Ho spesso parlato del mio obiettivo di far diventare questo blog un qualcosa di collettivo, una sorta di rivista online che si faccia allo stesso tempo promotrice di suoni alternativi alla massa. Il fatto che abbia scritto trenta dei trentacinque racconti finora usciti potrebbe essere segno che A) nessuno mi s’incula o B) bisogna dare tempo al tempo, e il mio inguaribile ottimismo è stato rinvigorito da alcuni invii spontanei negli ultimi giorni che mi danno modo di farmi un po’ da parte e prendere il ruolo di semplice “selezionatore musicale”: il racconto di questa settimana è infatti di Pietro Pancamo, un testo il cui contenuto angelico mi ha fatto quasi subito risuonare nella mente le note del cantautore e violinista Michele Gazich.
Pietro Pancamo è un poeta, novelliere ed editor professionista, la cui carriera è stracolma di progetti, collaborazioni e pubblicazioni. Incluso nell’antologia Poetando (Aliberti) curata da Maurizio Costanzo, Pietro ha poi pubblicato negli anni una breve raccolta di versi attraverso il blog Poesia della RAI e le sillogi poetiche Manto di vita, edita da LietoColle, e Il silenzio stonato (Edizioni Thyrus), con la quale ha vinto il premio Città di Torino ed è arrivato secondo al concorso letterario Trofeo Medusa Aurea, indetto dall’Accademia internazionale d’arte moderna di Roma. Suoi testi sono apparsi su una quantità enorme di testate, da quotidiani nazionali (Corriere della sera, Repubblica, La stampa) a testate di settore (Carmilla, IF. Insolito & Fantastico, Il paradiso degli orchi, Cronache letterarie, finanche alla rivista Diogen di Sarajevo, fra le più importanti d’Europa). Ha fondato e diretto il portale culturale L(‘)abile traccia ed è stato direttore editoriale della rivista internazionale Niederngasse, caporedattore della sezione poetica dell’e-zine Progetto Babele e redattore del blog letterario Viadellebelledonne, oltre a condurre i programmi radiofonici The big world of poetry and fiction per l’emittente italofona di Madrid Radio Big World e Good mo(u)rning Italy! per l’ex piattaforma culturale di Hong Kong Beyond Thirty-Nine (fondata dal romanziere della Mursia Editore Angelo Paratico). Al momento lo potete trovare attivo come curatore della sezione poesia del mensile italo-olandese Il cofanetto magico e come conduttore della rubrica letteraria (Pod)castaway su Maratea Web Radio.
La prima volta che ho sentito il nome di Michele Gazich è stato in qualità di illustre ospite di questa bellissima canzone del duo sperimentale Barachetti/Ruggeri, a cui è seguito a breve termine l’ascolto del suo album La via del sale del 2016. La carriera di Gazich parte però da molto più lontano ed è stracolma di esperienze e collaborazioni, tanto che riuscire a condensarle in questo articolo è impensabile: basti dire che ha suonato in più di cinquanta album, partecipato a tour in Europa e negli USA con formazioni sinfoniche classiche, collaborato con cantautori e cantautrici italian* (Massimo Bubola, Massimo Priviero) e internazionali (Michelle Shocked, Mary Gauthier, Eric Andersen, Mark Olson), composto le musiche di scena per spettacoli teatrali (fra i tanti il suo sito menziona Il sogno del fuoco, in collaborazione col Piccolo Teatro di Milano, Elogio della follia e Un cantico), collaborato alla colonna sonora del film Le ragioni dell’aragosta di Sabina Guzzanti e realizzato un progetto legato ad Albert Camus (in collaborazione con Eric Andersen e col pittore Oliver Jordan) sfociato in varie esibizioni in giro per il mondo e nella realizzazione del disco Shadow and lightof Albert Camus nel 2014. Questo e altro tutto al fianco di una carriera cantautoriale iniziata nel 2008 che ha portato finora alla realizzazione di ben otto dischi e un Ep (tutti usciti per l’etichetta FonoBisanzio e di cui i primi tre, ovvero Dieci canzoni di Michele Gazich, Dieci esercizi per volare e Il giorno che la rosa fiorì, realizzati col supporto della band La nave dei folli), l’ultimo dei quali si intitola Temuto come un grido, atteso come un canto ed è uscito nel 2018. Realizzato sull’isola di San Servolo a Venezia, l’album racconta la storia degli ebrei deportati dall’isola l’11 ottobre 1944, ribadendo la forte componente divulgativa di un cantautore che nei suoi dischi inserisce spesso dei fili conduttori, come quello della via del sale quale mezzo per ragionare sul presente nel già citato La via del sale.
