priva di parole che possano essere terreno comune. Miyazaki ci insegna così ad avere cura delle parole, un monito importante ancora di più oggi che siamo persi in bolle da cui fatichiamo ad uscire per aprirci all’altro. Prestiamo attenzione a come le usiamo, facciamo in modo che siano uno strumento di apertura e, se non riusciamo ad attingere a quelle ormai perse, creiamone di nuovo che rispecchino quel senso di comunità.
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È passato poco più di un mese da quando Stefano Tarquini è stato gradito ospite di questo blog. In quell’occasione ad ispirarlo erano stati i La Quiete, oggi invece la suggestione musicale si sposta su territori decisamente diversi e, in qualche modo, mainstream. La band che ha fatto da musa a Stefano è stata infatti talmente poliedrica da riuscire ad arrivare al grande pubblico con un programma su Canale 5, pubblicare libri e, ovviamente, fare tanta bella musica: ecco a voi I Camillas.
Molti hanno imparato a conoscerli nel 2015, quando arrivarono in finale a Italia’s Got Talent, ma la storia dei pesaresi Ruben e Zagor Camillas (Vittorio Ondedei e Mirko Bertuccioli) parte molto prima, agli inizi degli anni 2000 per la precisione. Membri della band Aerodynamics, con la quale pubblicheranno il disco Courmayeur proprio all’inizio del nuovo millennio, i due aspetteranno il 2004 per mettersi in proprio e formare ufficialmente I Camillas. Passeranno altri tre anni, fatti di concerti e prove, per arrivare al primo Ep, Everybody in the palco!, pubblicato come il successivo album Le politiche del prato per la propria etichetta I dischi di plastica: già in queste prime prove discografiche il duo dà prova di quell’ironia e allegria contagiosa che sarà la caratteristica fondante del loro successo, prendendo musicalmente ispirazione da un pout-pourri di influenze che va dal beatpop degli anni ’60 alla musica “fintorock”, come spiegano loro stessi sul sito ufficiale. Nel 2013, con una collaborazione fra la loro etichetta e realtà storiche come Garrincha dischi e Wallace Records, esce il secondo disco Costa brava, prodotto da quell’ Enrico Liverani che di lì a poco entrerà a far parte della formazione come batterista con il nome di Michael Camillas. Immersi in un panorama underground che alimentano in prima persona (con la loro etichetta lanciano una delle creature musicali più sghembe e indefinibili degli ultimi anni, Pop X), i Camillas non si negano alle collaborazioni, come quella con gli X-Mary (da cui fuoriesce lo split X-Marillas) o il progetto Un pacchetto di plastica, sorta di “rat-pack” nostrano che li porta a condividere il tour con Calcutta, Gioacchino Turù e Pop X. Nel 2016, oltre a un featuring sul disco dei compagni di costa Duo Bucolico nel brano Barbanera, pubblicano il terzo disco Tennis d’amor, in cui trovano spazio sonorità pop-punk e ritmiche più decise che contraddistingueranno anche l’album successivo, Discoteca rock, uscito nel 2018 per La Famosa Etichetta Trovarobato ed in cui la formazione si allarga ulteriormente, con l’ingresso del bassista Daniel “Theodore Camillas” Gasperini. Nel frattempo I Camillas hanno fatto uscire anche un libro nel 2015 per la casa editrice Il Saggiatore, La rivolta dello zuccherificio, piazzato il loro brano Nananana come sigla del programma Colorado (meglio la canzone del programma) e Il gioco della palla, una delle canzoni che ne hanno decretato il successo a Italia’s Got Talent, viene scelta come sigla d’apertura del programma radiofonico della Gialappa’s Band dedicato ai mondiali, Rai dire nazionale.
Tutta quest’allegria si spegne quando, il 14 aprile 2020, arriva la notizia della morte di Mirko “Zagor” Bertuccioli a causa del Covid-19. Per celebrarne la memoria esce a maggio per la casa editrice People il libro La storia della musica del futuro, terminato a febbraio dello stesso anno, mentre ad agosto, in uno di quei pochi e magici momenti in cui ci sembrava che la musica potesse tornare, amici e fan si sono stretti insieme a Pesaro nel concerto Luccichini dappertutto, commemorandolo nella miglior maniera possibile: suonando. E siccome la musica non si deve fermare occhio ai Supermen, band formata da membri di Camillas e Duo Bucolico di cui Ruben (autore nel frattempo di un libro dedicato alla sua storia musicale con Zagor, I Camillas, che storia) è capo supremo: il 19 marzo è andato in onda un loro concerto in streaming nell’ambito del Suner Festival, aspettiamo fiduciosi il momento in cui su di un palco potremo vederli non solo attraverso uno schermo.
Rovi è la terza traccia del disco Costa Brava, un brano tutto appoggiato sulla chitarra e la voce di Ruben ma in cui le urla fuori campo di Zagor danno quel tocco surreale che rende la canzone così unica. Stefano è riuscito a utilizzare alcuni dettagli del testo per creare una storia che, con pochi elementi, rende il mondo e le esperienze della protagonista Camilla vivide e reali. Potete trovarlo sotto il link al brano, a me non resta che augurarvi al solito buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).
Il bagaglio imperfetto, di Stefano Tarquini
Camilla scrive canzoni da quando era ragazzina e vedeva nella ginocchia sbucciate una divisione, il disegno di un potere non suo.
Passava l’estate in casa dei nonni, un piccolo casolare lasciato a se stesso. Tutto su di un piano, come si faceva un tempo, tanta campagna e tanta noia.
Pregi: amava il modo in cui la luce scandiva le ore, rimbalzando sui bicchieri di vetro. Cercava di raggiungerla, stiracchiandosi come un gatto appena sveglio.
Difetti: non le piaceva l’odore. Nonostante le finestre spalancate e le lenzuola cambiate non se ne andava mai. Aveva imparato a conviverci.
Fantasmi: ci combatteva dalla nascita. Le facce dei defunti nelle cornici, sapeva come erano vissuti, come erano morti. Non c’era ragione per la loro comparsa.
Incubi: uno solo. Lo scuolabus senza conducente che cade in un fosso. Qualche capriola, poi la notte lo inghiotte. Alba. Ambulanze. Genitori. Poi niente.
Compromessi: aiutare la nonna con la marmellata di more. Nonna Lucia era una tipa tosta. Una memoria di ferro, le nocche ancora più dure. Le sue carezze lasciavano solchi sulle guance.
Aveva solo un hobby, il coro della chiesa. Ogni pomeriggio se ne andava in fila con le amiche, tutte vestite di nero, per la sua cantata. La rimetteva in pace con se stessa e con Dio.
Nonno Arturo da piccolo aveva rischiato di diventare prete, i suoi l’avevano parcheggiato in seminario. Ogni tanto sfogliavano le foto di quel periodo, ridendo.
