Racconto in musica 162: Piano inclinato (Divide And Dissolve – Oblique)

I modi in cui puoi conoscere musica nuova sono infiniti come infinite sono le vie della provvidenza, ma non essendo credente nel senso istituzionale del termine io per il momento ne ho trovati solo un bel po’. L’ultimo di questi, scoperto (senza chissà quale fantasia eh) su input di un amico che mi chiedeva “c’è qualche concerto interessante in data X”, è quello di scandagliare il programma di qualche locale bello in cui suonano molto spesso, tipo l’Arci Bellezza di Milano. Lo frequento meno di quanto meriterebbe, ma fra artist* italian* e internazionali porta sul palco davvero qualsiasi genere, che sia la trance strumentale dei cileni Föllakzoid o il rap mischiato con qualsiasi cosa dei milanesi Brucherò Nei Pascoli. Mi sono appuntato così un po’ di nomi da ascoltare la mattina mentre vado a lavoro (o la sera mentre ritorno), e vi esorto a immaginare la scena: sei lì che vaghi nella nebbia fra i paesini dell’hinterland milanese, la sola compagnia del traffico e di un sax acuto e malinconico che esce dalle casse, quando all’improvviso parte tutta la distorsione del mondo a scompigliarti i capelli. Questo è stato più o meno il mio battesimo del fuoco con le Divide And Dissolve, dall’Australia direttamente sulle schermate di Tremila Battute.

Ho detto le Divide And Dissolve ma sarebbe meglio dire LA, visto che il progetto è nato nel 2015 ed è tuttora portato avanti da Takiaya Reed, sassofonista e chitarrista nata negli Stati Uniti e di origine Tsalagi e afroamericana, ma a dare manforte a Reed dal primo disco Basic e fino al 2023 c’è stata la percussionista Sylvie Nehill, australiana bianca di discendenza Māori. Non sono solito specificare le etnie d* musicist*, ma nel caso delle Divide And Dissolve è importante perché il loro scopo, come riportato su Wikipedia da una loro intervista, è quello di “decolonising, decentralasing, disestablishing, and destroying white supremacy”: lo si capisce facilmente dai titoli del già citato Basic, che vanno da Black is beautiful a Black vengance passando per Black & indigenous, e proprio i titoli sono il veicolo della loro rivendicazione visto che, e sono arrivato sino a qui senza specificarlo, le Divide And Dissolve fanno doom metal quasi esclusivamente strumentale. La mancanza dei testi non impedisce loro di farsi sentire con parole e prese di posizione, come quando all’uscita del secondo disco Abomination (edito, come il primo, dall’etichetta DERO Arcade) pubblicano il video della canzone Resistance in cui sputano e gettano urina con una sorta di Super liquidator sulle statue dell’invasore dell’Australia James Cook e dello “scopritore” della ribattezzata Melbourne John Batman: YouTube prima lo rimuove, poi si scusa e rende possibile di nuovo vederlo, come potete fare anche voi dal link di cui sopra.

La loro musica e il loro spirito battagliero attirano l’attenzione di Rubian Nielson (di discendenza Hawaiiana e Māori), frontman della band psichedelica neozelandese Unknown Mortal Orchestra, che decide di produrre il loro terzo disco. Gas lit esce nel 2021 per la Invada di Geoff Barrow, ex membro dei Portishead, e il focus delle loro rivendicazioni vira lievemente: i titoli delle canzoni sono frasi sibilline che rimandano alla pratica del “gaslightning”, manipolazione che mira a destabilizzare l’integrità psicologica delle vittime spesso utilizzata nelle relazioni tossiche. A giugno 2023 è uscito Systemic, l’ultimo disco del duo, registrato a New Orleans e licenziato sempre dalla Invada: nonostante il clima rilassato in cui è stato registrato (come evidenziato in questa intervista) l’album appare ancora più oscuro dei precedenti e in Kingdom of fear ospita le parole della poeta venezuelana Minori Sanchiz-Fung, collaboratrice di lunga data già apparsa anche nel primo disco della band. Non so se sarò sotto il palco giovedì 8 febbraio all’Arci Bellezza, ma se siete nelle vicinanze di Milano e questo articolo vi ha incuriosito sapete dove andare.

Oblique è la prima traccia di Gas lit ed è esattamente la traccia che ho descritto a inizio articolo, un incrocio pericoloso di dolcezza malinconica che contiene al suo interno un nucleo di doom distorto e urticante. Non so quali percorsi abbia fatto la mia mente per tirare fuori la storia che state per leggere, mi sono fatto perlopiù suggestionare dall’obliquità evocata dal titolo immaginandomi un mondo altro, luminoso e dai colori allegri ma crudele nel suo ciclo di autoperpetuazione: per capire cosa intendo non vi resta che andare più in basso, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Piano inclinato

Stalattiamo dal tello con pacata protuberanza: quello è il tempo della nascita. Emergiamo al globo fra i riflessi del bagliore lontano sulla sorra purpurea, ne cogliamo lo specchiarsi rubineo lungo le pareti. Scorgiamo le macchie bianche e blu di chi è già maturato, dev’essere doloroso l’impatto perché il loro strisciare è lamentoso. Il globo non ci mente: un giorno toccherà anche a noi.

La sorra luminosa sotto di noi è un piano inclinato. Il nostro destino è di scivolare, macchiare di nutrimento il globo e spargerci turchesi finché di noi non resterà che un guscio vuoto. C’è chi sostiene sia un processo di ascesi, ai più sembra semplicemente quella che è: una caduta.

Nessuno guarda volentieri verso l’estremo opposto del bagliore. Il laglieno sta in fondo, attende e ruota, sugge tutto ciò che scivola rapido verso il suo biancore, rimandando al globo quel che è del globo. Ciò che saremo da rinsecchiti stride mentre prende velocità, anche il silenzio che producono i gusci ci fa vibrare e lo avvertiamo per tutto il giorno, tutti i giorni. Crescendo la luce del bagliore ci appare più sfocata, la sorra purpurea più accogliente: il laglieno continua a infestarci da dentro.

Il sistema è la nostra vita. Nasciamo per morire, moriamo per rinascere: il dolore e la vibrazione sono complicazioni accidentali lungo il percorso. C’è chi sostiene esistano alcuni di noi che non crollano mai, finiscono per stalagmirsi: spero di vederne uno quando sarà il mio turno di scivolare, e gli chiederò come mai.

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I morti ci insegnano a vivere: la lezione di Swiss army man e Povere creature!

C’è una scena, in Povere creature! di Yorgos Lanthimos, in cui un personaggio dice a Bella Baxter (Emma Stone) qualcosa tipo “la società ti rovinerà”. In effetti il mondo non sembra incline a seguire le sue idee in fatto di sesso, relazioni sociali, ambizioni o anche, andando più nel piccolo, metodi piuttosto rudi di far smettere di piangere un bambino, ed è questa distanza fra il suo bizzarro modo di agire e la maniera in cui si sono sempre fatte le cose che crea parte del fascino del film (cui non per niente sono state date ben undici nomination ai prossimi premi Oscar). Mentre Bella gira il mondo alla ricerca di sé stessa i protagonisti di un film che ha avuto molta meno fortuna (in Italia non è stato nemmeno distribuito nei cinema) ci provano facendo il percorso inverso, ritornando faticosamente alla società: sono Hank (Paul Dano) e Manny (Daniel Radcliffe), improbabile coppia il cui viaggio in Swiss army man è tanto poetico quanto scurrile.

Cosa unisce questi due film? Semplice: il motore narrativo dei due film sono persone tecnicamente morte.

Mille modi per usare un cadavere

Nel 2016 Daniel Kwan e Daniel Scheinert si facevano già chiamare Daniels, ma del loro film d’esordio non si erano accorti in molti al di fuori del circuito indipendente: qualche premio (Miglior regia al Sundance, Miglior film e Miglior attore per Radcliffe al Sitges), qualche buona critica e una pacca sulle spalle. Fortuna vuole che fra gli estimatori della pellicola ci fossero i tizi della A24, che qualche anno dopo diede loro la possibilità di realizzare un progetto a cui pensavano dal 2010 e di cui potreste aver già sentito parlare, un certo Everything everywhere all at once. La disparità di successo fra i due film è enorme e ingiustificata, soprattutto perché i Daniels non hanno certo lesinato d’immaginazione con Swiss army man, e lo si capisce fin dalla scena iniziale.

Hank è depresso, e questo sarebbe già un problema se non ne avesse uno anche peggiore: è abbandonato su un’isola deserta. Non sappiamo come ci è arrivato, ma la corda che si lega al collo lascia intuire che ha intenzione di lasciarla con un metodo piuttosto definitivo… Non fosse che, proprio all’ultimo, vede sulla spiaggia il corpo di un’altra persona. È così che fa la conoscenza di Manny, anche se non può ancora sapere qual è il suo nome perché un altro problema si somma agli altri: Manny è morto, e in più libera i propri gas sotto forma di rumorose scoregge. Passano però pochi istanti dal momento in cui un Hank col morale sotto i tacchi ritenta il suicidio, aiutandosi con la propria cintura, al momento in cui intravede una via di fuga, un cambio di prospettiva che va alla velocità con cui il corpo di Manny viene sospinto al largo dalla propulsione dei suoi gas. Sulle note del tema di Jurassic Park, in un momento di grandissima enfasi, i Daniels entrano nella storia con la prima (e presumo unica) fuga da un’isola deserta a bordo di una moto d’acqua umana: altro che la zattera di tartarughe legate con peli umani di Jack Sparrow!

Qui oggi facciamo la storia!

Non vi tolgo nessuna sorpresa (o forse un po’ sì) svelandovi che Manny non rimarrà morto a lungo, o almeno non completamente. Giunti a terra il cadaverico compagno di Hank inizia un lento ritorno alla vita, palesando al contempo la straordinaria capacità di aiutare il compagno nel cammino attraverso la natura selvaggia: Manny si dimostra utile per immagazzinare acqua, per spaccare cose, funge da bussola e attizza il fuoco, tutto attraverso il proprio corpo e molto spesso tramite le espressioni più sconvenienti della corporeità, come erezioni e scoregge. A questa comicità di grana grossa, che sembra rimandare più ai cinepanettoni che al raffinato mondo del cinema indipendente, si affianca però una storia che sa toccare i tasti giusti, perché per ritornare alla vita Manny ha bisogno che Hank gliela faccia ricordare, e così facendo anche l’insegnante ricorda ciò che ha lasciato e perché.

Prossima fermata: l’amore!

I Daniels sono bravissimi a giocare con l’alto e con il basso, trovano un equilibrio perfetto e sfruttano due attori completamente in palla, soprattutto Radcliffe che nella parte di un cadavere semi-ambulante riesce a spiccare in espressività. Il film non sarebbe così sorprendente però senza le sue invenzioni visive: Hank nello spiegare la vita a Manny ricrea un mondo nella foresta, utilizzando mezzi di fortuna con risultati incredibili come il bus su cui, camuffato in abiti femminili, inscena l’incontro fra Manny e Sarah (Mary Elizabeth Winstead), la donna che entrambi hanno idealizzato. Il viaggio dei due non sarà sempre gioioso, e man mano che la meta si avvicina i dubbi aumenteranno tanto in Hank, che la società l’aveva lasciata in quanto inadatto, quanto in Manny, a cui sembra sempre più che nel posto dove devono arrivare ci siano troppe regole e pochi pregi.

“Che cosa triste!”

Swiss army man è un film meno caleidoscopico del successivo progetto dei Daniels, ma in quanto a fantasia, sensibilità e divertimento generale non ha nulla da invidiare a Everything everywhere all at once: i suoi problemi semmai nascono quando arriva un altro morto all’orizzonte, o meglio una morta.