Un altro dei temi cari a Gazich è quello degli angeli, tanto che nel 2015 ha eseguito presso il Santuario di Monte Sant’Angelo in Puglia un concerto, intitolato Chi vede l’Angelo? Musiche e parole pellegrine, dedicato a queste figure e in particolare incentrato su quella dell’Arcangelo Michele. Proprio per la loro presenza anche nel racconto di Pietro Pancamo, nonché per una certa vena aulica del testo e l’affine tema del canto, mi è venuto spontanea l’associazione con L’angelo ubriaco, contenuta nel disco live Verso Damasco: potete guardare al racconto come una specie di anticipazione di ciò che sarà il destino dell’angelo cantato da Gazich, o forse un suo sogno, ma spero che il connubio fra i due artisti vi risuoni come è capitato a me. Trovate il racconto subito dopo il link al brano, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).
Serafino preposto al coraggio, di Pietro Pancamo
Gli angeli si diplomano al Conservatorio Astronomico perché studiano la musica che le sfere celesti producono ruotando. Fanno l’analisi armonica degli accordi supremi che, una volta, anche gli uomini eletti avevano la forza e il diritto di ascoltare.
Gli esami sono molti, però i miei studi sono a buon punto e fra poco l’esame conclusivo mi darà il titolo che sogno tanto: quello di Maestro!
Nel frattempo, grazie alle mie doti vocali, già occupo la carica di tenore-capo nella gerarchia lirica del Conservatorio: sono forse il più bravo tra gli allievi di “Esercitazione corale”. E poi, dirlo mi riempie di gioia, lavoro come assistente di un angelo cherubino che scende ogni giorno in Terra, posandosi delicato sulla quercia di un bosco dolce e campagnolo, per educare gli uccellini al canto. Li abitua a portare il cinguettio in maschera e a sorreggerlo con il diaframma; non tutti riescono subito, anzi nessuno: perciò hanno bisogno di me, “serafino preposto al coraggio” che deve esortarli a ignorare la delusione.
Mi capita, spesso, di calmare i picchi, tanto irascibili da abbandonarsi a voli isterici e rabbiosi, dopo un acuto sbagliato. Per sfogare il rammarico dell’errore, percuotono il becco addosso agli alberi, facendosi (io credo) un male diavolo!
Allora intervengo: abbraccio con la mano grande il loro corpicino scosso dai nervi, accarezzo piano la testolina invasata di furore e fischietto per loro qualche melodia celeste; così, lentamente, l’ira si placa.
Una lezione dura da mattina a sera e in fondo non è pesante: diverse pause concedono sollievo alla stanchezza. Io mi apparto, negli intervalli, su di un ramo nascosto e mi svago a pensare. Se un’aria d’opera comincia a formarsi nella mia immaginazione, la scrivo per appunti sulle foglie pentagrammate che gli uccelli usano a mo’ di spartito e, magari, cerco di farla somigliare a quelle dei compositori più illustri. No, non Rossini o Mozart, come ritengono gli uomini, bensì Giove, Saturno e Urano, come noi angeli sappiamo benissimo!
E lo sa anche l’invidiosissimo Satana: lui pure gradisce talvolta un giro nei boschi; sale dall’Inferno e va a rintanarsi nel buio intricato delle macchie più fitte. Nella tenebra contorta dei rami bassi, in quella notte artificiale, trova l’ispirazione per musiche blasfeme: con spirito malvagio architetta note sacrileghe, bestemmie sinfoniche, allucinazioni sonore da far eseguire alla sua orchestra d’orchi.