La più simpatica: quella con i colleghi di vocazione, su un campo da calcio, tutti vestiti da preti ma con gli scarpini. La tonaca da novizio gli stava tre volte, tanto era magro.
Poi si era rotto i coglioni di quella vita. Fu assunto dal fornaio del paese, imparò a panificare. Ogni notte sveglia alle tre. In bicicletta fino al paese, pure con la pioggia.
Nonno Arturo non aveva mai perso un giorno di lavoro. Ne andava fiero, ma dopo due bicchieri scherzava sul fatto che sarebbe stato meglio fare il prete. Poca fica, ma bella vita, e vuoi mettere sapere i segreti di tutti?.
Camilla riempiva le sue canzoni di sensazioni. Di quando, toccandosi in mezzo alle gambe la prima volta, aveva provato piacere. Di quando si metteva lo smalto di nascosto pur non potendo uscire.
Lo smalto lo comprava da Luca. Le faceva piccoli favori in cambio di baci sulla guancia, poi col tempo in altre zone. Quegli scambi dovevano rimanere segreti, i nonni non l’avrebbero presa bene. Succhiare il cazzo del cugino la faceva sentire come in Pretty Woman.
L’ultima canzone: voleva ficcarci la cosa più curiosa capitata quell’estate. Non era stato facile convincere nonna Lucia a portarla a raccogliere le more, ma ce l’aveva fatta.
Era caduta, impigliandosi nei rovi, tra risa e preoccupazioni. Dopo un’ora tutti sapevano che Camilla ci mancava poco che se ne andava al creatore, dissanguata in mezzo alle more.
Pregò i nonni di non dire nulla ai suoi. Quel pericolo era forse l’unico che si era concessa dalla nascita. Non le era ancora chiaro, allo specchio, perché dovesse vivere senza gambe.
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Parlando qualche settimana fa del disco dei FLeUR mi soffermavo sulla sensazione di nostalgia per un mondo mai conosciuto, evocata in maniera magistrale dal duo. Approcciandomi a Parallel, secondo album dei PINHDAR (Cecilia Mirandoli alla voce e Max Terenzi alle musiche, coppia già dietro al progetto Nomoredolls e, soprattutto, al fantastico festival estivo A night like this, cui ho avuto la fortuna di partecipare qualche anno orsono), ho provato sensazioni simili, ma il mondo di cui ho fatto esperienza attraverso le note del loro pop sintetico mi è sembrato più tangibile, fissato in un passato idealizzato e che allo stesso tempo ci schiaccia.
La genesi del disco, come immagino sia successo per molta musica concepita durante il 2020, è legata a doppio filo alla pandemia in corso (gli stessi PINHDAR parlano di testi e atmosfere nati per salvarli dalle drammatiche vicende, anche personali, degli ultimi mesi). Prodotto da Howie B e pubblicato dall’etichetta Fruits de Mer Records, il disco riflette nel mixaggio quella sensazione di claustrofobia con cui tutti, pur con un diverso grado di sopportazione, abbiamo dovuto fare i conti, ma allo stesso tempo le musiche risentono di sonorità che operano uno scollamento dalla realtà attuale: il viaggio in cui gli otto brani dell’album ci accompagnano è allora più una fuga, l’impossibile ritorno a un periodo antecedente della nostra vita per lenirci dalle ferite del presente.
Non sarò certo il primo a parlare di retromania e ossessione per futuri mai realizzati (Simon Reynolds e il Mark Fisher di Spettri della mia vita lo hanno fatto certamente meglio di me), quindi non troverò soluzioni originali per spiegare il rapporto che unisce le sonorità vagamente anni 80 di Parallel con le moderne tecniche di registrazione. L’impianto sonoro dell’album è vitale e allo stesso tempo decadente, fissato in un non-luogo quale quello evocato dalla cover, realizzata dalla visual artist Elisabetta Cardella: una casa minimale fissata come una palafitta sul mare, l’unica finestra che si apre su un cielo dal colore irreale, il tutto sfocato in maniera da apparire più vecchio, spettro moderno di un periodo in cui la computer grafica invecchiava alla velocità della luce.
Il dream pop dei PINHDAR non porta verso territori gioiosi pur ricercando la leggerezza, si appoggia sulle nostre orecchie esplorando un presente di sofferenza e temendo un futuro di cui ci mancano le coordinate: musica in movimento eppure frenata, con le ritmiche soffocate sotto le orchestrazioni elettroniche e le rare distorsioni chitarristiche tenute al guinzaglio, private della libertà di esprimere la loro furia catartica tanto nei ritornelli di Too late (a big wave) quanto nell’assolo lancinante di Atoms and dust, dove Mirandoli esprime in un solo verso l’immobilità che, paradossalmente, l’intero disco veicola, “we walk towards the future in this uncertain time without a present”. Proprio la voce cerca di portare vita e movimento laddove le sonorità riflettono questa entropia incombente, perdendosi in lunghi e melodiosi vocalizzi alternati a sussurri conturbanti, risollevandoci anche mentre espone la propria incompiutezza emotiva (Glass soul) o mentre ci parla di orologi bloccati e giorni che scorrono senza lasciarsi vivere: è una sconfitta quella che i PINHDAR mettono in musica, contro i fantasmi di un passato che non ci lascia sperare in un futuro migliore, certificata dalla conclusiva The hour of now che si chiude su uno strumentale vagamente oscuro a cui Mirandoli dà il via con le sue ultime parole, “please let me sleep until the end”.
Parallel è un album che riflette sul presente in maniera intima, restituendoci allo stesso tempo l’immagine di una società che già da prima della pandemia non sapeva trovare vie di sfogo. Possiamo perderci nelle sue melodie delicate, passando da un brano all’altro mentre la voce ci culla in una falsa sicurezza, ma l’inquietudine sintetica che gli arrangiamenti ci tessono intorno finirà per diventare una gabbia. Manca la reazione in questi otto brani, la forza dirompente che cerca di trovare una via d’uscita e, per quanto sia piacevole avvolgerci in questa malinconica coperta sonora, usciremo dall’ascolto con la sensazione di non esserci mossi di un passo, per quanto il viaggio possa essere stato singolarmente piacevole.
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Ho perso il conto delle volte in cui ho detto “quando ho iniziato non pensavo che…” ma davvero, sono successe un sacco di cose che non mi aspettavo da febbraio 2020 (e no, non intendo la pandemia). Il fatto che ci sia sempre più gente che voglia collaborare con un proprio testo mi fa immensamente piacere, anche se sinceramente ci speravo fin dall’inizio (sì, il fatto che ci sia un sacco di spazio per i miei racconti in musica è dovuto alla mancanza di contributi iniziale, ma perlomeno ho potuto dare spazio a molti artist* che amo), ma ancora di più mi stupisce che il blog sia riuscito a raggiungere persone al di fuori dell’Italia. Già era capitato con Mattia Grigolo, tedesco d’adozione, ora scopro che persino dal Cile qualcuno conosce Tremila Battute e ci ha tenuto a contribuire con un racconto. Accolgo quindi con entusiasmo Andrea Bruccoleri, che ringrazio anche per avermi fatto conoscere una nuova band, i McKenzie.