Rinascere a furia di balzelli furiosi

Non si sa quale motivo ha spinto Bella Baxter al suicidio. Nelle fasi iniziali di Povere creature! la vediamo già viva e vegeta(le), intenta perlopiù a capire come funziona il proprio corpo e totalmente immemore della sua vita passata: dei flashback del suo salto da un ponte sono tutto ciò che ci viene concesso di sapere, e per gran parte della pellicola rimaniamo col dubbio sulle sue vere origini. Bella è infatti una creatura dello scienziato Godwin Baxter (Willem Dafoe), una Frankenstein al femminile che viene riportata in vita e accudita come una figlia dall’uomo, il cui aspetto è a sua volta frutto degli esperimenti di un padre poco propenso all’amore e molto devoto alla scienza, tanto da espiantargli alcuni organi digerenti solo per accertarsi che servissero davvero.

Buon appetito!

Godwin è molto più affettuoso del padre, ma costruisce comunque attorno a Bella una prigione dorata, impedendole l’accesso a un mondo verso cui la giovane ha sempre più curiosità. Nemmeno trovarle un custode/marito, l’aspirante medico Max Mc Candles (Ramy Youssef), ne frena lo slancio, e l’incontro col viscido avvocato Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo) sarà l’evento che la porterà finalmente a confrontarsi con l’esterno e le sue regole… A cui Bella non ha però la minima intenzione di aderire.

Può essere considerata una storia di formazione quella tratta dal libro omonimo di Alasdair Gray, ma di sicuro è la più strampalata che si possa immaginare. Bella è diretta, sfacciata, affamata di sesso e incapace di frenare il proprio desiderio di scoprire cose nuove, che siano la povertà o il socialismo, un rullo compressore splendidamente interpretato da Stone e perfettamente integrato in una pellicola che fa di tutto per farla apparire la cosa meno strana nella cornice. Lanthimos non può certo essere considerato un regista minimale, ne siano prova il surrealismo di The lobster e le inquadrature sghembe del suo asso pigliatutto La favorita, ma in Povere creature! dà il meglio di sé inventandosi un parco giochi in cui ogni inquadratura è meraviglia, ogni elemento della sceneggiatura è stupefacente, ogni costume indossato da Bella è bizzarro: il regista greco crea dalle fondamenta un mondo fatto di architetture vagamente steampunk dipinto di colori vividi e accecanti, uno sfondo su cui far agitare i propri personaggi affiancandoli a strani incroci antropomorfi e se possibile ad una ancora più bizzarra fauna umana, dalla tenutaria del bordello Swiney (Kathryn Hunter) al cinico Harry (Jerrod Carmichael).

Dalla prima lezione di Lanthimos sulla sobrietà

Povere creature! è un film che vive di eccessi, di inquadrature storte, di bianchi e neri alternati ad esplosioni di colore e di corpi, deformi come quello di Godwin o esposti come lo è spesso quello di Bella, nuda in moltissime scene ma senza che questa scelta appaia gratuita: in fondo Lanthimos inquadra volentieri anche i peni, tanti peni (ma comunque meno rispetto alle vagine), sebbene anche lui cada nella trappola del provvidenziale lenzuolo a coprire le parti intime (di Ruffalo) come da pratica da me denunciata in questo articolo (che ci volete fare, ognuno ha le battaglie che merita). La moglie di un mio collega lo ha definito un horror-porno-splatter, definizione che mi sembra esagerata ma che riesce a mettere in luce quante corde riesce a toccare la pellicola: è vero che gli eccessi servono a veicolare la maturazione di Bella verso una propria visione di come il mondo dovrebbe essere, ma è altrettanto vero che Lanthimos si diverte un sacco a mostrare trapianti di cervelli, sesso con uncini e ferite sanguinanti, il tutto mantenendo la rotta e riuscendo a dare al suo film una notevole profondità in mezzo a tutto quello spasso.

“Non sai quanto mi sono divertito a prendere a testate un bancone!”

Povere creature! meriterebbe tutti gli Oscar a cui è candidato, ma probabilmente Christopher Nolan e il suo Oppenheimer la faranno da padrone e Lanthimos “pagherà” quelli vinti col precedente La favorita, in una curiosa inversione con la carriera dei Daniels che invece si presero giusto qualche complimento con Swiss army man prima di conquistare il mondo con un multiverso che la Marvel si sogna: forse è un po’ forzato come collegamento fra i due film, almeno più di quanto non lo sia paragonarli per la loro capacità di insegnarci come vivere la vita attraverso coloro che l’hanno persa.

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Racconto in musica 161: Maestrale (Daniela Pes – Arca)

Sono un appassionato di classifiche. Discografiche, letterarie, musicali, datemi una classifica e difficilmente riuscirò a ignorarla. Probabilmente è una passione nata quando i miei genitori compravano TV Sorrisi e Canzoni, una di quelle riviste che adesso non toccherei neanche con i guanti ma che allora formarono la mia passione per l’arte dell’intrattenimento in generale (ricordo una recensione di Fight club che me lo fece apparire come una palla pazzesca, poi lo vidi e me ne innamorai). Oggi valuto attentamente quali classifiche guardare, perché alla caccia del click facile qualunque sito becero ti butta lì la sua “classifica dei migliori film della storia secondo Quentin Tarantino” (l’algoritmo ha deciso, non so bene perché, che io pendo dalle labbra del buon Quentin), e questo ogni settimana, come se qualcun* andasse effettivamente ogni sette giorni a chiedere al regista di Pulp fiction quali sono secondo lui i film imprescindibili della storia e lui cambiasse idea ogni volta, ma quelle di fine anno sono una calamita a cui difficilmente riesco a resistere. Una volta le facevo pure io, poi ho cominciato ad ascoltare in maniera troppo caotica per ricordarmi cosa è uscito quando e mi sono limitato a tre consigli a richiesta sul blog del buon Alessandro Busi, ma quelle degli altri siti di musica le scandaglio alla ricerca di album che mi erano sfuggiti e di dischi che proprio bisogna ascoltare perché vabbè, ne parlano DAVVERO tutt*, e quest’anno erano tutt* concordi nel dire (a ragione) che il disco d’esordio di Daniela Pes è stato fra i migliori del 2023.

A permettermi di parlare dell’artista sarda è un suo conterraneo, Diego Frau. Nato a Cagliari ma trasferitosi da un anno a Roma, Diego è uno di quei nomi che mi capitava spesso di veder interagire sulla pagina Facebook del blog e sono strafelice che abbia deciso di passare da osservatore a collaboratore. Diego è anche un “collega” (le virgolette sono d’obbligo quando le cose le fai gratis) perché fino a poco tempo fa si occupava della rubrica letteraria del magazine FuoriPosto mentre nel 2019 aveva fondato la rivista RadioBUSTA, progetto purtroppo naufragato ma che ha ospitato nei suoi due anni di attività molt* autor* emergenti (fra l* altr* Diego segnala Paolo Gamerro, Riccardo Meozzi, Federica Patera e Maria Giulia Mancuso Prizzinato). Proprio su quest’ultima inizia a pubblicare i primi racconti, ma nel frattempo Diego è stato fulminato sulla strada della microfiction e non poteva che essere ospitato dal lodevole multiperso, oltre che sul Blogorilla Sapiens (cliccate sui link, sono lì per quello e orgasmano quando ci passate sopra col mouse): proprio un’antologia di microracconti bolle in pentola sul suo pc, oltre a un romanzo in corso d’opera di cui speriamo di avere presto nuovi sviluppi.

Daniela Pes è arrivata come un fulmine a ciel sereno (ed è già il secondo parallelismo che faccio coi fulmini oggi) nel panorama discografico italiano, ma il suo successo si è costruito lentamente in sottofondo fin dal 2016, anno in cui la cantautrice si laurea in canto jazz presso il Conservatorio Luigi Canepa di Sassari e forma, insieme a Dora Scapolatempore, il duo arpa e voce The Daltes, con cui rivisita in chiave elettronica brani jazz ed arriva ad esibirsi nello stesso anno all’Harp Festival di Rio de Janeiro. Già nel 2017 inizia il suo percorso solista, mettendo in musica delle poesie in sardo gallurese del concittadino Gavino Pes, e in questa parte della sua carriera ottiene unanimi consensi aggiudicandosi il premio assoluto e quello della critica al Premio Andrea Parodi e, nel 2018, i premi Nuovo IMAIE e Miglior Musica al Festival Musicultura: da quel momento però Pes scompare un po’ dai radar, iniziando una ricerca musicale che esca dai confini stretti della metrica poetica, come afferma lei stessa in questa approfondita intervista.

La sua ricerca ha un punto di svolta fondamentale quando, grazie a un amico comune, incrocia il proprio percorso con quello di Jacopo “Iosonouncane” Incani, altro sardo d’eccellenza del panorama musicale italiano a cui abbiamo dedicato un racconto ad hoc. Fra il 2019 e il 2020 inizia una fitta corrispondenza fra Incani e Pes, con il primo che nel frattempo sta lavorando al suo monumentale Ira ma trova il tempo di consigliare la cantautrice e aiutarla a trovare la direzione giusta per i suoi brani: il cammino è lungo e tortuoso, porta Pes a elaborare un linguaggio che mischia il gallurese all’italiano e al latino in cui è l’assonanza fra i fonemi e non il significato a essere preponderante, e dopo tre anni di interscambio inizia a venire alla luce Spira, un disco denso dei suoni inconfondibili di Incani ma che nel connubio con la voce di Pes e le strutture ariose che la cantautrice dona ai brani assume una propria personalità ben definita. L’album esce ad aprile 2023 per la Tanca Records di Incani e inizia presto a far parlare di sé, anche se io me ne accorgo in colpevole ritardo grazie alla segnalazione di un’altra collaboratrice sarda di Tremila Battute, Christina Nike Gagliardi: sette brani di melodie vocali ora suadenti ora intrise di ruvida sofferenza, costruiti su strutture cangianti e misteriose in cui i suoni elettronici appaiano l’accompagnamento perfetto per il fascino ancestrale della voce di Pes. Spira ammalia perché non è perfetto, è intriso della visione della sua autrice ed è stato rimodellato attraverso numerose versioni dei brani prima di arrivare a quella definitiva, è emozionante come può esserlo un viaggio perlopiù cupo (Ora, basato quasi esclusivamente sulla voce sussurrata di Pes, rimanda a un immaginario di fiabe tenebrose raccontate in piena notte) ma capace di aprirsi a lirismi scintillanti, come accade in alcuni punti di Làira: quando si arriva alla tappa conclusiva ci si sente come di fronte a un mare in tempesta, fermi a contemplare la furia della natura mentre il canto pagano di A te sola (il primo brano condiviso dalla cantautrice nel lungo processo che ha portato alla realizzazione del disco) cerca drammaticamente di calmare le onde o chissà, forse di aizzarle ulteriormente. I primi live di Pes, accompagnata dalla musicista elettronica Maru, sono andati tutti sold out e al momento l’unica possibilità di vederla esibirsi è partire per Ljubljana il 27 febbraio: tenete d’occhio questa pagina quindi se volete, come me, ascoltare la magia della sua musica da sotto il palco.

Diego per il suo racconto ha preso ispirazione da Arca, il penultimo brano del disco, una delle canzoni più soffici e ariose in cui la sensazione che i suoni donano è quella di entrare in punta di piedi in un mondo altro, pieno di luce. È un percorso anche quello che intraprende la protagonista della sua storia, ma la ricerca che compie è più febbrile e drammatica, anche se in maniera simile sembra portare verso la dissoluzione: se volete farvi affascinare dalle atmosfere che tanto la musica di Pes quanto le parole di Diego riescono a creare non dovete fare altro che andare un poco più in basso, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

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Maestrale, di Diego Frau

Sono rimasta ad aspettarti tutta la notte. Come una stupida. Ma almeno a tua figlia non ci pensi? Stanotte si è svegliata alle due e ha iniziato a piangere. Aveva la febbre a trentanove e piangeva così forte che a volte le mancava l’aria. Continuava a chiedermi di te, ma non sapevo cosa dirle. Quando si è calmata le ho preparato la Tachipirina e poi l’ho rimessa a letto. Ho bevuto un bicchiere d’acqua in cucina. Ho controllato ancora tra i tuoi messaggi. Niente. Ma almeno a lei, dico, ma almeno a tua figlia non ci pensi?