Però i concerti non sono mai un granché ed anzi, in Paradiso, gli angeli ironizzano inventando dialoghetti briosi. È facile sentirli scherzare: “Ho fatto una volata all’Inferno per assistere a un’esibizione dell’orchestra d’orchi.”, “Ah sì? E chi suonava? Il primo violino?”, “No, il primo venuto: sai, era una cosa improvvisata…”.
Sorrido fra me per le battute ingenue dei colleghi alati, mentre io e il Maestro cherubino salutiamo gli uccelli agitando le ali (è sera, per oggi la lezione è finita) e torniamo lassù, nel Conservatorio Astronomico, a riascoltar le stelle.
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So che è un’associazione difficile da fare, ma se ci si pensa un attimo di punti in comune fra Bojack Horseman, serie animata giunta da qualche mese alla conclusione dopo sei stagioni, e La regina degli scacchi, miniserie autoconclusiva di sette episodi, se ne possono trovare parecchi. Il più semplice e banale è il fatto che siano entrambe prodotte da Netflix, ma anche a livello di temi ci sono delle affinità: sia Bojack che Elizabeth Harmon, la scacchista interpretata da Anya Taylor-Joy, hanno un serio problema di dipendenze, per non parlare delle figure materne che ne hanno condizionato non poco la vita. Le storie dei due personaggi, cominciate in maniera simile, divergono però completamente analizzando il loro percorso e, soprattutto, il modo in cui le loro vicende finiscono, sintomatico dell’andamento delle due serie. Contando che sto per parlare di finali darò per scontate molte cose e, ovviamente, ci saranno spoiler, per cui se non volete rovinarvi l’esperienza tornate su queste pagine dopo averle recuperate.
La regina (incontrastata) degli scacchi
Se c’è una cosa che non è mai in dubbio, durante la visione de La regina degli scacchi, è che la protagonista riuscirà ad avere successo. La serie creata da Scott Frank e Allan Scott, pur girata con molto mestiere e abilità nell’orchestrare gli avvenimenti, fallisce proprio laddove dovrebbe essere più forte, cioè farci credere che la vittoria finale non sia scontata. Da quando Elizabeth mette la mano sugli scacchi la prima volta si contano ben poche partite in cui l’esito è veramente in bilico (la prima con il Benny Watts di Thomas Brodie-Sangster, e le prime due con il Vasily Borgov interpretato da Marcin Dorociński), guastando anche il realismo con cui le partite sono state simulate (fra i consulenti della serie compare il leggendario campione sovietico Garry Kasparov).
L’unico ostacolo fra Elizabeth e il successo è rappresentato da sé stessa, dalle sue dipendenze e dal fantasma della madre, una figura di cui sembra seguire profeticamente le orme in un percorso che porta verso la follia e la morte. Peccato che anche il lato autodistruttivo della protagonista sia in qualche maniera “annacquato”, lasciandocela vedere sì nel pieno di un processo di logoramento fisico e mentale (soprattutto dopo la seconda sconfitta con Borgov) ma negandoci l’esperienza della sua riabilitazione, che avviene sempre in maniera veloce e con pochissimi strascichi. Anche la sopra citata sconfitta con Borgov, quella che ci viene presentata con un flash forward proprio all’inizio della serie, serve solo a dimostrare che il cammino è in salita ma la posta in palio è assicurata: dopo una notte di bagordi come quella che ci viene fatta immaginare una persona normale faticherebbe a stare in piedi, figuriamoci giocare a scacchi, altro segno che le qualità della protagonista sono troppo sbilanciate per poter trovare un avversario degno di questo nome.