Nato a Erice in provincia di Trapani nel 1984, Andrea si è spostato sempre più in là dall’isola in cui è nato. Dopo gli studi in Lettere a Bologna ha volto lo sguardo verso l’Europa, specializzandosi in didattica del francese a Liegi. Dal 2014 casa sua è diventata il Sudamerica, il Cile nello specifico, dove nonostante un rapporto conflittuale con le vocali nasali insegna francese e coordina la rete nazionale delle Alliance Française cilene. Tutto questo girovagare si unisce nelle passioni, dalla rosticceria della natia Sicilia alle birre belghe, oltre a un comprensibile debole per la linguistica. Anche l’ormai non più nuova vita in Sudamerica ha contribuito ad alimentare una sua passione, quella per la scrittura, sfociata in un racconto apparso su Malgrado le mosche che è la testimonianza in prima persona delle proteste cilene iniziate a ottobre 2019: un tema, quello sociale, che si riverbera anche nel racconto che mi ha donato.
Dall’altra parte dello stretto rispetto alla natia Sicilia di Andrea si trovano invece i McKenzie, band calabrese formatasi nel 2015 e già l’anno successivo arrivata alla prima pubblicazione, un Ep di cinque pezzi che già tracciano la via del loro suono: ruvido e dalle ritmiche nervose, intriso di sonorità anni 90 ma personale negli arrangiamenti e nei testi. Registrato in casa con lo studio mobile di Vladimir “Kayadub” Costabile, il primo lavoro del trio esce per LaLumacaRecords ma già attrae l’attenzione dell’etichetta Black Candy, che pubblicherà il primo disco Falena dopo varie vicissitudini (registrato nel 2016, vedrà la luce solo nel 2018). Prodotto ancora da Costabile e masterizzato da un guru della musica indipendente “rumorosa” come Giulio “Ragno” Favero, l’album contiene dieci tracce che spaziano fra il post-hardcore e momenti più malinconici e comprende anche una cover, È aria, interpretata col suo autore Umberto Palazzo. L’attività live, che già prima dell’uscita li aveva portati a calcare palchi come quello dell’Arezzo Wave Love Festival, si intensifica ancora di più: Bad Religion, Corrosion of Conformity, A Perfect Circle e MC5 sono alcune delle band per cui i McKenzie aprono i concerti (Kim Tahyil dei Soundgarden, in concerto con gli MC5 in quel periodo, impazzì per l’artwork del loro disco, curato come per l’Ep precedente dall’amico Pasquale De Sensi), girando in lungo e in largo per lo stivale. Pronti nel 2020 a registrare un nuovo disco, fanno i conti come noi tutti con la pandemia che ne ferma i lavori: non ci resta che attendere, loro nel frattempo non sono rimasti fermi e hanno da poco registrato un live in studio, utilizzato anche per fare promozione ad una raccolta fondi per Emergency.
Mia è la quinta traccia del primo disco dei McKenzie e nelle parole della canzone, così come nell’andamento della musica, io e Andrea abbiamo trovato agganci involontari con il suo testo. Quel “La via più semplice/ restare immobile” con cui si apre il brano rimanda al protagonista del racconto, immobile mentre viene spogliato e rivestito da mani che non hanno intenzione di soccorrerlo, nonostante le ferite. Falso positivo è un lavoro di fantasia basato su una vicenda tremendamente reale, lo Scandalo dei falsi positivi, che ha coinvolto l’esercito colombiano durante tutto il periodo della lotta armata contro diverse organizzazioni di liberazione nazionale (FARC e ELN su tutte): dopo l’esplosione del caso nel 2018 a seguito dell’uccisione di 19 giovani del sud del paese ritrovati poi nel nord-est con indosso divise da guerriglieri, l’inchiesta che ne scaturì rivelò che i militari uccidevano sistematicamente civili innocenti (il computo delle vittime oscilla tra le 1257 e le 2248) dopo averli attirati con offerte di lavoro, solo per travestirli da terroristi e intascare così gli incentivi donati a chi otteneva risultati concreti nella lotta al terrorismo. Andrea riesce in pochissime battute a restituire una simile vicenda e lo spaccato sociale in cui si svolge attraverso l’esperienza del singolo, una storia che potrete leggere subito dopo il link alla canzone: buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).
Falso positivo, di Andrea Bruccoleri
Carlos riemerge. Un fischio acuto gli rimbomba nelle orecchie impedendogli di distinguere tra i rumori circostanti. Un ronzio persistente che sovrasta il calpestio di passi affrettati, il gracchiare di ordini impartiti attraverso l’intermittenza di frequenze radio.
Anche se il sangue non gli annebbiasse la vista, non metterebbe a fuoco a un palmo dal suo naso. Si sente stremato, oppresso da un peso di cui non riesce a delineare i contorni. I muscoli non rispondono ai comandi.
Due mani possenti lo afferrano, cavandolo fuori da quel groviglio disarticolato. Mani callose. Mani che bruscamente gli sfilano le scarpe, i pantaloni. Mani premurose che lo rivestono in fretta con altri indumenti che puzzano di umido.
Carlos si era giurato che non avrebbe fatto la fine del padre. Non ne valeva la pena di rompersi la schiena per difendere un pezzo di terra dalla brutalità della foresta. Una lotta votata alla sconfitta che lasciava sciancati e con addosso il fetore di bestia.
A lui piacevano le città, i bar pieni di fumo, i locali dove con l’alba aspettava il primo autobus per rientrare a casa, bevendo vino mischiato a Coca-Cola, spiando di sottecchi le ragazze che si dimenavano al ritmo della cumbia.
Per un tempo si era trasferito a Barranquilla. Era stato ambulante, imbianchino, carrozziere. Poi suo padre aveva sofferto un malore e lui era dovuto tornare al paese.
Carlos ricorda. Non c’era nessun lavoro. Ha un buco in testa. Credono sia morto e lo tirano per le gambe sul camion. Sfiora gambe inermi, stecchite. Gambe attorcigliate in posizioni innaturali.
Fiuta l’odore del sangue. Ascolta gli sberleffi, sente il ronzio degli insetti sulle piaghe dei cadaveri. Il sole gli picchia sul cranio, il motore del camion gli pulsa nelle tempie.
Non sa più se vede o immagina villaggi con baracche di lamiere, copertoni bruciati, panni messi a stendere su reti metalliche arrugginite. L’asfalto sconnesso cede il passo alla ghiaia, al fango. Il motore si spegne.