Saresti dovuto essere qui con me, con noi, e invece è da più di una settimana che sei sparito. L’altro giorno ho camminato per tutta Piazza Garibaldi, convinta che ti avrei trovato lì. Ti ho cercato in tutti i bar, in tutti i locali, nella sala slot. Sparito. Nessuno sapeva dirmi niente. Alcuni nemmeno ti avevano mai visto. Così ho provato pure al bar di Castello, quello dove andavi da ragazzino. Una signora mi ha risposto di malo modo e mi ha detto che ormai era da molto che lì non ti facevi più vivo. Allora sono andata pure a Marina Piccola, in quel bar dove mi portavi quando ci siamo conosciuti. Ma niente. Non c’eri. Eppure anche lì sentivo la tua presenza, anche lì mi sentivo soffocare. Ho guardato le barche sul molo poi sono andata verso la spiaggia, mi sono seduta sulla riva e ho iniziato a piangere

Sei una stupida, mi sono detta, Una stupida. Mi ero davvero convinta che prima o poi saresti tornato. Che non ci avresti lasciate sole. E mi sentivo ancora più stupida, perché anche mentre piangevo in qualche modo continuavo a crederci. Sono entrata in acqua e le lacrime diventavano più fredde col maestrale. Ma non ci pensi a tua figlia? Me lo ripetevo anche mentre l’acqua mi era arrivata ormai alle spalle. Non ci pensi a tua figlia?, mi dicevo. A volte ci sentiamo così soli e non capiamo nemmeno il perché. Ho chiuso gli occhi. Le lacrime diventavano più fredde col maestrale.

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Problematiche sociali in Giappone, back to 2016: La ragazza del convenience store di Murata Sayaka e Shin Godzilla di Anno Hideaki

Ci sono mete da cui torni e vorresti ritornarci subito: per me una di quelle mete è il Giappone. Non so se sia il posto in cui mi sono trovato meglio in assoluto, di certo sono rimasto affascinato dai luoghi, dal cibo, dall’atmosfera generale e da mille altre cose: più di tutto è però il posto in cui mi sembra di aver lasciato indietro il maggior numero di luoghi che avrei voluto visitare, e mentre vagavo per Tokyo o Kyoto o Kamakura (alla prossima, Buddha gigante) pensavo “ok, questa cosa che non riuscirò a visitare la metterò nell’itinerario per il viaggio numero (numero variabile da due a cinque)”. Provare affetto per un paese in cui sei stato e volerci tornare sono però cose diverse dall’idealizzare quel paese, che è sempre il primo passo verso il trovarsi ad affermare “là sì che si sta meglio”: perché noi in Italia ne abbiamo di problemi, non ultimo dei quali il capire quando puoi permetterti di fare il saluto fascista (c’è gente che fa fatica a frenarsi eh, poverin*), ma non è che in Giappone va tutto bene solo perché le strade sono più pulite o perché (guarda un po’ le coincidenze) i treni arrivano in orario.

Quando c’era l’imperatore arrivavano addirittura in anticipo!

Non voglio fare l’esperto di Giappone che non sono, ma su certi fronti non stanno certo messi meglio di noi: parlo di disuguaglianza di genere (in ambito lavorativo e non solo), di stigmatizzazione e criminalizzazione dell’uso della cannabis, più problematiche locali come lo scandalo relativo all’abuso di minori nell’ambiente del j-pop, regno non così dorato che già un vecchio film d’animazione (Perfect blue del compianto Satoshi Kon) e un recente anime (Oshi no Ko Has, la cui sigla ho sentito parecchie volte girando per le città nipponiche) hanno provato a smitizzare. Ci sono però un libro e un film che hanno contribuito a convincermi a buttare giù questo articolo, perché analizzano piuttosto bene due problematiche che sono sicuramente anche nostre e che lo fanno in maniera bizzarra, un po’ per il tono e un po’ per la loro stessa natura: sono, come si evince dal titolo in alto, La ragazza del convenience store di Murata Sayaka (pubblicato dalla casa editrice e/o) e Shin Godzilla di Anno Hideaki.

Adeguarsi alle aspettative sociali in un konbini

Il konbini è una delle tante cose che caratterizzano il Giappone, nonché uno dei simboli del legame culturale con gli Stati Uniti. Sono piccoli esercizi commerciali aperti 24 ore su 24, sette giorni su sette (agevoliamo una canzone che ne parla), in cui è possibile comprare cibo, riviste, prodotti per la casa, sigarette e pure i francobolli, nel caso abbiate bisogno di spedire una cartolina (anche se abbiamo faticato a trovarne uno che ce li avesse davvero). Non è esattamente il posto dove immagini di fare carriera, così come non lo è negli equivalenti in altre parti del mondo, il che spiega perché i genitori di Furukura Keiko, la protagonista del libro di Murata, siano così preoccupat* per il suo futuro.

«A furia di lavorare in quel konbini invecchierai senza neanche accorgertene e nessuno vorrà sposarti. Anche ammesso che tu sia vergine, hai già perso la tua purezza, sei ridotta a una vecchia carcassa. Sei poco invitante, nessuno ti degna di uno sguardo, nessuno ti vuole. Se fossimo nel periodo Jōmon saresti una di quelle donne sole e abbandonate che vagano senza una meta da un angolo all’altro del villaggio, derise e disprezzate da tutti, destinate ad avvizzire senza dare alla luce dei figli. Sei solo un peso per la comunità. Io sono un uomo, in qualche modo posso sempre cavarmela, invece per te è già troppo tardi».

Keiko è sempre stata strana, fin da bambina, e si è presto resa conto delle differenza fra lei e l* altr*. Tutta la sua vita si è così votata all’apparire il più possibile conforme alle norme, atteggiamento che l’ha resa piuttosto introversa. Quando decide di candidarsi come commessa in un konbini la sua vita però cambia: nella ripetitività delle logiche di quel microcosmo Keiko trova stabilità, disinteressandosi di aspetti come la realizzazione economica o professionale e rimanendo per più di un decennio una dipendente a tempo determinato mentre collegh* e superiori cambiano continuamente. Guardata alternativamente con condiscendenza e compatimento dalle persone che le ruotano intorno, Keiko finisce per mettere in gioco la sua stabilità quando entra in contatto con Shiraha, un nuovo dipendente svogliato e scostante dalle opinioni quantomeno bizzarre sulla società ma non prive di potenzialità critiche.

Shiraha è critico verso tutto e tutt*, è convinto che la società non si sia affatto evoluta dal periodo preistorico e che sia ancora il più forte a vincere. Cerca di vivere perlopiù come un parassita, estraniandosi dalle logiche che regolano la vita attorno a lui, in maniera più visibile ma non molto distante dagli hikikomori, i giovani che non escono di casa di cui avevo parlato in questo articolo, e con i suoi discorsi tanto appassionati quanto astrusi finisce per convincere Keiko che la sua vita nel konbini è un vicolo cieco e che solo lui può salvarla, aiutandola ad adeguarsi alla società, almeno in apparenza, intraprendendo una finta relazione con lui.

Ispirato alla vera esperienza lavorativa in un konbini della sua autrice, La ragazza del convenience store è un libro leggero che riesce nel contempo a far luce sulle aspettative sociali che premono su uomini e donne in Giappone. La necessità di creare una famiglia, di essere attivi sessualmente o di avere una carriera lavorativa adeguata per rispettare i parametri di “successo” nella società contemporanea sono temi che parlano anche a noi, ma nel libro di Murata sono esasperati dal particolare sguardo di Keiko, una donna abituata ad adeguarsi mutuando il proprio comportamento su quello dell* altr* e il cui tentativo di emancipazione è goffo e drammatico al tempo stesso.

Anche se sono distante fisicamente, resto in contatto perenne con il konbini. Anche se sono lontana, non smetto mai di pensare allo SmileMart di Nisshokuchō e ai mille piccoli avvenimenti che animano quel mondo luminoso, e intanto mi accarezzo piano le ginocchia con le mani, le unghie tagliate corte per poter gestire al meglio le operazioni della cassa.

La ragazza del convenience store è scorrevole e ha un’ambientazione affascinante, per quanto del Giappone si veda poco oltre le pareti del konbini in cui lavora la protagonista, ma la carica politica della sua analisi si perde in una scrittura senza particolari guizzi, finendo per rientrare nei canoni della letteratura edificante ma non particolarmente profonda. Non manca, a tal proposito, una sorta di lieto fine, anche se la scelta fra una relazione tossica e un lavoro senza sbocchi è quanto di più strano fra cui scegliere per trovare la propria felicità.

Il vero mostro: la burocrazia

Anno Hideaki è uno di quei nomi che in Giappone fa notizia qualunque cosa faccia. L’ideatore di Neon Genesis Evangelion, anime dalla realizzazione quantomeno complicata (su cui vi consiglio di indagare attraverso Dummy System, monumentale sito che comprende anche un accurato podcast) il cui successo è aumentato a dismisura col tempo, è probabilmente la figura più influente nel settore dell’animazione dopo Miyazaki Hayao, tanto che esiste addirittura un manga comico basato sulla sua vita al di fuori del set, Kantoku fuyuki todoki (traducibile come “Lo scarso regista”), realizzato da sua moglie Moyoko. Alla carriera nell’animazione Anno ha presto affiancato quella di regista di film in live action, ma niente di paragonabile al momento in cui si è preso la briga di realizzare un nuovo film di Godzilla, il kaiju per eccellenza del pantheon di mostri grossi giapponesi: l’accoppiata ha fatto sognare tutta la nazione, e non è affatto strano che alla sua uscita abbia realizzato il record di incassi di tutti i tempi (battuto nel 2023 da un nuovo film sul lucertolone atomico, Godzilla minus one).

Sulla sinistra Godzilla, sulla destra la meravigliosa isola di Enoshima ❤

La trama è classica e abbastanza fedele alle prime apparizioni del kaiju: Godzilla emerge dalla baia di Tokyo, inizia a distruggere la città e politica ed esercito fanno del loro meglio per fermarlo prima che il disastro possa raggiungere proporzioni (ancora) maggiori. C’è solo un piccolo problema: chi decide che cosa fare? Questo è l’inghippo che permette ad Anno, che evidentemente non vede di buon occhio l’elevato tasso di burocrazia nipponico, per dirottare la prima metà del film dal disaster movie che tutti si aspettano verso una sorta di grottesca parodia dell’ossessione per il rispetto della catena di comando e dell’anzianità di servizio. Ogni minima decisione viene presa attraverso mille passaggi, il lancio di un missile non avviene se prima non c’è stata l’approvazione di tutt* coloro che ne devono decidere, dal soldato in postazione fino al primo ministro, la competenza su ogni decisione passa attraverso uno scaricabarile ossequioso e chiunque cerchi di velocizzare le cose viene redarguito e sbeffeggiato, senza ricevere un grazie nemmeno quando dimostra di avere ragione. Anno si diverte un sacco a mostrare questo circo assurdo di politicanti incapaci, avviluppati nella rete di regole che hanno contribuito a creare, tanto che continua a mostrare nomi e ruoli de* protagonist* ogni volta che parte il rimpallo per decidere cosa fare con la creatura che sta risalendo il fiume, chi consultare per avere un parere o quale parte della popolazione far evacuare… Il tutto mentre Godzilla, nell’apparente disinteresse generale, diventa sempre più grosso e pericoloso.