Le dipendenze e le nevrosi della protagonista vengono definitivamente sconfitte proprio prima dell’ultimo scontro, la sfida con Borgov nella sua Russia. Qui la serie perde secondo me il controllo dell’ambientazione, facendo reagire i personaggi in maniera poco realistica. Gli scacchisti russi ci vengono mostrati inizialmente come una squadra, giocatori che studiano e si allenano insieme, un particolare che Watts ci tiene a far notare a Elizabeth. Questo è storicamente vero, tanto che in alcuni campionati del mondo il loro fare squadra ha portato addirittura ad accuse di patteggiamenti fra i giocatori per favorire il migliore fra loro: fu il caso del Torneo dei candidati di Curaçao del 1962, dove Bobby Fischer (campione geniale dalla vita sregolata, probabile ispirazione per il personaggio di Elizabeth in quanto unico statunitense a laurearsi campione del mondo) accusò tutto il team russo di essersi accordato per patte veloci in modo da potersi concentrare meglio contro avversari non sovietici, favorendo la vittoria finale di Tigran Petrosjan.
Questo tipo di competizione scorretta non appare nella serie, e non sarebbe un problema se non fosse che la statunitense Elizabeth, in piena guerra fredda, non solo viene osannata dal pubblico (forse la novità di una donna che si fa strada in uno sport quasi esclusivamente maschile è più forte della sua appartenenza al nemico, facciamocela andare bene) e venerata dagli avversari subito dopo essere stati battuti (storicamente gli scacchisti non prendono così bene le sconfitte, anche escludendo dal novero il bizzoso Fischer), ma si permette anche di lasciare la scorta di un agente FBI preposto al suo accompagnamento (e fin lì incollato a lei come un francobollo) per farsi un giro da sola nella capitale del nemico, finendo a giocare con degli arzilli vecchietti russi sotto la neve dopo essersi laureata campionessa (grazie anche all’aiuto di tutti i suoi amici riuniti insieme che la chiamano la sera prima del grande scontro). Un finale esageratamente trionfale, evitabile, ma in fondo affine a quello che è stato il percorso della serie: come dicevo all’inizio, la vittoria di Elizabeth non è mai stata in discussione, tanto vale prendersi la libertà di farle violare protocolli di sicurezza fin lì ferrei che tanto la credibilità è già stata compromessa lungo la strada.
Bojack Horseman, il mezzo cavallo più amato\odiato d’America
C’è un punto, nella prima stagione di Bojack Horseman, in cui il protagonista si mette a leggere la biografia che ha commissionato a Diane Nguyen. In italiano il titolo del libro è stato tradotto letteralmente come “Un mezzo cavallo”, ma è molto più interessante andare a vedere cosa significa il titolo della versione inglese: One trick pony gioca infatti sulla natura equina del protagonista, ma soprattutto dice molto di lui, un’artista che ha saputo fare solo una cosa. Già dalla prima puntata in fondo Bojack ci viene presentato come un fallito, di successo certo ma ben lontano dalla fama che pensa di meritare (ottenuta con una sola sitcom all’attivo, Horsin’ around, il suo “one trick”), e tutta la serie non farà altro che seguire le sue vicissitudini alla ricerca dell’amore del pubblico, un obiettivo che pensa di meritare tanto quanto cerca di sabotarlo con atti di vero e proprio masochismo.
Mai serie è riuscita meglio a coniugare il divertimento col dramma più cupo. Iniziando a vedere Bojack Horseman ci si aspetta solo le risate, magari anche stupide e volgarotte, ma a fianco di queste emergono sempre di più situazioni che coinvolgono morte, depressione, dipendenza e chi più ne ha più ne metta. Variando il tono di puntata in puntata e mescolando sapientemente i comprimari, dal super ottimista Mr. Peanutbutter alla gatta in carriera Princess Carolyn fino all’ingenuo coinquilino Todd Chavez e alla ghostwriter complessata Diane Nguyen, il creatore della serie Raphael Bob-Waksberg va sempre più a fondo delle complessità di ogni personaggio e soprattutto di Bojack, un protagonista per cui non si sa se tifare o meno contando che distrugge tutto ciò che trova sul suo cammino. Waksberg, in un fantastico episodio intitolato Stupido pezzo di merda, ci fa entrare letteralmente nella testa del cavallo, visto che per tutta la durata saremo accompagnati dai suoi pensieri mentre combina disastri a destra e a manca.