Non trovò niente a parte l’afa e le zanzare. Il campo del padre era stato bruciato in uno di quei raid che servono a giustificare i lauti fondi elargiti per la lotta al narcotraffico.
Sfaccendato, attendeva su una panchina della piazza che venisse il fresco della sera o che qualcuno gli offrisse un sorso dal cartone di vino. Un giorno arrivò un battaglione dell’esercito: bisognava costruire degli avamposti sulla Cordigliera, vicino al confine.
Reclutavano muratori, elettricisti, braccia forti in cerca di una buona paga. Si mise in fila, salì sul camion. Non avrebbe fatto la fine di suo padre. Al quartier generale gli avrebbero dato maggiori informazioni sull’offerta di lavoro.
Carlos riflette. Si finge cadavere nel fondo della fossa. Ha una frattura scomposta e il naso gli poggia sul braccio, a contatto con lo stemma cucito sull’uniforme infilatagli di forza. Riconosce l’emblema delle FARC.
La luce che filtra dall’alto della buca si oscura: una pioggia di sassi e di palate di terra. Sprofonda.
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Ho avuto la fortuna a gennaio di poter assistere di persona alla presentazione di un libro, in quel della Cascina Torchiera di Milano (NEL PIENO RISPETTO DELLE NORME DI DISTANZIAMENTO SOCIALE, mica che qualcuno pensi che facciamo rave letterari), ovvero Gli obsoleti di Jacopo Franchi, pubblicato come il suo precedente Solitudini connesse da Agenzia X Edizioni. Se nel primo libro Franchi aveva esplorato la dipendenza dai social media, cercando di spiegarla più che di demonizzarla, in questo caso fa un salto dietro le quinte e, con una minuziosa opera di ricerca, ci porta a esplorare un mondo che le multinazionali del web cercano il più possibile di nasconderci: quello dei moderatori di contenuti, il filtro umano che sta fra l’algoritmo e noi, pagato per visionare il peggio di internet prima che possa raggiungere i nostri schermi.
La grande abilità dell’autore è quella di illustrarci la quotidianità di un moderatore facendoci mettere nei suoi panni, rivolgendosi al lettore come se fossimo noi ad essere assunti da Facebook, YouTube o uno degli altri social che paga questo esercito invisibile perché faccia il lavoro sporco senza parlarne con nessuno. Attraverso tre macroaree (I requisiti, I benefit e Le attività), a loro volta suddivise in vari capitoli, passiamo quindi dall’assunzione al licenziamento attraverso i compiti svolti, le dinamiche interne agli uffici, le libertà concesse da un lavoro di questo tipo e i contraccolpi devastanti che finiscono per far mollare tutti, prima o poi, magari con un bel disturbo da stress post traumatico come buonuscita. In linea con la sua scelta ho deciso di parlare di questo libro cercando non di calarmi in quella realtà, cosa che (per fortuna) non posso fare, ma cercare di spiegarla facendo vedere quanto è labile il confine fra noi e quelle persone che ogni giorno rendono sicure le nostre navigazioni e, allo stesso tempo, si fanno carico di una delle più enormi operazioni di censura della storia.
L’autore, Jacopo Franchi
Come divento moderatore di contenuti?
Da quasi vent’anni lavoro nello stesso posto, un’azienda metalmeccanica che si occupa di bottoni. Il settore di questi tempi non è il più florido possibile (fra i nostri clienti principali ci sono firme dell’alta moda), di recente mi sono trasferito a quasi un’ora di distanza dal posto di lavoro e, va da sé, la possibilità di trovare un lavoro più vicino a casa è la benvenuta. Saprete anche voi dell’esistenza di numerose app per la ricerca di lavoro, magari come me avrete esplorato parecchie offerte in cui non si capiva esattamente quale fosse il lavoro che avreste dovuto fare: Community Operations Team Members, Social Media Analyst, Legal Removals Associate e Process Executive sono solo alcune delle sigle che stanno fra di voi e il vostro ingresso nel mondo della moderazione di contenuti.
Per quanto possiate entrarci per caso, senza sapere esattamente quale compito dovrete svolgere (il velocissimo iter di selezione non vi sarà molto d’aiuto), vi basterà un giorno per capire in cosa siete stati coinvolti. Stipati in uffici poco illuminati, nascosti al resto dei dipendenti e impossibilitati da uno stretto accordo di riservatezza a parlare con chiunque del vostro lavoro (nessuna possibilità di vantarsi di lavorare per Zuckerberg quindi), dopo una mattinata passata a studiare la policy a cui dovrete adeguarvi verrete messi davanti a uno schermo, con al fianco un supervisore, per decidere nel più breve tempo possibile di cosa può rimanere traccia sui social.
Quello che probabilmente avete già compreso, giunti al termine di questa prima, sfibrante giornata di lavoro, è che dovrete lottare costantemente contro un’entità impersonale in grado di rendere virale sia un’edificante storia di coraggio compiuta da un anonimo eroe, sia un video di abusi sessuali senza alcuna possibilità di arresto preventivo.
Jacopo Franchi, Gli obsoleti
Filmati pedopornografici, abusi sugli animali, esecuzioni compiute da organizzazioni terroristiche e testimonianze dirette provenienti da teatri di guerra: forse sarete fortunati e non le vedrete in quel primo pomeriggio, ma prima o poi vi capiteranno davanti agli occhi. Edulcorate da un software che scompone i video in immagini, così da darvi il quadro d’insieme nel più breve tempo possibile, pagherete il “privilegio” di non dover visionare per intero tutte queste atrocità con la mancanza di tempo per approfondire: avrete pochi secondi per decidere cosa può restare online e cosa no, la coda dei contenuti da moderare è infinita e a voi non è concesso il tempo di elaborare o di avere una qualsiasi reazione emotiva. Vi verrà da piangere, da vomitare, anche semplicemente da distogliere lo sguardo: fatelo, e sarete un po’ più vicini al vostro licenziamento.
La catena di montaggio della moderazione
Il lavoro che faccio non è esattamente quello che sognavo (se ho aperto un blog in cui parlo di libri, dischi e film va da sé che i miei interessi principali siano diversi dal conoscere vita, morte e miracoli delle presse meccaniche), ma rispetto alla mia precedente esperienza è come trovarsi in paradiso. Per quanto sia passata più di metà dalla mia vita da allora ricordo ancora i due anni passati a produrre liquido antigelo e olio motore, in un capannone senza riscaldamento (i portoni rimanevano sempre aperti) da cui d’inverno uscivo con le dita gelate, tanto che in pausa pranzo mi mettevo a fare esercizi con la chitarra senza il mignolo, che faticavo ad avvicinare alle altre dita. Uniamo a questa situazione da piccola fiammiferaia la presenza di due datori di lavoro, padre e figlio, ben poco rispettosi dei dipendenti: ci spegnevano le luci del capannone quando pensavano che si vedesse abbastanza per farne a meno (il che non significa che fosse così), ci costringevano a far andare a velocità massima i macchinari anche se poi funzionavano male (ma non dovevamo comunque fermarli, se no sarebbero venuti a lamentarsi che perdevamo tempo) e, una volta che ero sporco di grasso fino ai gomiti dopo aver aggiustato un macchinario per l’imballaggio, vennero a controllare cosa stessi facendo in bagno.