So cute ❤

La parte più interessante di Shin Godzilla è proprio questa, un’impietosa e sarcastica analisi di una problematica che anche noi conosciamo bene. Il ritmo della pellicola di Anno è trascinante, eppure fatto solamente di parole a vuoto e distruzioni varie, operate da un kaiju che viene a malapena contenuto nella vana speranza che il problema possa risolversi da sé. Paradossalmente quando Godzilla raggiunge il suo ultimo stadio di evoluzione e le cose iniziano a farsi serie (momento in cui entra in gioco l’esercito statunitense, giusto per rimarcare anche la dipendenza militare dal governo a stelle e strisce) la pellicola perde di carica, pur in un tripudio di effetti speciali e di enfasi emotiva che porta gli outsider, come è evidente fin dal principio, a risolvere la situazione.

L’efficacissima catena di comando

“Godzilla assume dunque i contorni di un contrappasso vivente, una specie di guardiano della natura che interviene per porre rimedio a uno squilibrio nell’ordine delle cose che si origina non solo dai bombardamenti atomici della guerra, ma anche dagli esperimenti con armi nucleari nel Pacifico”, afferma George Rohmer nell’imprescindibile Guida da combattimento ai mostri grossi de I 400 calci, e non manca nella pellicola di Anno un riferimento a come la genesi del kaiju sia da ricercare nelle peggiori espressioni della società umana (nel caso specifico lo sversamento di rifiuti radioattivi nella baia di Tokyo): per una volta però il mostro viene messo in ombra da un sistema molto più ingombrante, altrettanto lento nei movimenti ma ancora più spaventoso, non tanto nella sua capacità di creare danni quanto nella sua palese incapacità di farvi fronte, ed è proprio questa caratteristica a rendere Shin Godzilla una visione doverosa anche per chi, come me, non ha mai frequentato granché (ad esclusione del prescindibile Godzilla contro i robot) la saga che vede protagonista la creatura ideata dal produttore Tanaka Tomoyuki.

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Racconto in musica 160: La decisione (Oslo Tapes – Staring at the sun before goin’ blind)

Qui a Tremila Battute non pensiamo che sia tutto bianco o nero, che si possa trovare la soluzione ad un problema senza sondare tutta la scala di grigi nel mezzo. Oggi però vogliamo giocare a questo gioco, far finta che l* artist* si possano dividere in due categorie: quell* che fanno sempre la stessa cosa e quell* da cui ti puoi aspettare di tutto.

Usciamo dal seminato della musica indipendente per utilizzare il più grande esempio della prima categoria: gli AC/DC. Provo una certa forma di rispetto per loro, e sono sicuro che i fan sfegatati riusciranno a trovare mille sfumature fra lo stile dei primi album e quello degli ultimi, ma per un profano come me (che è comunque uscito per un lungo periodo della sua vita con un amico che in macchina metteva tutti i loro dischi) la carriera della band australiana è una lunga coazione a ripetere (giusto per usare dei paroloni), un perpetrare musicalmente il canovaccio che a loro evidentemente dà un sacco di soddisfazione. Dall’altro lato del ring abbiamo Mike Patton, uno capace di fare successo con una band che già ha cambiato faccia un bel po’ nel corso degli anni (i Faith No More) per lanciarsi al contempo in esperimenti jazz/grind con quell’altro pazzo di John Zorn, creare un progetto che flirta col rap (i Peeping Tom), tirar su band seminali come Mr. Bungle, Tomahawk e Fantômas, fare un disco di cover di brani italiani degli anni 60 e doppiare una specie di demone nel videogioco The Darkness (uno dei motivi per cui me l’ero comprato); come lo ingabbi questo qua? Tutta questa premessa, questo ragionare per estremi, mi serve a dire che se dobbiamo mettere per forza gli Oslo Tapes in una delle due categorie questa sarebbe sicuramente la seconda.

Avete presente il classico amico su Facebook che non sentite mai? Quello che avete aggiunto, o lui ha aggiunto voi, per qualche motivo che negli anni diventa quasi oscuro, ma di cui comunque ricordate il nome. Il musicista abruzzese Marco Campitelli per me è uno di quegli amici, salvo che ricordo per quale motivo siamo in contatto: sono quasi sicuro di aver recensito un disco dei The Marigold, band di cui ha fatto parte negli anni passati, e sono sicuro di aver ascoltato parecchi dischi della DeAmbula Records, etichetta di cui è il fondatore e che vive e lotta insieme a noi ancora oggi. Sapevo anche che aveva fondato gli Oslo Tapes, ma non mi ero mai avvicinato al progetto prima dell’uscita dell’ultimo disco, Staring at the sun before goin’ blind: da lì è nata la curiosità di scoprire qualcosa di più sulla creatura di Campitelli e Amaury Cambuzat (già fondatore di band storiche del panorama indipendente come Ulan Bator e faUST), nata nel 2011 a seguito di un viaggio nella capitale norvegese. Ci metto un paio d’anni il duo per licenziare il primo disco, OT (un cuore in pasto a pesci con teste di cane), in cui già si vede che l’ibridazione fra i generi è un’imperativo per Campitelli e Cambuzat: l’album, uscito per DeAambula ma oggi ospitato sul profilo Bandcamp di Dischi Bervisti, passa con leggerezza da suggestioni alla Massimo Volume allo shoegaze, dalla dilatazione del post-rock a sfumature acustiche più intime, ma tutto sembra ancora incasellato in comparti precisi, senza troppe commistioni. Al disco collaborano un sacco di ospiti (citiamo per dovere di cronaca Nicola Manzan e Gioele “Herself” Valenti), mentre la formazione live vede l’ingresso al basso di Mauro Spada (che registra anche la seconda traccia, Attraversando), componente che rimarrà fisso nella formazione sempre mutevole del progetto.

Nel 2015 la produzione del secondo disco degli Oslo Tapes vede la collaborazione di un nugolo di etichette (oltre a DeAmbula salgono sul carrozzone Riff Records, Santa Valvola Records, ToTeN ScHwAn, Ridens Records e la compianta Dreamin Gorilla, che tanti bei dischi mi ha donato negli anni), e l’ambizione sale col numero di label coinvolte: Tango Kalashnikov è ancora una volta frutto del lavoro di Campitelli e Cambuzat con svariati ospiti e collaboratori, con il batterista Federico Sergente (già membro degli stonerosi Zippo) che funge da vero e proprio terzo elemento della band, ed è un viaggio più oscuro che prende tanto dall’avanguardia nordeuropea ma non solo, giocando a mischiare le influenze e mantenendo come punto fisso solo la voce riverberata di Campitelli. Passano parecchi anni prima che quest’ultimo e il fido Cambuzat riprendano in mano il progetto, e questo accade nel 2021 con l’uscita di ØR (pubblicato dalla storica etichetta berlinese Pelagic Records), un disco che passa ancora oltre e dilata maggiormente il suono della band, sempre ibridando suggestioni diverse ma rendendole più armoniche e soffuse, fedele in questo intento alla parola norvegese che ne compone il titolo (un termine che si può molto liberamente tradurre, e mi perdonino i norvegesi e gli Oslo Tapes per questo, come “vertiginoso, confondente”). In questo terzo album Campitelli passa dall’italiano all’inglese nei testi, una scelta mantenuta anche nel recentissimo Staring at the sun before goin’ blind (pubblicato in vinile dalla statunitense Echodelick Records e dalla greca Sound Effect Records, mentre in cd, cassetta e digitale dall’austriaca Grazil Records), un disco più in continuità col precedente rispetto alle svolte operate negli anni ma comunque teso (e non poteva essere altrimenti) alla sperimentazione: brani come le iniziali Gravity ed Ethereal song esplorano i confini fra shoegaze e post-rock, Deja neu si lascia sospingere da un giro di basso morbido e trascinante, Reject YR regret alza le vibrazioni ma lascia presto spazio a Like a metamorphosis, ovvero ciò che ci si aspetterebbe dall’unione fra il romanticismo esasperato dei Cigarette After Sex e la nostalgia vintage dei Boards Of Canada… E poi il kraut rock percussionistico di Middle ground, la dilatazione ossessiva di Somnambulist’s daydream, la lenta e morbida cavalcata finale con la title track, tutto un connubio di suggestioni che delineano musicalmente la figura di un ibrido i cui confini sono porosi, non estremi quanto quelli toccati in carriera dal buon Michele Pattone ma abbastanza larghi da farci chiedere quali nuovi suoni porteranno in dote la prossima volta gli Oslo Tapes.

Staring at the sun before goin’ blind è il titolo sia del disco che dell’ultima traccia, e basta già questo a evocare scenari: la musica ci mette poi del suo, e il modo in cui procede ha stimolato la mia vena creativa verso una storia che potrebbe essere drammatica ma non è vissuta in questa maniera, la vicenda di un uomo che prima di diventare cieco decide di compiere un ultimo gesto. Quale sia questo gesto lascio a voi il piacere di scoprirlo, leggendo la storia che trovate subito dopo il brano che l’ha ispirata: buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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La decisione

Voglio che sia una mia decisione, a costo di soffrire, di far prendere fuoco alle mie orbite. Questo ho detto al dottore quando mi hanno annunciato quello che già sapevo da anni: presto sarei rimasto completamente al buio.

Sono affetto dalla nascita dalla retinite pigmentosa, un nome affascinante per una patologia dalla spiegazione molto noiosa. Pare sia ereditaria, che uno o entrambi i miei genitori me l’abbiano donata attraverso il loro corredo genetico, ma non ho mai approfondito troppo la questione: mi basta sapere che loro ci vedono benissimo, maledetti, mentre io presto rimarrò cieco. Non voglio fare il lagnoso, né cominciare con la tiritera sul fatto che la vita mi ha dato tanto: riconosco gli odori meglio di chiunque conosca, sono certo che la sensazione dei tasti sulla tastiera è un’esperienza più appagante per me che per qualche scrittore multimilionario, ma mi sta comunque sul cazzo l’idea che presto sarò privato di qualcosa e che non posso farci nulla. Quindi ho deciso, prima di passare da un eterno tramonto alla notte fonda, di farmi una bella dose di luce solare come si deve.

Signor notaio o chi per lei, mi appresto ad affibbiarmi la cecità attraverso l’osservazione diretta del sole alle dieci e quindici del diciassette di luglio corrente anno. Non starò qui a dare troppe spiegazioni, se anche lei avesse visto restringersi il mondo un pezzo per volta farebbe lo stesso: in fondo questo è un documento redatto al solo scopo di affermare che le mie scelte sono volontarie e che sono nel pieno della mia capacità di intendere e di volere, meglio buttare giù queste poche righe ora che posso ancora controllare quello che sto scrivendo invece di doverle dettare a qualcuno.

Una degli innumerevoli svantaggi della retinite pigmentosa è la fotosensibilità, per cui la luce ed io non siamo mai stati particolarmente amici. Eppure il sole mi piace, adoro il suo calore sulla pelle e i riflessi che riesce a creare sulle più svariate superfici. Dire che non ho visto un sacco di cose è un eufemismo, nonché una battuta che uso spesso con chi ha troppo poco senso dell’umorismo per rapportarsi a me senza compatirmi, ma quella grossa palla che sta a milioni di chilometri di distanza è quella con cui mi manca di più avere un rapporto vis a vis. Voglio evitare di farne una cosa epica però, finirei solo per rendermi ridicolo: mi metterò sul marciapiede con una sedia del soggiorno, a imitazione degli anziani che guardano i lavori in corso, e prima di iniziare a fare la doccia solare ai miei occhi cercherò di incrociare lo sguardo del cassiere del minimarket di fronte a casa, quello stronzo, e anche se non potrò davvero vederlo voglio almeno immaginarmelo chiedersi che cosa sta combinando quel rincoglionito di un cecato.