Se la freccia de La regina degli scacchi è perennemente direzionata verso l’alto, con qualche lieve o drastico calo a cui si associano altrettante repentine risalite, quella di Bojack Horseman è un saliscendi continuo, un alternarsi fra la speranza che il protagonista abbia finalmente il suo riscatto e quella che si inabissi completamente, smettendo almeno di infliggere (ed infliggersi) dolore. Ogni passo verso la redenzione porta sempre a un ritorno ai vecchi vizi, e quando anche Bojack ci mette dell’impegno sono le circostanze che sembrano congiurare contro di lui: arrivati agli ultimi episodi la freccia comincia a puntare inesorabilmente verso il basso, lasciandoci intravedere un finale amaro che, per alcuni, sarebbe stato quello ideale.
Non è andata però così. Contro ogni previsione Bojack si salva per un pelo dalla morte (l’ultima puntata si apre proprio con un’encefalogramma piatto, salvo farci poi vedere che a morire è il personaggio di Horsin’ around e non il cavallo in carne e ossa), negando a chi si aspettava un finale tragico la sua soddisfazione, mentre allo stesso tempo delude le aspettative anche di chi sperava in un finale positivo, visto che a Bojack viene inflitta una condanna a 14 mesi di carcere. Un finale che non soddisfa nessuno è esattamente quello più coerente per una serie del genere, che rifugge dal facile contentino verso chi esigeva una chiusura definitiva: nella vita reale non tutte le storie finiscono come dovrebbero, e che Bojack sopravviva nel mezzo del guado, ancora irrisolto, è quanto di più realistico ci sia. L’ultima inquadratura, dopo che Diane dice “qualche volta la vita fa schifo e poi continui a vivere”, è su lei e Bojack intenti a guardare le stelle, in evidente imbarazzo, senza più niente da dirsi: l’anticlimax definitivo, assolutamente perfetto.
La regina degli scacchi, tratta da un romanzo di Walter Tevis, è nata come miniserie ma potrebbe avere un seguito, frutto del successo ottenuto da pubblico e critica. Bojack Horseman, nonostante gli stessi strali, è stata chiusa da Netflix anche se gli sceneggiatori avevano idee per proseguire. Questo cosa ci dovrebbe insegnare? Date un finale ben definito alle vostre storie, possibilmente positivo…ma ricordate che non c’è miglior soddisfazione dell’avere successo remando contro ogni cliché.
Milano, gennaio 2018: al Serraglio si svolgono le semifinali del concorso nazionale Sotto il cielo di Fred, e io sono lì A) perché suonano gli Eugenio in via di gioia, scoperti pochi mesi prima a quel fantastico festival che si chiama Balla coi cinghiali B) perché la finale di un concorso significa comunque ascoltare tanti gruppi che non conosco C) motivo principale, ho invitato a uscire una ragazza che frequenta con me un corso di scrittura. Sul palco, fra i vari gruppi che si alternano per un paio di pezzi a testa, ce n’è uno che mi rimane impresso per una personalità ben riconoscibile: suoni che passano con naturalezza dal delicato al muscolare, belle atmosfere e testi di un romanticismo magniloquente che riescono a non sembrare ridicoli nonostante frasi come “abbracciami mio candore/nessuna pietà/più forte da sanguinare/di felicità”. Il bilancio della serata è che mi dimentico di votare (pessimo) e mi becco un due di picche, ma il destino ha i suoi tempi e le sue trame: qualche giorno dopo scopro di avere in casa il disco dei Malmö, ovvero la band di cui sopra, da recensire (promosso a pieni voti), informandomi vedo che hanno passato il turno e, dopo mesi di tentativi a vuoto, riesco a mettermi insieme alla ragazza di quella sera. Come direbbero gli Offlaga Disco Pax quella sera vinsero quasi tutti, e il quasi è dovuto al fatto che il Serraglio è stato purtroppo tra le vittime illustri della pandemia.