Non era una bella situazione, anche se per fortuna non tutti i giorni erano così (e per fortuna esistono altre stagioni oltre all’inverno, anche se ovviamente d’estate lì dentro faceva caldo nonostante i portoni aperti). Se deciderete di fare i moderatori di contenuti, invece, i vostri giorni saranno tutti così.
I moderatori devono segnalare quando vanno alla toilette e, all’occorrenza, devono spiegare le ragioni per cui ci hanno messo troppo.
David Gilbert, Facebook is forcing its moderators to log every second of their days
Non avrete a che fare con macchinari in cui caricare flaconi a ritmo sostenuto, ma con contenuti che vanno analizzati nel minor tempo possibile e con la minima percentuale di errore possibile. Non avrete a che fare con capi stronzi che vi vesseranno, anzi potrete anche insultare i vostri supervisori se vi va: non sono loro i vostri veri capi, ma l’algoritmo che vi manda incessantemente contenuti sullo schermo e che, in casi estremi ma non così rari, potrà monitorarvi direttamente mentre siete in bagno a “perdere tempo”, sempre che non ve la siate già fatta addosso mentre pregate che la prossima pausa programmata arrivi.
Se al primo giorno di lavoro avete visto l’orrore dell’eccezionalità, qualcosa che a poche persone è dato di vedere (ma sempre di più: si calcola siano oltre centomila i moderatori di contenuti attivi in tutto il mondo, secondo le stime più pessimistiche), ora vi tocca fare i conti con l’orrore della normalità. Le vostre giornate di lavoro scorreranno con persone quasi sempre diverse, suddivise in turni che cambiano di continuo, tanto che non potrete mai essere sicuri che quel tipo simpatico con cui avete scambiato due parole il terzo giorno sia ancora dei vostri; le passerete stipati in cubicoli nascosti, in una perenne penombra, senza il tempo di alzare la testa visto che potrete arrivare a moderare anche duemila video al giorno (stima di Sarah T. Roberts, autrice del libro Behind the screen: content moderations in the shadows of social media, un testo varie volte citato nelle pagine di Franchi); le passerete oppressi da un sistema automatizzato, privo di empatia, che vi farà lavorare a ritmo sostenuto non per antipatia o per sete di guadagno, ma semplicemente perché è stato programmato così.
Cosa vi spinge a rimanere ancora lì? Franchi se lo chiede, e le risposte sono molteplici. Forse siete persone che non hanno avuto accesso a contratti a tempo indeterminato (io, da piccola fiammiferaia nel capannone gelato, avevo comunque questo vantaggio che sembra sempre più un privilegio), impossibilitati a crearsi una situazione economica stabile, e quindi di quel lavoro avete bisogno per far quadrare i conti; forse arrivate da una situazione lavorativa in cui le ore di lavoro erano maggiori, in cui eravate costretti a identificarvi col vostro ruolo e ad indossare una divisa prestabilita, e pensate che il tempo libero riacquisito e la possibilità di vestirvi come vi pare valgano lo sforzo; forse vi sentite in qualche modo dei supereroi, perché il lavoro che fate aiuta il mondo a non essere invaso dall’orrore che voi fermate preventivamente. Pensate a quest’ultima possibilità: quella sensazione di stare facendo qualcosa di buono, di giusto, novelli Clark Kent che indossano la tuta di Superman ogni volta che entrano nel proprio cubicolo, durerà fino al momento in cui vi accorgerete che non è una giustizia superiore a decidere cosa gli utenti possono vedere e cosa no, ma una politica di policy che cambia continuamente e che decide al posto vostro quali crimini di guerra possono arrivare all’attenzione pubblica…salvo poi cancellarli in un secondo momento, come pare stia facendo YouTube.
Nessuno è venuto a richiamarvi in bagno quel giorno della scorsa settimana, per offrivi il suo supporto o per ordinarvi di tornare il prima possibile alla vostra postazione. Nessuno sapeva che l’ultimo contenuto che avete eliminato dalla piattaforma era il video di una donna immobilizzata da due uomini, mentre un altro le staccava la testa dal resto del corpo con una sega da falegname. Avete avuto tutto il tempo a disposizione per vomitare, fare dei lunghi respiri profondi e tornare davanti al computer per passare al contenuto successivo. Una notifica vi ha ricordato che quella “pausa toilette” non programmata sarebbe stata l’ultima prima di una istantanea decurtazione dello stipendio. Sapete già, per regolamento interno, che dopo otto notifiche sarete automaticamente disconnessi dalla piattaforma e rispediti a casa; senza rimproveri, ma senza ulteriori avvertimenti.
Jacopo Franchi, Gli obsoleti
Che vogliate o meno tenervi stretto questo lavoro arriverà il momento in cui cederete. L’algoritmo non si stanca, voi sì; l’algoritmo non si stressa, voi sì; l’algoritmo non avrà ripercussioni psicologiche a causa di ciò che passa sullo schermo, voi sì. L’unica cosa che vi accomuna è la difficoltà di imparare dai continui cambiamenti: per voi è la policy che muta di continuo lo scoglio finale, l’impossibilità di dimenticare quanto fatto il giorno prima che vi porterà a fare troppi errori in un periodo troppo breve, per l’algoritmo è l’ignoranza empatica che lo porta a far diventare virale anche ciò che non dovrebbe passare dalle sue maglie. Ogni giorno che un moderatore passa dietro allo schermo l’algoritmo impara qualcosa di più, ma siamo ancora lontani dall’intelligenza artificiale omnicomprensiva che i social media sbandierano agli azionisti, anzi non c’è stato periodo storico con una maggiore necessità di intervento umano di supporto alla macchina. Ora però voi dovete lasciare il passo a qualcun altro, senza che nessuno noti la vostra assenza.
La vita fuori dall’algoritmo (ma esiste davvero un fuori?)
Sono i clienti, che abusano del proprio diritto di segnalare, quelli che costringono la macchina ad accelerarvi e rallentarvi senza tregua per inseguire il loro umore del momento, la loro insoddisfazione perenne o incapacità di gestire altrimenti l’imprevisto e il turbante.
Jacopo Franchi, Gli obsoleti
Vi è mai capitato di segnalare qualcosa all’interno di un social media? A me no, ma mi è capitato di essere oggetto di moderazione. Niente di che, semplicemente l’algoritmo di Facebook (o un utente al suo interno) ha trovato offensiva la copertina di Surfer rosadei Pixies, con una ballerina a seno nudo intenta a disturbare le pudiche menti dell’utente medio della piattaforma. Ovviamente mi sono lamentato, ma quel contenuto è stato comunque eliminato: rimesso online solo qualche minuto dopo, non è mai stato segnalato ed è ancora lì, da qualche parte nel mio passato digitale.