Cosa mi succederà? Non lo so, ma lei lo saprà già visto che aprirà questa lettera solo a fatti avvenuti. Solo di una cosa sono sicuro: sarà l’ultimo spettacolo che mi capiterà di vedere nella mia vita, e voglio godermelo dall’inizio alla fine.

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Doverosi recuperi dal 2023: O monolith degli Squid

Da parecchi anni, almeno una decina suppergiù, ci sono due dischi a cui torno spesso quando mi passa la voglia di ascoltare sempre e solo qualcosa di nuovo: Young machetes dei compianti Blood Brothers (compianti nel senso che si sono sciolti, i componenti che io sappia stanno tutti bene) e Slow focus dei Fuck Buttons. Sono dischi che, in maniera completamente diversa, appagano la mia sete di varietà, di costruzione semplice e allo stesso tempo cervellotica delle canzoni, di qualcosa in cui perdermi ogni volta come fosse la prima. Posso dire con certezza che stanno nella mia top ten degli album migliori mai ascoltati e sono fra le poche esperienze musicali che mi fanno dire “eh, ne facessero più spesso di dischi così”, li adoro anche nelle loro imperfezioni e forse anche per questo: le imperfezioni stanno lì a dimostrare che chi li ha creati e suonati non pensava ad altro che alla Musica, con la M maiuscola, e non al pubblico che ne avrebbe fruito. Quando ho ascoltato per la prima volta, in colpevolissimo ritardo (è uscito nel giugno scorso), O monolith dei britannici Squid per una volta sono riuscito a ritrovare quelle stesse sensazioni, ed è questo il motivo per cui inauguro il 2024 di Tremila Battute parlandovi di un album dello scorso anno, introducendolo parlando di album di dieci e più anni fa.

Degli Squid non sapevo niente fino a inizio gennaio. So ancora poco, visto che ho ascoltato solo qualche brano del precedente Bright green field e niente dall’Ep d’esordio Town centre, ma quel poco non mi ha preparato psicologicamente all’esperienza. Il buongiorno però si vede dal mattino, come dice un famoso detto non sempre veritiero, e allora già l’inizio di Swing (In a dream), brano d’apertura del disco, fa promesse che vengono poi mantenute alla grande: un minuto scarso per passare con nonchalance da una tastierina d’atmosfera a un incastro di chitarra, basso e batteria (a cui si aggiunge pure una meravigliosa tromba) che stravolge quello che sembra essere l’andazzo, creandone fluidamente un altro che poi verrà stravolto ancora e ancora, sempre lasciando l’impressione che ci sia una sorpresa dietro l’angolo e che sarà quella giusta. Un buon brano può essere comunque uno specchietto per le allodole, anche quando finisce in caciara dopo aver mantenuto alta la tensione con strofe mai uguali e ritornelli che ti tirano dentro come pochi, ma questo è il caso in cui le cose vanno per il verso giusto e quando arriva Devil’s den si capisce già che qui ci sarà da divertirsi.

Sono in cinque gli Squid, Ollie Judje (voce e batteria), Louis Borlase (chitarra, basso e cori), Anton Pearson (chitarra, basso, percussioni e cori), Laurie Nankiveli (basso, fiati e percussioni) e Arthur Leadbetter (tastiere, archi e percussioni), e basta già la voce di Judge a tradirne la provenienza dalla perfida albione. Alla voce “genere” wikipedia mi dice subito post-punk ma è riduttivo, imbrigliante, e il fatto che escano per un’etichetta dedita alla ricerca sonora (nel bene e nel male) come la Warp Records dovrebbe già stabilire che non è tutto lì e anzi. Devil’s den inizia sussurrata, un arpeggio claudicante di chitarra ad accompagnare la voce, poi arrivano brevi bordate in quelli che potremmo chiamare con molta fantasia ritornelli e una tastiera acida e malata per portarci verso un mondo schizofrenico, in cui il tiro si alza sempre più e la crescita sembra infinita (altro che il capitalismo) salvo che poi si chiude di botto e passiamo ancora ad altro. Sono bravi a portare al parossismo le loro idee gli Squid, a salire con dinamiche calcolate al millesimo per ottenere l’effetto più dirompente, ma sono bravi anche a variare il tono e riportarti giù per poi farti schizzare un’altra volta, in maniera diversa eppure simbiotica: Siphon song fa esattamente questo, rappresenta l’anello di congiunzione fra gli Air e il noise e ci mette i suoi bei minuti per rivelarlo, passando dalla vocina vocoderizzata a un connubio di chitarre impazzite e cori affastellati uno sopra l’altro, poi cala di botto e comincia a risalire, senza l’intenzione di ritornare a dov’era arrivata ma semplicemente dicendoti “ah sì, ci eravamo dimenticato che potevamo fare anche questo”, e allora lo fanno. Post-punk? Sì, se Nick Cave e i suoi The Birthday Party si fossero drogati (ancora) di più (e non sto dicendo che gli Squid si droghino).

Sono narrazioni in note quelle della band nata a Brighton, merito di musiche che si sposano alla perfezione con la camaleontica voce di Judje e con testi allusivi e inquietanti, mai chiari nel loro delineare scenari che forse è meglio non esplorare a fondo. Il vocalist principale della band si trova a suo agio in ogni situazione, che sia il monocorde crescendo di After the flash o l’alternarsi di ammiccamenti e improvvisi squilli in Undergrowth, brano che si apre con un clamoroso giro di basso che ti pompa il sangue nelle vene e continua nonostante la meravigliosa distrazione di una chitarra zoppicante, messa lì apposta per dare fastidio nella maniera il più appagante possibile. Gli Squid sanno anche essere pettinati e orecchiabili, questo inizio lo dimostra e fanno altrettanto i frammenti più ammiccanti di Green light, dove la band si traveste efficacemente da The Strokes, e l’inizio di The blades, uno dei pezzi più migliori del disco, che li mostra così tanto indie fino a che non iniziano a strapparsi i vestiti di dosso arrivando dopo continui saliscendi a un punto in cui una coltre di fiati da giorno del giudizio in un vecchio west steampunk accompagna Judje che sbraita come un predicatore folle di persone con le braccia spalancate pronte ad essere potate come vecchi fili d’erba (scusate dovevo dirla tutta d’un fiato, chissenefrega delle virgole): nel caos che si crea ci sta anche che il finale sia sussurrato in un silenzio relativo, deludente per il modo in cui ti toglie il boccone di bocca ma adorabile nel suo fregarsene della tua delusione.

O monolith sembra il frutto di sessioni e sessioni di improvvisazione tanto sregolata quanto ragionata, e il modo più adatto di esemplificarlo è probabilmente After the flash. La sesta traccia del disco inizia nella maniera più secca e scarna possibile, sospinta dolentemente avanti dal cantato monocorde cui accennavo più in alto e da un riff semplice e ipnotico, una ripetizione che sale di dinamica quanto la tensione, ma quando ti aspetti l’esplosione gli Squid invece interrompono le trasmissioni, salvo riprenderle con un synth che emerge ad infondere di luce angelica il tutto, anche quando voce, chitarra e il codazzo di strumenti a seguire tornano a farsi vivi, sempre ossessivi, sempre malignamente in agguato come la tromba che entra e si fa pian piano dissonante, facendo cadere a pezzi l’impalcatura di una impossibile gloria. Svolte del genere non le pensi razionalmente, non puoi arrivare in sala prove e la prima cosa che ti viene in mente è questa: serve tempo per sperimentare, lasciarsi andare a tutto ciò che ti può venire in mente… O forse chissà, è stato tutto davvero naturale e fluido e oso sperarlo, perché vorrebbe dire che dalle mani di questi cinque inglesi può venire fuori qualsiasi cosa anche in futuro.

Tutto perfetto? Mi verrebbe da dire di sì, in tutte le svolte improvvise e assolutamente azzeccate che prende O monolith, curve a U e invasioni di corsia comprese, ma la verità è che l’ultimo brano del lotto è una parziale (parzialissima) delusione. Ma non è colpa del brano in sé, trascinato da una sezione ritmica intricata e morbida al tempo stesso che nel finale sfocia in una malevola marcia inquisitoria in cui le voci all’unisono dei membri fanno sembrare rassicurante il coro dei freaks dell’omonimo di film di Tod Browning, quanto del titolo: se chiami una canzone If you had seen the bull’s swimming attempts you would have stayed away alzi l’asticella delle aspettative al massimo, e non era facile soddisfare la drammaticità epica e banale della storia che mi ero creato in testa. Per il resto ho solo un dispiacere: quando a fine anno mi chiederanno qual è stato il mio disco preferito dei dodici mesi che verranno temo che dovrò rispondere con un disco dell’anno precedente.

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Racconto in musica 159: Gli allergici (Calcutta – Natalios)

Tremila Battute nasce (e tuttora sopravvive) come blog/aspirante rivista letteraria che vuole far dialogare narrazioni brevi e musica indipendente, ma se per le narrazioni c’è un’ovvia selezione la musica non è che mi debba piacere per forza. Amo scoprirne di nuova, ma sono molti i casi in cui ascolto qualcosa che non conoscevo e scopro che potevo anche farne a meno, e pure fra l* artist* che hanno avuto il loro racconto dedicato ce ne sono tant* che non mi hanno colpito, nonostante le parole che ho speso per descriverne il più professionalmente possibile la carriera. Ad esempio c’è un artista di cui anni fa sentii girare un sacco il nome, ma come spesso capita quando qualcosa diventa un fenomeno molto ampio (e sì, questo è snobismo, al di là del fatto che non si riesce ad ascoltare tutto) lo guardai da lontano. Molto da lontano. Se non fosse che poi, anni dopo, mi ritrovai al Woodoo Festival ad un concerto dei Gazebo Penguins e loro facevano da apripista all’artista in questione, che io ancora guardavo da molto lontano ma che presto avrei visto molto da vicino. E io giuro che solo lì, dopo qualche concerto di quella piacevole giornata di musica, scoprii che Calcutta era quello di Oroscopo, una canzone che ancora adesso se la ascolto non riesco a non pensare “ma chemmerda”. A Natale siamo tutti più buoni, ma oggi è la vigilia e spero mi concederete di essere onesto: il concerto comunque fu piacevole, e da allora Calcutta l’ho guardato sempre un po’ da lontano ma con quello sguardo consapevole che sta a dire ok, qualcosa di piacevole ti è uscito fuori, ma SO COSA HAI FATTO L’ESTATE SCORSA (che poi ormai è qualche estate fa).

A farmi parlare di Calcutta è stata Cristina Nori, una collaboratrice della prima ora visto che il suo Mare nero è il ventitreesimo racconto in musica pubblicato su questo blog. Attiva nel mondo letterario fin dalla fine degli anni novanta, durante i quali una sua poesia viene selezionata nell’antologia Genovantasei a seguito della partecipazione all’omonimo premio (la cui giuria era presieduta da un certo Edoardo Sanguineti) e alcuni suoi testi vengono rappresentati durante la Biennale dei giovani artisti di Torino del 1997, Cristina nel 2014 fa parte della giuria del Premio delle lettrici della rivista Elle. Nel 2016 il suo racconto Lettera a Leiji Matsumoto viene rappresentato al Festival delle lettere di Milano e nello stesso anno collabora all’antologia Scriviamo un’altra storia – Perché di silenzi, talvolta, si muore (Albatros Edizioni), mentre nel 2018 si mette in proprio e pubblica con la casa editrice Suigeneris la raccolta di racconti Diario di una molecola psicoattiva. Cristina è anche un’amica, in quanto collaboriamo insieme fin dal 2020 a quella bella realtà che è Read And Play (ma lei è arrivata prima) e nel 2022 ho avuto il piacere di curare insieme a lei l’antologia delle seconda edizione del concorso letterario Note d’inchiostro, edita dalla casa editrice marchigiana le Mezzelane (in cui compare anche un altro nome noto agli habitué del blog, ovvero Andrea Bruccoleri). La sua ultima apparizione editoriale è datata 2023, quando ha partecipato alla raccolta Live! – Racconti di vita e concerti di Arcana Edizioni (curata da Davide Morresi) con il racconto Angel rat: un buon preludio al suo ritorno, essendo un’antologia che ha come tema portante la musica dal vivo.