I Malmö nascono nel casertano, nell’autunno del 2014, attorno ad alcune idee sonore di Davide Ruotolo (voce e chitarra), a cui si uniscono Vincenzo De Lucia (piano e chitarra), Marco Normando (basso e cori) e Vincenzo Del Vecchio (batteria e glockenspiel). La loro prima demo, Palloni aerostatici, arriva a breve, ed è accompagnata dalle illustrazioni di Vincenzo Del Vecchio, la cui presenza dietro al progetto grafico dei lavori della band rimarrà una costante. Iniziano a farsi le ossa nei live, riuscendo ad arrivare anche alle finali nazionali del MEI e aprendo per Fast animals and slow kids, Lo stato sociale e Be forest, finché nel 2016 avviene un incontro importante per la loro carriera: quello con Massimo De Vita, artisticamente noto come Blindur, che li accompagnerà lungo il percorso che porterà al primo album, Manifesto della chimica romantica, uscito a ottobre 2017. Sono già presenti qui i tratti che caratterizzano il loro sound, una sorta di post-rock piegato alle regole del pop senza che questo ne sminuisca l’impatto, un modo di concepire la musica personale che pervade anche questa cover di Rino Gaetano che potete trovare sul loro bandcamp. Squadra che vince non si cambia, così a gennaio 2020 con Blindur alla produzione, lo stesso Massimo De Vita e Paolo Alberta dietro alla registrazione e al mix e Birgir Birgisson (storico collaboratore dei Sigur Rós) al mastering viene realizzato Rotazione rivoluzione, secondo disco della band da cui di recente è stato estratto questo fantastico video, diretto da Kylie Hayashi e ispirato dai documentari Disney “Destinazione Luna”.
Quando ho ascoltato per la prima volta Dai diari del giovane Jurij, quarta traccia di Rotazione rivoluzione, mi si è subito stampata in testa l’immagine di Marina Abramovich e Ulay, compagni di vita e di arte per dodici anni, che decidono di separarsi con una performance: camminare dai punti opposti della Muraglia Cinese fino a incontrarsi a metà strada, per poi continuare ognuno con la propria vita. Quel “Arrivederci tra un miliardo di passi” con cui si apre la canzone mi ha dato l’ispirazione per una storia in cui il percorso è fondamentale e quel romanticismo magniloquente, di cui parlavo in apertura dell’articolo, cerca di esplodere al meglio delle potenzialità che sole Tremila battute possono avere. Trovate il racconto subito dopo il link, buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).
Dai diari del giovane Jurij
Si piacquero fin dal primo sguardo, ma si incontrarono nel momento sbagliato: l’ultimo giorno di una vacanza al mare, al bancone di un locale a tarda notte, abbastanza brilli da parlarsi senza timidezze ma ancora troppo lucidi per non capire che quella notte non iniziava una relazione, bensì finivano le loro vecchie vite.
Lei era in viaggio con le amiche, un ultimo fine settimana di follie per festeggiare la laurea e prepararsi a un altro viaggio, più lontano, verso nuovi traguardi e una carriera da costruire. Per lui, appena uscito da una lunga relazione, il percorso da compiere era interiore: aveva guardato ciò che era diventato, ciò che pensava fosse giusto essere fino a poco prima, e non gli era piaciuto quel che aveva visto.
Non si scambiarono numeri di telefono, mail o il contatto su qualche social network, ma prima di separarsi al mattino si fecero una promessa: trovare il tempo, durante la loro ricerca di sé stessi e della strada giusta, di perdersi senza meta ogni giorno, darsi il tempo necessario allo scoprire qualcosa di nuovo prima dell’arrivo di una nuova alba.
Iniziarono così le loro peregrinazioni, fra strade affollate e boschi silenziosi, nazioni diverse e percorsi sempre nuovi, anche solo per andare o tornare da lavoro, guardando col naso all’insù per ignorare i confini tra realtà e fantasia. Scoprirono la bellezza degli androni dei palazzi, del sole riflesso sui vetri dei grattacieli, mangiarono cibi mai provati e conobbero persone con cui non avrebbero mai pensato di avere qualcosa in comune. Passarono anche dei guai, avventurandosi in vicoli da cui era meglio tenersi alla larga, sfidando condizioni atmosferiche avverse, dando fiducia a chi non la meritava.