La pietra dello scandalo
E se qualcuno fosse stato licenziato per questo?
La domanda me la sono posta in vari momenti durante la lettura, perché al di là dei pochi passi che possono distanziare me dal finire in quel tritacarne, se mai dovessi aver bisogno di lavoro, o dall’aver provato in maniera minuscola le restrizioni a cui sono sottoposti, la verità è che col mondo dei moderatori siamo costantemente in contatto. Il loro lavoro è addirittura fratricida, perché basta accettare un contenuto che un altro operatore ha eliminato, forse l’ultimo di una lunga catena di errori, per causare il suo licenziamento. Che questa sia una liberazione o un dramma è tutto da vedere, probabilmente sarà entrambe le cose: basta con la visione di ciò che di peggio l’essere umano può compiere, basta segreti in casa su quello che realmente fate durante l’orario di lavoro, basta con la pressione continua a cui siete stati sottoposti. Ma non è detto che sia veramente finita.
Mi sono reso conto di aver bisogno di una terapia quando mi hanno mostrato l’immagine di un’attività apparentemente innocua e mi hanno chiesto di dire ad alta voce la prima cosa che mi veniva in mente. “Oddio che schifo”, ho pensato. Ma era solo la foto di un padre e di un figlio
Reyhan Harmenci, Tech confessional: the gooogler who looked at the worst of the internet
I moderatori di contenuti non escono da quell’esperienza lavorativa uguali a prima. Potrebbero non voler più fare sesso dopo aver visionato immagini pornografiche per ore tutti i giorni, avranno deciso di non fare figli dopo aver visto ciò che sono capaci di fare gli uomini ai bambini o perché, semplicemente, non vogliono farli nascere in un mondo dove c’è gente capace di compiere azioni tanto riprovevoli (e di condividerle su internet, oltretutto). Tenere in mano un coltello potrà essere un’esperienza inquietante, vedere un film di guerra diventerà impossibile, figuriamoci un horror. Per tutto il tempo in cui sono stati assunti il supporto psicologico è stato deficitario, a fronte di numerosi casi di disturbo da stress post-traumatico rilevati fra coloro, ancora pochi, che hanno deciso di parlare. Qualcosa sta cambiando, ma non illudiamoci che le piattaforme ricopriranno di denaro coloro che, al momento, pagano poco più del minimo sindacale per qualcosa che minerà la loro psiche per tutta la vita.
C’è molto di più fra le pagine de Gli obsoleti, qualcosa che è impossibile riassumere nelle poche righe di un articolo. Jacopo Franchi ha fatto un lavoro incredibile di ricerca, avvalendosi anche del lavoro di chi prima di lui ha esplorato un settore in cui, a causa degli strettissimi vincoli di riservatezza, si fatica ancora a conoscere tutto ciò che succede a chi ne fa parte. Leggerlo è un’esperienza immersiva in ciò che succede dietro le quinte del nostro social network preferito, aiuta a capire quale livelli di censura sono in corso (molto interessante il discorso sulla sessualità e sul lutto, al di là dell’ovvio problema dei contenuti da zone di guerra) e cosa possiamo fare anche noi da semplici utenti, magari abituati a segnalare il primo contenuto scomodo di chi non la pensa come noi.
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Per ogni vero appassionato di musica esiste un aneddoto sul primo concerto, possibilmente di qualche grande artista visto grazie a un parente prossimo che, in questo modo, ne ha influenzato i gusti. Un mio amico, ad esempio, a undici anni si è visto Pink Floyd ed Elio e le Storie Tese nello stesso concerto grazie al fratello. Io invece ho aspettato i diciotto anni per vedermi i Punkreas al Castello di Vigevano, e già mi sentivo un miracolato: fra i miei amici di allora non è che la musica fosse tenuta in gran conto, a parte quella da discoteca più becera che si poteva ascoltare, tanto che uno col rock arrivava al massimo ad accettare Bryan Adams e considerava i Litfiba già metal estremo. Poco tempo dopo il mio “battesimo del fuoco” della musica provai comunque a portare parte della mia compagnia a un concerto, sempre nel pavese, in un piccolo pub che non dirà un cazzo a nessuno per cui è inutile nominarlo (anche perché non me lo ricordo, ma era nella frazione di Bozzole): suonava una band che avevo ascoltato mille volte sulla mitica Radio Lupo Solitario del varesotto (fra notevoli difficoltà visto che la ricezione non era il massimo, giuro che una volta ho avuto difficoltà a prendere la frequenza anche nel parcheggio a pochi metri dalla sede), io ero gasatissimo ma i miei amici dimostrarono meno entusiasmo. Molto meno. Ce ne andammo prima della fine (non eravamo neanche con la mia macchina), e in quel momento passando di fianco al palco (che probabilmente era una porzione libera di pavimento) decisi che la prossima volta piuttosto ci sarei andato da solo, ma non avrei mai più abbandonato un concerto prima della fine. Così feci, e oggi posso fregiarmi di aver recuperato notevolmente quel primo concerto dei P.A.Y. abortito sul nascere, dato che li ho visti qualcosa come sessantotto volte (o giù di lì): questo è un pezzo sulla mia band preferita di tutti i tempi, per cui non aspettatevi dell’imparzialità.
Usciti da quel calderone punk del varesotto che ha fatto la storia fra la fine degli anni ’90 e i primo anni 2000 (e non avete idea di quanto fosse ampio il calderone se non eravate di quelle parti, che a me ai tempi sembravano lontane anche se ero nel novarese), i P.A.Y. (acronimo che negli anni ha significato le cose più disparate, da Post Atomic Youth a Provate aMMore Ynutile a Poveri Artisti Yncompresi) lottano e resistono con noi da più di venticinque anni nel nome dell’aMMore, del rock’n’roll e dell’autoproduzione. Parlare della loro discografia in termini di numeri è riduttivo per una band che al terzo album aveva già inciso un The best (anzi, The very best of the rarities of the origins of the band), che ha pubblicato un “music horror metraggio” ispirato al racconto L’epidemia di Alberto Moravia (Virus) e una rock opera con tanto di Roberto “Freak” Antoni nei panni del dittatore (Federico Tre e il Destino Infausto). Per dire cosa sono i P.A.Y., e cosa sono per me, servirebbe parlare per ore di mille invenzioni tirate fuori dalla testa di Ariele “Mr. Grankio”, leader della band dalla sua formazione e inventore del Barattolo dell’aMMore, mezzo di sostentamento per l’autoproduzione e veicolo di propaganda per “cercare l’ynutile che è in te, prima che sia troppo tardi”, al cui fianco dal primo disco ufficiale Potevate Anche Ynvitarci c’è il basso di Mr. Pinguino (idolo della folla a cui riserviamo sempre dei cori). Negli anni si sono avvicendati altri componenti, soprattutto alla batteria (vale la pena ricordare Post Atomic Teo, ovvero l’unico e insostituibile Mr. Tortuga, e Fleiv Bergamasco, detto semplicemente Il batterista, che ha avuto l’onore di un Barattolo dell’aMMore dedicato), tra cui il frontman e indiscusso uomo immagine dell’aMMore Mr. Vulvino, idolo delle masse nelle sue tutine di latex o in mutande di pelo rosa con la sua faccia stampata davanti (dopo uno striptease partito con addosso una maglietta degli East 17) e gli Operai del rock’n’roll che raccolsero la sua eredità, insegnando tramite cartelli al pubblico come ci si comporta ad un concerto rock e animando, nei panni del ribelle e del federiciano, i tour di Federico Tre e il Destino Infausto…I tour, perché i P.A.Y. lo riportarono in scena al decennale, non una di quelle mere operazioni nostalgia che vanno tanto di moda ma uno spettacolo in costume con cui commemorare anche l’amico Freak Antoni, per sempre nei nostri cuori.