Arcana Edizioni, guarda un po’ i casi della vita, è anche la casa editrice che ha pubblicato nel 2018 la biografia di Edoardo D’Erme, intitolata Calcutta. Amatevi in disparte, un titolo che è già manifesto programmatico di una poetica sensibile e bislacca al tempo stesso, intrisa di Battisti e dello spirito disilluso e disimpegnato del nostro tempo che a volte è constatazione semplice di come vanno le cose, mentre a volte è una comoda scusa per lamentarsi correndo sul posto. Di certo D’Erme fermo non ci è però rimasto dal 2007 a oggi, passando attraverso la formazione di band fallimentari e rumorosissime (che sarei stato curioso di sentire) nella sua Latina prima di sfociare nell’indiepop con il progetto Calcutta, inizialmente una band vera e propria formata con Marco Crypta. Quest’ultimo nel 2011 decide di andarsene, portandosi dietro anche la sezione ritmica: Calcutta diventa così il moniker di D’Erme, ora un cantautore che attraverso l’etichetta Geograph Records pubblica il suo primo album già l’anno dopo, senza perdere tempo. Di Forse…, così come del successivo Ep The sabaudian tape (2013, uscito per la netlabel Selvaelettrica e prodotto, scritto e registrato con Stefano “Trapcoustic” Di Trapani) io non mi accorgo per niente (e la loro uscita sconfessa la teoria di Matteo Bordone secondo la quale Calcutta butta fuori un disco solo quando il Frosinone è in Serie A, citando una sua successiva hit), ma evidentemente alla Bomba Dischi hanno antenne più lunghe e sensibili delle mie e nel 2015 lo mettono sotto contratto, accompagnandolo all’uscita del secondo disco Mainstream già sul finire di quell’anno.

Mainstream di rumore ne fa molto più delle band fallimentari della prima fase di carriera di D’Erme, sarà per quell’aria un po’ dimessa che tutto evoca tranne una rockstar, sarà per l’intimismo stralunato delle canzoni, sarà anche per la produzione e l’aiuto in fase di arrangiamento di Niccolò Contessa de I Cani: il successo grosso arriva però qualche mese dopo, a maggio 2016, quando il famigerato duo Takagi & Ketra produce l’altrettanto famigerata Oroscopo e Calcutta diventa un nome speso su tutte le radio nazionali e pure in tv, ad esempio a Quelli che il calcio, proiettando D’Erme in un altro campionato dove, va riconosciuto, riesce a giocare senza scomporsi più di tanto. Ci gioca a modo suo, un po’ come l’indimenticato Dario Hübner citato nel titolo di una canzone del suo terzo album Evergreen (2018), ma a giocare assieme a lui sono nomi sempre più importanti (un po’ come il Bisonte quando se ne andò al Milan) visto che D’Erme inizia a scrivere canzoni per e con gente come Elisa, J-Ax e Fedez, Francesca Michielin e anche “mummie di merda” (citando il mitico ex batterista degli One Dimensional Man, Dario Perissutti, durante una premiazione di anni e anni fa) come Loredana Bertè (ma anche con amici meno altolocati come Davide Panizza dei Pop X). Essere famosi, come insegna in questi giorni la mia vicina di casa Chiara Ferragni, significa anche essere soggetti al passaggio di qualche shitstorm, e pure D’Erme la deve attraversare quando vien fuori che per il capodanno 2018 nella sua città d’adozione, Bologna, il Comune lo paga cinquemila euro per… Curare una playlist natalizia da trasmettere attraverso gli altoparlanti del centro, il che non sarà come il milione di euro scucito a Balocco ma oh, sossoldi!

Io l’ho fatta molto breve, ma di Calcutta ne sapete molto probabilmente più di me e una ricerca veloce sarà probabilmente esauriente come non riuscirò ad essere io dilungandomi troppo. D’altronde vi sarete accort* che è da poco uscito il suo quarto disco Relax, proprio quando il Frosinone è tornato in Serie A per l’ennesima volta, e mentre in radio risuona 2minuti e i suoi brani vengono streammati dibbrutto (quante doppie!) sulle piattaforme online lui continua a portare in giro le sue canzoni, come ha fatto nel recentissimo tour che questa settimana, guarda un po’, l’ha portato a Milano: io l’ho saputo solo dopo, ma in questo caso posso soprassedere che tanto ho già dato.

Natalios è un brano che non so esattamente dove collocare nella discografia di Calcutta, visto che mi appare unicamente all’interno di una compilation a tema del 2014 o come bonus track dal vivo in una delle svariate edizioni speciali di Mainstream. La solitaria e ben poco festiva notte di Natale evocata dal cantautore di Latina nel racconto di Cristina si trasforma nel manifesto programmatico di un gruppo di allergici alla festività, fra babbi natale tristemente appesi ai balconi e le solite canzoni trite e ritrite che non riusciamo più ad ascoltare senza che ci venga l’orticaria. Trovate la loro storia subito dopo il brano che l’ha ispirata, a me non resta che darvi appuntamento a gennaio e augurarvi, oltre a un buon riposo dalle fatiche lavorative (ma non lasciate solo alle donne l’incombenza della tavolata natalizia!), buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Gli allergici, di Cristina Nori

Permetteteci di presentarci: siamo gli allergici al Natale.

Iniziamo a sentire acidità di stomaco dopo Halloween, quando nei supermercati compaiono i panettoni farciti di creme fosforescenti a forma di abete, cometa o corna di renna. Qualche anno fa il reflusso ci prendeva dopo l’Immacolata, ma oggi che il commercio ha divorato ogni minimo senso del sacro il bisogno di Maalox si fa vivo a metà autunno.

Per carità, ci piacciono i canditi, però a quarti, nella cassata siciliana.

Siamo colti da orticaria a sentire la playlist delle canzoni natalizie. All I want for Christmas, Jingle bells e Santa Baby alle nostre orecchie hanno tutte lo stesso suono, quello di un punteruolo sulla carrozzeria originale di un Dino Ferrari del 1970.

Certo, amiamo Mariah Carey e Michael Bublé, ma quando cantano altro.

Sbuffiamo con l’aspirapolvere in mano mentre i familiari spargono in salotto gli aghi dell’abete di plastica e i cocci delle palline di vetro bavaresi, ché ogni anno ne cade qualcuna. Sopportiamo i cumuli di polvere sulle statuine del presepe, quelle di terracotta della mamma quando era piccola, l’ovatta delle pecorelle e il muschio puzzolente raccolto nel bosco per rendere il tutto più realistico.

Taglieremmo la fune ai Babbi Natale impiccati ai balconi, perché – credeteci – non danno l’impressione di consegnare doni ai bambini. Noi ne ricaviamo l’immagine di un suicidio, al massimo di un’effrazione di domicilio.

Siamo quelli che odiano la schiuma del Natale, l’insensata finzione della felicità, la compulsione a dimenticare la realtà.

Il nostro momento più nero fu la pandemia. Ci facevano star male quei maledetti arcobaleni con scritto “Andrà tutto bene”. Nessuno poteva prevedere cosa sarebbe stato, neppure ostinati individui adulti che esponevano lenzuola rainbow.

Signori, lasciate che vi diciamo una cosa: andrà tutto bene è una frase che funziona per i bambini dell’asilo, che hanno bisogno di essere sostenuti e rincuorati. A quell’età un piccolo inganno può starci. Dalle elementari in poi, però, si torna alla realtà, ché prima la guardi in faccia e meglio è. Non va sempre tutto bene e se vuoi davvero migliorare le cose, tirati su le maniche e fai ciò che è in tuo potere.

Spostare i re magi giorno per giorno nel presepe è facile quanto fingere che il bambinello di Betlemme non abbia detto “ama il prossimo tuo”. Non vale perché lo disse da grande?

Forse non siamo esenti da ipocrisia, ma scaviamo per recuperare l’essenza delle cose. Alcuni di noi raccolgono cibo, altri donano vestiti, altri ancora il loro lavoro e il loro tempo. I più coraggiosi semplicemente stanno dove non c’è più nulla da fare se non restare, come faceva una piccola donna albanese partita da Skopje con le tasche vuote e un cuore enorme.

Vi sembra strano che gli allergici al Natale conoscano questa storia? Non stupitevi, anche noi sappiamo ascoltare il messaggio del neonato nella mangiatoia insieme al bove e all’asinello: senza arcobaleni, ma borbottando con le maniche rimboccate.

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Racconto in musica 158: Branchie (The Nion – Finalmente domenica)

Mi sono imposto, per sfuggire al logorio dell’ansia di risultati, di non controllare le visualizzazioni giornaliere di questo sito, ma le regole si sa sono fatte per essere trasgredite (ricordate, quando usate questa massima, che probabilmente se la ripete anche Jeff Bezos quando trova un modo migliore e potenzialmente illegale per sfruttare la propria forza lavoro) per cui ogni tanto un’occhiata la butto. E ho notato una cosa strana, ovvero che uno degli articoli che meglio ha retto alla prova del tempo e continua a essere letto o quantomeno visualizzato è quello su Spiderland degli Slint, commemorazione realizzata in ritardo per i trent’anni dalla sua uscita. Perché? Non è un tema attuale e non è un articolo recente, cosa c’è sotto? Sospetto che il signor Tommaso WordPress abbia deciso che quell’articolo fosse adatto come suggerimento generico ad ogni articolo del blog, o che sia il primo risultato che viene fuori cercando Tremila Battute su Google, o chissà quale altra motivazione avente a che fare con gli algoritmi. Se devo far parlare però la mia anima inguaribilmente romantica voglio credere che sia perché parla di una band sfigata a cui succedono sfighe in successione, che nonostante la provenienza dal buco del culo del mondo degli Stati Uniti e lo scioglimento a ridosso della pubblicazione del disco riesce comunque a fare successo, contro ogni pronostico: è il sogno bagnato di ogni musicista indipendente, ancora di più se viene dalla provincia, quello di fare successo venendo dal nulla e mantenendosi integri, puri, solo con la forza delle proprie idee, un sogno che raramente si realizza ma continua a spingerti a tornare in sala prove ancora dopo vent’anni, solo per scrivere nuove canzoni con le persone che condividono la tua passione e amen, il successo poi verrà, forse, magari, probabilmente mai. Vent’anni sono esattamente quelli che compiono nel 2023 i The Nion, la resident band della settimana, e a permettermi di parlare di loro è il graditissimo ritorno di Iacopo Innocenti.

Pistoiese classe 1983, Iacopo mi aveva mandato il suo secondo racconto ancora prima che riuscissi a pubblicargli il primo. Impiegato di giorno e scrittore di notte, che descritto così sembra un supereroe, ha pubblicato fra il 2010 e il 2021 i due romanzi Quarto di secolo ed Era destino (e chissà che i suoi racconti su questo blog non possano evolvere nel terzo, occhio ai collegamenti: il primo lo trovate qui) e spero che presto suoi racconti invadano la lit-web.

Dopo averci fatto tornare negli anni 90 parlando delle Pornoriviste Iacopo ha deciso di rimanere più vicino a casa, precisamente nella Montecatini Terme dove i The Nion si sono formati. Lascio a lui la presentazione della band, visto che la conosce e gli vuole un gran bene.