La scoperta, il non accontentarsi, l’adrenalina che suscitava il nuovo, tutto questo divenne una droga per entrambi. La noiosa stabilità che qualcuno cercò di imporgli negli anni fu sempre vissuta come una costrizione, portando a rotture necessarie che non mancavano di lasciare un vuoto dentro. In quei momenti di tristezza e malinconia si pensavano, senza poter conoscere i rispettivi destini, né se la promessa era stata mantenuta.
Entrambi sentirono raccontare una storia, quella di un uomo e una donna che avevano condiviso vita e arte, lasciatisi per sempre dopo aver camminato per chilometri l’uno incontro all’altra. Speravano in qualcosa di simile per loro, ma all’inverso: dopo un lungo cammino su linee divergenti incontrarsi, finalmente, con qualcuno che avrebbe condiviso il percorso da lì all’eternità.
Aspettarono per anni quel momento, fra soddisfazioni e delusioni, scoprendo ogni giorno qualcosa di più del mondo e di loro stessi finché su una spiaggia lontana, col sole al tramonto e i riflessi della luce sulle onde ad abbagliarli, scorsero un’ombra lontana, in avvicinamento, e quando arrivarono a vedere chi c’era alla fine di tutti quei passi capirono che era il momento giusto per amare.
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Ci dev’essere qualcosa nell’aria del biellese che trasuda di frontiera. Qui su Tremila Battute ho già avuto modo di parlare dei Sabbia, band di stoner psichedelico che trasuda deserto fin dal nome, e dalle stesse zone arrivano ora gli HO.BO, band attiva dal 2017 e formata da membri di svariati altri progetti musicali. A man with a gun lives here è il loro primo album, pubblicato a distanza di un anno e mezzo dal primo Ep 2/10, e anche nelle note di questi nove brani si possono cogliere gli echi della frontiera: in questo caso, però, sono il blues e il country a farla da padrone, proiettandoci in un viaggio fra un’umanità per cui il lieto fine è spesso utopia.
Già dall’iniziale Hoboes that pass in the night si capisce che le tinte scure saranno predominanti. Ad accoglierci è infatti una voce roca e sussurrata, accompagnata da una chitarra solitaria che scandisce accordi radi, un blues scarnificato sugli hoboes, i vagabondi per scelta, che fa subito drizzare le antenne. Se ci sono due cose che non mancano certo agli HO.BO sono infatti la personalità, che emerge fin da questa breve apertura, e la varietà stilistica, che si può invece apprezzare lungo tutto l’album.
Ballate dolenti e spiritual, echi di Tom Waits e di Nick Cave, persino una parentesi bluegrass in cui compare la voce inconfondibile di Swanz The Lonely Cat dei Dead cat in a bag: il repertorio della band biellese è ampio e maneggiato con cura, accompagnato da testi di livello che ci fanno sprofondare nei meandri più torbidi dell’America e da una cura per i suoni encomiabile. Veniamo accompagnati lungo la parabola discendente di Henry, uno per cui l’unica soluzione è pensare che “two rifle shots could change his destiny”, nel rock-blues di Falling down, Henry, ci lasciamo cullare nell’illusorio ottimismo della parabola country di Smith, finito sepolto in un campo di grano a causa di uno scambio di persona (A tiny man called Smith), accogliamo le parole dello spiritual Psalm come piccole e dolenti verità di cui fare tesoro, osserviamo le vicende di una coppia mischiarsi con quelle di un rapimento finito male lungo le dolenti e scarne note di In cold blood. All’apice del percorso ci si arriva, a parere strettamente personale, con The curse of Peak Hill, un vero e proprio racconto in musica di sette minuti abbondanti, scanditi da pochi accordi dilatati sporcati dai feedback e batteria minimale cui si aggiungono, in un’escalation perfettamente orchestrata, prima il piano e poi in punta di piedi gli altri strumenti: ennesima storia che finisce male, ma con l’enfasi poetica dei grandi.