Un operaio del rock’n’roll, vestito da federiciano, dona confetti al pubblico mentre io dietro sembro strafatto
Da quel caos che ho scritto sopra non so quanto avrete capito della band, se non che dal vivo sono quanto di più coinvolgente e folle io abbia mai visto in vita mia: palloncini lanciati fra il pubblico, stage diving (hanno anche organizzato dueconcerti a tema, da uno dei quali sono uscito con un orecchio scassato perché prima delle riprese sono finito contro i piatti della batteria facendo un circle pit), partecipazione attiva del pubblico, un barattolo dell’aMMore gigante a ballare sul palco, autoscatti e chi più ne ha più ne metta. Elio e le storie tese che incontrano i C.C.C.P. (non a caso fra gli ospiti illustri nei loro dischi ci sono stati Rocco Tanica e l’Artista del popolo Danilo Fatur, indimenticabile voce lasciva su Autoscatto dell’aMMore), ma con una personalità definita e una filosofia che mi ha influenzato nella vita, seguendo i dettami stampati sul mitico Barattolo e trovando verità profonde nei testi, che sotto la patina cazzara da punk band che mira a divertire mostrano una notevole profondità. I P.A.Y. sono mille ricordi, da quella volta in cui ho indossato il costume da Barattolo sul palco a quella volta che ci ho suonato un paio di pezzi (due giorni dopo sarei partito per una vacanza a nuoto da cui non sapevano se sarei tornato, probabilmente era il modo per salutarmi definitivamente), quando ho suggerito i testi ad Ariele e quando, trovandomi a cantare sotto le transenne assieme a un altro, ci siamo divisi una bottiglia di vino in quanto uniti dalla stessa passione (e ricordo di quella sera anche la band di supporto, i 127 sport, che davvero io vorrei riuscire a sapere che fine hanno fatto), quando li ho visti suonare alle due di notte al centro sociale di Novara dopo una serie di band una più folle dell’altra e quando, pentendomene a vita, sono andato a vedere gli Offspring mentre loro suonavano al Circolone di Legnano. Uno degli ultimi concerti pre-pandemia che ho visto era il loro, di supporto al tour del quarantennale degli U.K. Subs al Circolo Svolta di Rozzano, durante il quale hanno presentato l’ultimo parto creativo che, come spesso gli è capitato, era in anticipo sui tempi: Va proprio tutto bene, un monito che da lì in avanti avremmo sentito ripeterci in mille versioni diverse e futuribili, e sempre in anticipo sui tempi realizzarono anche un video che già preconizzava i concerti come siamo stati costretti a vederli finora, senza pubblico. Una mossa del genere potevano azzeccarla solo quelli che sono riusciti ad apparire tanto su un libro commemorativo di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band che sul giornale di Selen, un gruppo senza tempo che sarà lì ad aspettarci, divertirci e farci pensare anche dopo questo periodo in cui il pogo e la condivisione di un live sembrano miraggi lontani.
Josh Homme e Nick Oliveri, quando ancora il barattolo dell’aMMore li teneva insieme nei QOTSA
Avevo solo l’imbarazzo della scelta fra i brani dei P.A.Y., canzoni a cui sono affezionato per i più disparati motivi. Alla fine ho scelto uno dei brani più recenti, La sindrome dell’arto fantasma (dal disco Canzoni per gente che non si fa più), che è già una storia di per sé, quella di un innamorato che cerca di farsi togliere l’amata dalla testa per potersi di nuovo ascoltare in santa pace tutte le canzoni che gliela ricordano: io ci ho aggiunto solo un killer sui generis e il suo punto di vista sulla questione, tutto qua. Potete leggere il racconto subito dopo il link alla canzone, e se volete farmi un favore a pandemia finita venite a un loro concerto, fidatevi di me: fino ad allora, come al solito, buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).
Senza testa in giro mica ci si può andare
Mi capita di rado di rifiutare un lavoro, ma come diceva chi mi ha insegnato il mestiere “se non puoi farne una questione di morale, almeno appellati alla deontologia professionale”. Così gliel’ho detto, a ‘sto ragazzo che sembrava c’avesse il demonio in corpo, che io mica potevo farlo quello che mi chiedeva.
Non è neanche perché era passato dalla polizia prima di venire da me, sarebbe stato un collegamento scomodo ma di certo lo avevano preso per pazzo pure loro. Il problema vero è che mi chiedeva di sparargli nel cranio, ma non di ucciderlo: Voglio solo che me la togli dalla testa, mi ha detto, e io sarò pure bravo quando si tratta di togliere di mezzo qualcuno ma mica potevo assicurargli cosa si sarebbe ricordato e cosa no dopo avergli piazzato un proiettile nel cervello. Gliel’ho detto chiaro e tondo, posso far fuori lei o posso far fuori te, ma la prima ipotesi l’ha spaventato e la seconda non ha manco ascoltato quando gliel’ho proposta. Se non altro è un buon segno, almeno per lui: si vede che non è proprio così disperato.
Tutto ‘sto casino per cosa, poi? Potersi riascoltare le canzoni che le aveva dedicato senza starci male, ecco quello che voleva, o almeno è quello che mi ha detto. Non mi sono messo a ridere perché sono un professionista, ma gliel’ho fatta capire: Scordatele, gli ho detto, un giorno ti scorderai anche di lei e ti innamorerai di nuovo ma quelle canzoni non ci riuscirai mica a dedicarle a un’altra. Chissà che risate si sarebbe fatto chi mi ha insegnato il mestiere, a sentirmi parlare d’amore.