“Scrivere canzoni, condividerle suonando in giro. In un’epoca in cui la musica dal vivo è percepita come un sottofondo e, soprattutto, è associata quasi esclusivamente alle cover band o tribute band. Esibirsi di fronte a un pubblico che ci rimane male in primis perché il gruppo ha fatto pezzi propri e, sebbene abbia infilato un paio di cover in scaletta, non hanno suonato quella bella bella di Vasco, oppure quell’altra dei Coldplay, quella lì col ritornello ganzo.

Nonostante ciò, continuare a salire sul palco e metterci grinta e voglia di divertirsi.

Perché la musica, semplice ascoltatore che non capisce nulla, è stare al mondo volentieri, e a volte diventa addirittura salvezza.

E se riesci a trasmettermi almeno un po’ di questo, allora siamo già a posto.

Ai The Nion voglio un gran bene, perché ci riescono.

Gruppo rock del pistoiese, nati nel 2003 come duo acustico, hanno attraversato numerosi cambi di formazione fino a giungere a quella attuale, che vede Phil alla voce, El Mazzo al basso, Francesco alla chitarra e Simone alla batteria.

Hanno all’attivo tre album e due EP, tutti autoprodotti.

Il pezzo scelto, Finalmente domenica, tratto dal loro primo disco, Atto di protesta (2016), deve il titolo all’omonimo film di François Truffault. Parla di un’attesa, del ritorno di un amore da lontano che, nel giorno della festa, tra l’ozio e la predica, potrebbe finalmente diventare reale.

Anche questo racconto parla di attesa, ma non di qualcuno, bensì di una svolta che non arriva mai e che conduca a un’esistenza diversa, più serena e soddisfacente.

Ma, incapaci di condurre la propria vita verso una rivoluzione, anche minuscola, nella notte delle attese per eccellenza, la vigilia di Natale, si addormenta il dolore come si può.”

Anche in questo caso ho poco da aggiungere se non che questo racconto avrebbe meritato, per la sua collocazione temporale interna, la pubblicazione a ridosso del Natale, visto che una tradizione avviatasi in corso d’opera preveda un racconto a tema per la festa a cui sono interessato parecchio perché almeno resto una settimana a casa da lavoro: caso vuole però che settimana prossima ci sarà un altro racconto a tema natalizio, per cui cominciate a godervi questa vigilia sui generis passata cantando alla tazza del cesso non son degno di te e, come al solito, buon ascolto e buona lettura a voi.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Branchie, di Iacopo Innocenti

Dalla finestra del bagno si insinuano le luci intermittenti delle stelle comete, installate dal Comune per tutta Via Acquerugiola, la nostra Main Street. Sembrano ghigliottine, pronte a mozzare le teste dei passanti.

E io sono qua, con il Sahara al posto delle fauci, le tempie che pulsano e la bocca che sa di sbocco. Abbracciato al water manco fosse un amico incontrato dopo decenni alla reunion dei Bee Hive. A ricomporre il puzzle della cena della vigilia, coi pezzi a galleggiare nella tazza, cullati dai succhi gastrici.

Poco fa, subito dopo il live, come un tappo di Blanc de Blancs sciabolato via durante un matrimonio di quattrinai, sono schizzato al Bar Biturico. Mi ci voleva, per reggere un altro Natale.

Diventa sempre più pesa, con Banana e Teo morti, Luchino in galera e Giò, disfatto dagli psicofarmaci, che a malapena riesce a parlare. Poveraccio, era il più intelligente di tutti. Avrebbe potuto lasciare il quartiere come hanno fatto gli altri, invece è rimasto e ci ha rimesso l’anima.

Il quartiere ti aggroviglia alghe appiccicose alle caviglie e ti trascina verso il basso, a pochi centimetri dal fondo. E laggiù, per restarci, servono le branchie.

Se non le hai finisci nei casini, oppure prendi le medicine, o bevi. A me piace il Brancamenta, d’inverno schietto, d’estate con ghiaccio e acqua tonica.

Se invece le branchie le hai, allora vai avanti, respiri e aspetti.

Ecco, un’attesa è finita da poco. Il Natale è arrivato.

Possiamo tornare a giocare a “facciamo finta che”. Che non siamo pieni di debiti, che non vorremmo vedere in putrefazione l’ottanta per cento delle persone che stanno a tavola con noi, che non facciamo un lavoro di merda per uno stipendio da miseria, che non sentiamo questo continuo malessere, una specie di fastidio doloroso in tutto il corpo, come se andassimo avanti a sbattere i nervi contro spigoli sempre più appuntiti.

E quell’attimo di serenità, dato dal conoscere ogni lampione, ogni sasso, ogni muretto, al punto che pare che tutti vogliano accarezzarti e ricordarti che questa, alla fine, è casa tua, quell’attimo se ne va subito affanculo. E siccome non hai le branchie, fai sempre più fatica ad aspettare che ritorni.

Ci riempiamo di anticipi di attesa perché siamo una generazione senza visione.

Ora riesco solo ad aspettare che il mondo smetta di essere un tagada tipo quello di Marina di Bibbona, che queste piastrelle a scacchi bianchi e neri tornino al loro posto.

Balzella tutto ancora ma siamo a fine corsa, tra poco riuscirò ad alzarmi, ricompormi e vestirmi.

Tra non molto sarà giorno e tocca a me.

D’altronde la messa qualcuno dovrà pur dirla, stamani.

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Il male come malattia: Relic

Giuro che non lo faccio apposta. Certo, creare un blog/aspirante rivista letteraria che fa della musica indipendente il suo motore trainante è voler fare consapevolmente parte della nicchia della nicchia, ma questa volta volevo davvero parlare di qualcosa che fosse un minimo d’attualità. Dell’Ep che riunisce I Cani e Baustelle, ad esempio, avevo già una mezza bozza d’articolo in mente, ma poi mi è sembrata debole e parlare di soli due brani (per quanto belli) era un po’ uno spreco. Avevo pensato di parlare di El Conde, il film di Pablo Larrain che immagina un Augusto Pinochet redimorto e succhiasangue che decide di farla finita una volta per tutte, ma non mi ha convinto granché e mentre pensavo a come argomentare con cognizione di causa le mie impressioni è andata a finire che ho visto un altro film su cui invece di cose da dire ne ho trovate un sacco. Così, a una decina di giorni da Natale, vi beccate un articolo che parla di un film horror e manco recente, bensì del 2020.

Relic mi ha fatto pensare al perché si ha paura e, soprattutto, di cosa si ha paura. Lo stratagemma della casa isolata in mezzo alla natura, nella quale un gruppo di personaggi si ritrova a tu per tu con un male misterioso, non riesce ormai più a colpirmi dopo averla vista utilizzare in troppe maniere, raramente con maestria e con le idee migliori sfruttate di chi ci ha fatto sopra del metacinema (grazie di esistere Quella casa nel bosco); se però mi metti in un posto che non conosco e di cui non riesco a capire le regole allora sì che, se non mi hai spaventato, perlomeno hai calamitato la mia attenzione. Il film di Natalie Erika James (regista nippo-australiana qui all’esordio “sul lungo”, dopo una gavetta fatta di svariati corti, video musicali e spot televisivi) è un po’ entrambe le cose di cui sopra: c’è la casa isolata, quella di nonna Edna (Robyn Nevin), raggiunta a causa della scomparsa della donna dalla figlia Kay (Emily Mortimer) e dalla nipote Sam (Bella Heathcote); ci sono però anche i segni di un male i cui modi e scopi non sono così decifrabili e la cui genesi non viene mai spiegata chiaramente, solo degli accenni a una baita dismessa i cui vetri sono stati installati in casa e ad un bisnonno folle che la abitava, il che butta dentro di nascosto anche un tema portante del film, quello dell’ereditarietà.

Foto di famiglia con muffa

La nonna scomparsa non rimarrà tale per molto tempo, ma il suo ritorno più che risolvere i problemi li aumenta. Edna alterna momenti di lucidità ad altri in cui è affetta da amnesie, scatti d’ira e intrattiene inquietanti conversazioni con qualcuno o qualcosa, e capire se dietro i suoi deliri c’è solo il progredire della malattia che la affligge o qualcosa di ancora più preoccupante è il compito in cui vengono lentamente coinvolte Kay e Sam. Il rapporto fra le tre donne è una delle cose migliori del film, tre generazioni con problemi latenti che non ci vengono mai esplicitati direttamente, solo suggeriti da gesti, atteggiamenti e mezze frasi: figlie contro madri e madri contro figlie ma tutto senza esagerare perché ci sono anche i sensi di colpa che agiscono, quelli di Kay principalmente che sta pensando di mettere sua madre in un ospizio, scontrandosi con una figlia desiderosa invece di aiutare la nonna trasferendosi da lei (“non è così che funziona?” dice Sam durante una discussione, “tua madre ti cambia i pannolini e tu cambi i suoi”) . Fra il dire e il fare c’è però di mezzo l’abitazione, una casa infettata le cui pareti sembrano ammuffire in alcuni punti e in cui succedono cose strane che si scoprono ben presto non essere solo frutto dei deliri di Edna, la quale è convinta che la casa sia più grande di quanto appaia.

“Che situazione di merda!”

Relic è, soprattutto nella prima parte, un film di spaventi inespressi, attimi in cui la tensione monta fino ad arrivare ad un climax che non la risolve. Figure sfumate che ti seguono alle spalle, rumori nella notte che sente solo una delle protagoniste, tutto un campionario di possibili jump scare che invece James utilizza per creare un clima opprimente che corre sul filo fra il probabile e l’improbabile: vince quasi sempre il primo, ma ormai la regista è riuscita a insinuarti nel cervello il germe del dubbio. C’è una sequenza del videogioco Dead Space (l’originale, nel recente remake non ho idea se sia stata inserita) che spiega bene questo tipo d’inquietudine: intrappolato in una astronave piena di ogni sorta di aberrazione, il protagonista si ritrova a percorrere un corridoio buio in cui improvvisamente si sentono urla e rumori inquietanti in avvicinamento… Che poi vanno oltre, senza colpo ferire. Il sollievo per il pericolo scampato lascia presto spazio ad altro, perché sia quella sequenza che le scene preparatorie di Relic mettono in crisi il tuo concetto di allarme, ti dimostrano che non puoi mai essere al sicuro: siamo abituat* a non aspettarci l’improbabile, meno che mai l’impossibile, ma quell’impossibilità resta sempre a macinare in un angolo della tua mente nonostante, quando mai dovesse palesarsi, saremmo probabilmente comunque inadatti a farvi fronte. È anche un film in cui il saldo fra le decisioni buone e quelle stupide pende a favore delle prime, perché può sembrarti una pessima idea andare a indagare in un corridoio buio su un rumore strano, ma sinceramente pure io farei la stessa cosa per evitare di svegliare la mia compagna se sento un rumore in un’altra stanza, contando che quasi sicuramente sarà il gatto che ha fatto cascare qualcosa (salutate Miao Tse Tung, il nuovo felino di casa Tremila Battute!): solo se c’è un vero allarme accenderò la luce, e lo stesso ragionamento Kay e Sam lo fanno molto spesso, anche se poi incappano in istinti indagatori che finiscono male prima che possano prendere la saggia decisione di tornare sui propri passi.

“Ma chi me l’ha fatto fare…”

La pellicola è anche, inutile negarlo, una metafora della malattia. Il bisnonno folle morto nella baita, che ogni tanto appare confusamente in sogno a Kay, ha trasmesso qualcosa di maligno alla casa di Edna ma allo stesso tempo le ha trasmesso qualcosa di più devastante e che ha a che fare col dna, non certo col paranormale. È un’ereditarietà della malattia più che del male, perché di fronte al mistero insolubile dell’entità marcescente che aleggia sulla vicenda non vengono meno temi come la perdita della memoria, la pietà filiale, le decisioni dolorose che sembrano inevitabili e i sacrifici che si pensa di poter fare e che invece sono un peso troppo grande da portare. Questo non impedisce alla regista di spaventare, perché soprattutto da metà film in avanti la vicenda si sposta sensibilmente verso quel posto sconosciuto e senza regole di cui accennavo verso l’inizio dell’articolo e seguire Kay e Sam in quel percorso (soprattutto Heathcote sfodera un’ansia e un terrore credibilissimi) è un’esperienza angosciante. Il punto forte di Relic, oltre a un cast azzeccato e ad una buona scrittura, è proprio la capacità di non reggersi solo sulla comoda metafora ma creare le basi di una mitologia oscura dietro al male che aleggia sulla casa, lasciando intatta la potenza delle riflessioni sull’umana decadenza e accompagnandole con qualcosa di inquietante che non ti verrà mai spiegato chiaramente, e va benissimo così.