Alla fine se n’è andato, ci ho perso un guadagno ma almeno la faccia l’ho salvata. Ho una reputazione da difendere, non ci tengo a rovinarmi la piazza rischiando che si sparga la voce che vendo le mie competenze al primo matto che passa. Però mi è dispiaciuto non potergli dare una mano, era tutto mogio e abbacchiato. Mi ha ricordato il mio fratellino, che non vedo da anni, chissà se è ancora lo stesso ingenuo di una volta o se si è fatto un po’ più furbo.
La vita ti indurisce, e non c’è canzone d’amore che ti possa aiutare ad affrontarla meglio. Possiamo sperare che vada tutto bene, ma tanto arriva sempre qualcuno che fa la guerra perché si è rotto i coglioni della pace, ed è solo lì che ci accorgiamo di quanto era bello il mondo prima che qualcuno lo rovinasse per potere o per noia. Bisogna farci il callo a ‘ste cose, imparare a gestire il dolore e i brutti ricordi anche se poi hai lo stesso l’impressione che ti manchi qualcosa, come succede a quelli che dicono di sentirsi la mano o la gamba anche se gliele hanno amputate.
Ma almeno loro tirano a campare, a quel ragazzetto in giro senza testa mica ce lo potevo mandare.
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Il secondo album è sempre il più difficile, cantava Caparezza qualche anno fa citando un famoso adagio, e pure il secondo Ep può esserlo. Vale a qualsiasi livello, mica solo per quelli famosi: con la mia band ricordo che, dopo un album realizzato con poca lungimiranza e caratterizzato dall’avere canzoni che suonavano tutte diverse l’una dall’altra, ci buttammo a registrare quattro nuove tracce in uno studio più professionale (grazie Apeiron!) con la speranza di fare meglio. Avevamo i pezzi, un’idea abbastanza delineata di come avrebbero dovuto suonare e un modo abbastanza vago di definirci musicalmente (ancora oggi, quando mi chiedono cosa facciamo, dico “siamo tipo i Verdena”, come se i Verdena avessero fatto tutti pezzi uguali…quanto era facile quando ci si poteva definire Alternative rock, il modo perfetto per dire tutto senza dire niente!), cosa poteva andare storto? In effetti andò bene, ma prima di abituarci a come suonava il risultato sono sicuro che ognuno di noi stesse ancora pensando al volume del suo strumento nella tal canzone, l’effetto che si poteva mettere nella tal altra e, porcocazzo, và come si sente lì che ho mancato una nota!
Un altro famoso adagio vuole che dietro ogni critico ci sia un artista fallito. Ovviamente con la mia band non abbiamo fatto i soldi, ma quando devo giudicare un gruppo tengo sempre a mente quel che provo quando sono dall’altra parte della barricata (al momento abbiamo sostituito il batterista con un computer, e la pandemia ci ha azzoppato alquanto). Tutte queste esperienze mi sono tornate in mente ascoltando Macula dei Bacon’s Chaos (uscito il 30 ottobre 2020 con la collaborazione di Scatti Vorticosi Records): non so perché ma mi è venuto automatico immaginarmi nei loro panni, pensando a tutte quelle tappe che ti portano a realizzare un disco.
Diversamente da noi il trio formato da Luca Zeni (voce e chitarra), Vittorio Villani (batteria) e Andrea Rivadossi (basso, unitosi agli altri componenti nel 2019) aveva già un luogo perfetto dove tornare. Dopo le registrazioni del precedente Ep, Nervoso, il Trai Studio (una garanzia nei dintorni di Milano) è ancora la casa base delle operazioni, ma già dalle prime note della traccia d’apertura Oltre si capisce che la consapevolezza a livello sonoro della band è aumentata: gli strumenti viaggiano all’unisono, hanno una forte coesione e in generale sembra esserci stato uno studio delle frequenze atto a far sì che le sonorità non si coprano a vicenda (sembrano tecnicismi del cazzo, ma ricordate quando poco sopra dicevo che noi ci mangiavamo le mani perché “lì la chitarra si sente troppo poco, lì il basso avrebbe dovuto essere più alto, dove sono finiti i piatti della batteria”? Ecco, quel tipo di studio ti aiuta ad avere meno rimpianti). Soddisfa meno la voce, poco amalgamata al resto, ma Luca riesce spesso a ovviare al problema con l’energia.
“Bello il quadretto in studio di registrazione, ma i Bacon’s Chaos che fanno?”, starete dicendo voi, ed ora ci arrivo. O almeno ci provo, perché la band lombarda è difficile da inquadrare: c’è qualcosa di stoner (l’inizio di Suoni rimanda dritta ai Kyuss), qualcosa di quel generico rock alternativo che anche loro evocano nella cartella stampa, anche un’urgenza punk che esplode nel finale di Sorteggio, canzone scelta come singolo e che risulta in effetti il brano più coeso e d’impatto. Energici e talvolta lisergici, viste le numerose parti strumentali innestate nei brani dell’Ep, trascinati da un basso che in certi punti sfodera distorsioni telluriche (che a me hanno ricordato i mattissimi Morkobot), ai Bacon’s Chaos manca però il dono della sintesi.
Perché, tornando a Caparezza, il secondo album (o Ep, avete capito) è sempre il più difficile? Perché scatta la necessità di alzare l’asticella, osare, sperimentare nuove vie, e non sempre le cose vanno a buon fine. Quello che emerge dai quattro brani più uno (l’ultima traccia, Blues di Lazzaro, è registrata live al Cerchio Perfetto di Torino) di Macula è la fotografia di una band che ha trovato un suo suono, ma non sa ancora come direzionarlo. Nella già citata Sorteggio funziona il colpaccio di sfondare verso l’hardcore nel finale, ma spesso le influenze si mescolano in maniera forzata: ritornelli dal sapore punk seguiti da riff metal (Oltre), parti strumentali che si dilungano fino a perdere potenza (Suoni) o innestate a forza su brani che non ne abbisognano (Blues di Lazzaro). Anche in Nere cornici, caratterizzata da un’atmosfera cupa che rimane coerente lungo tutta la sua durata, resta l’impressione che la pratica si potesse risolvere in meno tempo, senza il bisogno di tutte quei fronzoli che portano spesso il minutaggio dei brani oltre i cinque minuti.
Rispetto al primo Ep i Bacon’s Chaos fanno passi avanti enormi dal punto di vista sonoro, ma si sente ancora parecchia confusione sul fronte compositivo. A volte basterebbe farla semplice, senza complicarsi troppo la vita, perché di idee ottime ce ne sono in ogni brano ma la soluzione migliore non è farle ammucchiare. Il terzo episodio potrebbe essere quello della maturità, e me lo auguro: qui non parla il critico (che poi manco sono un giornalista, anzi, manco pubblicista), ma il musicista che guarda con fiducia al futuro, anche se il suo batterista è un pc e non sa minimamente come utilizzarlo.
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