Il finale, forse debitore di un altro horror australiano seminale come Babadook, risolve in maniera fin troppo educata l’intera vicenda, risultando coerente coi temi affrontati nell’arco della pellicola ma stridente per le reazioni dei personaggi alla situazione. Piacerà a qualcun* e non piacerà ad altr* (è anche uno dei pochi momenti in cui il tema dell’ereditarietà viene sottolineato col pennarellone delle grandi occasioni), ma non intacca la qualità di un film con cui vi consiglio vivamente di riprendervi dopo il pranzo di Natale, che un’abbuffata di buoni sentimenti non è che faccia per forza male ma mischiarla con del male marcescente è pur sempre interessante. Da notare, come ultima cosa che non sarà sfuggita a voi lettor* attent*, che il film parla di cura ed è totalmente (e, si intuisce, volutamente) al femminile: i maschi nella famiglia di Edna, Kay e Sam sono morti o assenti, gli unici uomini che si vedono sono lo sceriffo che dirige inizialmente le (infruttuose) ricerche e due vicini, padre e figlio, che per motivi condivisibili si guardano bene dall’avvicinarsi ad Edna. Cambiano i tempi e cambiano le mode ma persino il cinema fatica a raccontarci storie del genere con protagonisti maschili (anche nel recente The father, di cui avevo parlato qui, è una figlia a farsi carico dell’anziano genitore), specchio di una società in cui noi uomini deleghiamo spesso e volentieri il lavoro di cura: speriamo che in futuro non ci sembri così strano vedere un simil Relic che non preveda donne nel cast.

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Racconto in musica 157: Halloween (Lili Refrain – 666 burns)

Vi ricordate di André 3000? A inizi anni duemila (lo so, sembra un gioco di parole) con il suo compare Big Boi andava fortissimo e gli Outkast sembravano lanciati verso una luminosa carriera… Schiantatasi praticamente subito, ma altamente remunerativa, perché tutt* ricordiamo almeno Hey ya!. Dopo lo scioglimento del duo tutt* si aspettavano una carriera solista, tutt* attendevano un disco, poi gli anni hanno cominciato a essere troppi e la gente ha cominciato a dimenticarsi di André 3000 almeno fino a quando, inaspettatamente, quell’album è arrivato. Solo che non era quello che la gente si aspettava da lui.

Questa storia l’ho scoperta tramite questa puntata del podcast Tienimi Bordone di Matteo Bordone (che è solo per gli abbonati de Il Post, ma se siete fra i primi dieci a cliccare sul link dovreste riuscire ad ascoltarla), in cui il giornalista e conduttore radiofonico parla anche dell’improbabile “drumless edition” di Random access memories dei Daft Punk, e all’inizio mi sono messo a ridere. Una grande promessa/realtà dell’hip hop che si mette a fare un disco ambient con inserti di flauti? Davvero? Pure lui deve essersi fatto la domanda, visto che la prima traccia di New blue sun si intitola I swear, I Really Wanted To Make A “Rap” Album But This Is Literally The Way The Wind Blew Me This Time ma, appunto, è quello che gli passava per la testa e il problema nasce dal fatto che noi lo ignoravamo: pensavamo che il signor André Lauren Benjamin fosse uno che faceva solo un certo tipo di musica, e invece in quei diciassette anni di silenzio è cambiato.

Ma come cavolo sono finito a parlare di hip hop da CLASSIFICA in un blog di musica indipendente? E che c’entra con Lili Refrain, musicista sperimentale di Roma? Ve lo spiego un po’ più in basso, subito dopo avervi presentato l’autore del racconto della settimana Gabriele Bitossi.

Viene dal fumetto Gabriele, nato a Cecina nel 1996. Nel 2021 si è infatti diplomato in Sceneggiatura alla Scuola Internazionale di Comics, e negli anni ha collaborato e tuttora collabora con numerose realtà come Spaghetti Comics, Kleiner Flug, Coltello Comics, Future Fiction e Radici. Appassionato di scrittura a tutto tondo, ha frequentato anche corsi di scrittura tenuti da Vanni Santoni e Graziano Gala e a ottobre di quest’anno si è laureato in Italianistica a Pisa con una tesi sul rapporto tra letteratura italiana e droga. Fra i molti suoi progetti che potete trovare con una rapida ricerca online noi vi segnaliamo in particolare Oltre la collina, reinterpretazione a fumetti dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters che Gabriele ha scritto e curato col supporto del collettivo Misticanza.

Con Lili Refrain non si arriva certo agli estremi toccati da André 3000, ma chiunque ascoltasse il suo omonimo esordio del 2007 e ascoltasse poi Mana, il disco edito nel 2022 sotto Subsound Records, si ritroverebbe catapultat* in scenari completamente diversi uniti dalla voglia di sperimentare che contraddistingue tutta la carriera della musicista romana. La chitarra è sicuramente l’elemento portante della gran parte della sua carriera, lo strumento con cui crea strutture di loop affascinanti e oscure che pescano dal metal, dal blues, dalla psichedelia, dal folk e dall’ambient, un mix difficile da descrivere a cui si aggiunge l’elemento vocale. Refrain sperimenta a tutto tondo e anche la voce diventa uno strumento nelle sue composizioni, un cantato che non ha parole intellegibili e che diventa sempre più presente e importante lungo la sua carriera. Il secondo album 9 esce nel 2009 per le etichette Trips Und Traume e Three Legged Cat ed espande ulteriormente questo cosmo, ma è a mio umile parere Kawax (2013), il primo disco per Subsound Records, a segnare un punto di svolta. Le atmosfere delle canzoni di Refrain si fanno più dilatate, esoteriche, la voce crea melodie che portano in un mondo magico allo stesso tempo affascinante ed inquietante e alla cui malia ci si abbandona sognanti. Al disco collaborano vari musicisti come Nicola Manzan, Valerio Diamanti dei Dispo e Inferno Sci-Fi Grind’n’Roll e Roberto Cippitelli dei Juggernaut (band quest’ultima che a Tremila Battute conosciamo bene), e per sette anni rimane l’ultima opera della musicista, che nel frattempo collabora ad altri progetti e continua a portare in giro la sua musica in Italia e in Europa, mantenendo la struttura della one woman band e unendo alla capacità di gestire più strumenti contemporaneamente (attualmente utilizza tre diverse loop station, come afferma fra le altre cose in questa interessante intervista) performance piene di pathos (a cui ahimè non sono ancora riuscito ad assistere), con l’apoteosi del concerto tenuto nel 2020 di fronte alla piramide che sorge al centro del Labirinto della Masone (di cui vi avevo accennato qualcosa qui).

Proprio il 2020 vede la fine del lungo silenzio, interrotto dall’uscita di Ulu. Il disco contiene una sola traccia di ventidue minuti divisa in tre “movimenti” (Gula, Terra 2.0 e Mul, ognuno contraddistinto da una propria atmosfera ma sapientemente amalgamato con gli altri), registrata in presa diretta al 16th Cellar Studio di Roma, un ritorno fuori dagli schemi che esplicita ancora una volta la libertà compositiva dell’artista (i cui brani, per sottolinearne la componente evocativa, sono stati usati da vari registi come colonne sonore di film, documentari e spettacoli teatrali) e la sua capacità di seguire la corrente ovunque la porti. Si arriva così a Mana, un disco in cui la chitarra viene oscurata dai synth, un cambio radicale che spariglia le carte in tavola ma sembra assolutamente naturale se si è seguito tutto il percorso: nel disco Refrain suona un numero imbarazzante di strumenti (imbarazzante per me che so suonare solo la chitarra, e male), dal gong all’air conditioner metal tube (?), passando anche per strumenti esotici come il taiko, un tamburo tipico giapponese. La musicista continua a mietere consensi ovunque (basti dire che nel 2022 si è esibita sul palco dell’Hellfest in Francia di fronte a 85000 persone), è da poco tornata da un tour di dodici date nel Regno Unito (con una tappa pure a Dublino) al fianco dei Death Cult, giunto dopo due tour fra Europa e UK che l’hanno vista accompagnarsi per mesi agli Heilung prima e ai Cult poi: io aspetto invece che ritorni nel milanese per non perpetrare l’errore di perdermi un suo spettacolo dal vivo.

666 Burns è la settima traccia di Kawax, un’incedere sempre più oscuro comandato da un arpeggio ipnotico che resta sempre in sottofondo a dettare il ritmo, anche nel momento in cui distorsioni apocalittiche schiantano le orecchie verso l’inferno che il titolo promette. Il ritmo e l’atmosfera della canzone sono parsi a me e a Gabriele ideali per un racconto che si svolge lungo più serate di Halloween, coinvolgendo tre personaggi le cui interazioni sono avvolte da un mistero insondabile e sempre più torbido. Trovate il racconto subito dopo il brano che lo ha ispirato, più in basso: a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

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Halloween, di Gabriele Bitossi

Per Halloween ci piace travestirci da mostri perché possiamo mostrarci per quello che siamo, senza compromessi. Festeggiamo in locali addobbati per l’occasione e balliamo, ognuno con le proprie storture, con le proprie mostruosità, e ridiamo, ridiamo, ridiamo, fino a mattina. Siamo felici perché una volta all’anno possiamo vederci per quello che siamo.

Meditiamo sul futuro tra zucche incise e scheletri deformi. Proprio un anno fa F. è entrata in tesi e, durante una delle nostre solite feste, ci ha confessato di voler uccidere il suo relatore. L. aveva in mano una falce perché era vestita da Morte e l’accostamento con quanto detto da F. ci fece ridere, forse troppo. Io ero truccato come uno zombie, ma non trovavo nessi con la situazione.

La festa di quest’anno si svolge all’interno di un locale sulla spiaggia, il mare è in tempesta e non potrebbe essere più coerente. F. è in lacrime, piange perché il relatore, quella stessa mattina, è stato trovato morto: le cause del decesso sono ignote. Proviamo a calmarla, le facciamo bere qualcosa e fortunatamente si riprende. Dopo pochi minuti è già sopra un tavolo, indiavolata.

L. si avvicina e mi sussurra che è stata lei a ucciderlo. Perché sì, risponde al mio sguardo sbalordito. Brandisce ancora la sua falce e mentre continua a guardarmi cammina all’indietro, verso la folla. A me, povero zombie, non rimane altro che conquistarmi un angolino e ballare, da solo.

Dopo un po’ F. ritorna da me, lo sguardo pieno d’odio. Dice di avercela con quella troia di P. per aver sfiorato R., nonostante questi abbia ballato tutta la sera con lei. Come cazzo si permette, esplode. Alle sue spalle compare L., ascolta affascinata la nostra conversazione. Io mi tappo le orecchie e cerco un altro rifugio ma queste due mi seguono ovunque vada. F. con la sua logorrea, L. col suo silenzio.

Chiudo gli occhi, mi concentro solo sulla musica e immagino la festa dell’anno prossimo. Posso già ascoltare la voce di L. che mi confesserà di aver ucciso R., mentre F. ballerà sfrenata dopo essersi ripresa dalla crisi, in cerca di altre lacrime.

Li riapro e vedo L. che mi fissa e sorride, già pronta per il prossimo Halloween.

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