Funziona tutto in A man with a gun lives here, dalla voce di Samuel Manzoni che è semplicemente perfetta per il genere fino allo stuolo di strumenti che si alternano fra le varie tracce, dai più classici agli ottimamente inseriti banjo, cigar box guitar e l’immancabile armonica, che si palesa nella conclusiva Bones Orchard. L’album è stato registrato in analogico su nastro nello studio della band, il NOSTUDIOREC, ed esce per le etichette Kono dischi (già dietro ai Sabbia citati in precedenza) e I dischi del Minollo, un’etichetta che ultimamente proprio non ce la fa a buttar fuori dischi meno che bellissimi. Prendetevi un’ora libera e immergetevi nella musica degli HO.BO, mi e soprattutto li ringrazierete per l’esperienza: è facile, basta andare qui.
Visto che di questi tempi viaggiare è un miraggio cerchiamo di farlo con la mente, e andiamo di preciso in Corea Del Sud. Perché proprio lì? Un po’ per la voglia di esotismo, la lontana Asia che ha così tanto di diverso da noi (a parte il capitalismo, che ormai è arrivato anche lì), un po’ perché il cinema sudcoreano mi affascina da anni e grazie a Parasite (su cui avevo scritto questo articolo) se ne sono finalmente accorti in tanti, un po’ perché sono curioso di vedere se davvero lì i videogiocatori sono trattati come delle rockstar. Soprattutto perché avevo da parte un racconto basato su una canzone dei Say Sue Me, e indovinate da dove arrivano? Proprio dalla Corea del Sud e precisamente da Busan, città dove è ambientato un film che è perfetto per unire viaggio verso una meta lontana, cinema coreano e…pandemia, che contando che parla di zombi potrebbe persino farvi tirare un sospiro di sollievo per come stanno andando le cose da noi.
La storia dei Say Sue Me comincia nel 2012, quando gli amici d’infanzia Kim Byung-kyu (chitarra), Ha Jae-Young (basso) e Kang Se-Min (batteria) incontrano la cantante Choi Su-Mi in un Tea Shop e, affascinati dalla sua voce, le offrono il posto di vocalist all’interno della band, una di quelle situazioni in cui nel 99% delle volte si finisce in niente (esperienza da musicista di periferia) mentre nel caso della band coreana diventa la classica intuizione azzeccata. Tempo due anni ed esce il primo disco, We’ve sobered up, dove già si denotano le caratteristiche principali della band: la scelta della lingua inglese (Choi canta anche in coreano, ma preferisce l’inglese perché la fa sentire “meno esposta”) e il genere di riferimento, un mix di shoegaze e surf rock allegro e spensierato influenzato dalla vicinanza alla spiaggia della sala prove. Nel 2015 esce il loro primo Ep, Big summer night, e qui purtroppo la favola della band nata da un gruppo di amici con interessi comuni ha una bruttissima battuta d’arresto: il batterista Se-Min finisce in coma a causa di un trauma alla testa, evento che porta l’intera scena indie di Busan a raccogliere fondi tra i fans per pagarne le cure ospedaliere. Kim Chang-won prende il suo posto temporaneamente, cambio che diventerà definitivo nel 2019 a causa della morte di Se-Min, a cui nel 2017 la band dedica un Ep uscito per il Record Store Day. L’incidente non ferma i Say Sue Me, che fra il 2018 e il 2019 fanno uscire il secondo album (Where we were togheter, che gli frutta cinque nomination ai Korean Music Awards) e due Ep (uno di cover, It’s just a short walk, uscito anche questo in concomitanza del Record Store Day, e uno natalizio, Christmas, it’s not a biggie), oltre a suonare fuori dai confini anche in festival prestigiosi come il SXSW. È notizia di pochi mesi fa l’uscita dalla band del bassista Ha Jae-young, evento che si spera non abbia ripercussioni sul futuro di una band leggera ma con stile.
L’ascolto di But I like you mi era stato suggerito dal patron di Indie-zone Tommaso Vecchio (di cui, a proposito di indie, vi consiglio di ascoltare il disco), e da questa canzone ho tratto quello che è stato il primo racconto in musica, ripescato oggi perché A) la canzone e la band meritano B) il lavoro e i problemi alla macchina (285000 chilometri e sentirli, addio mia cara Seat Ibiza) non mi hanno permesso di lavorare bene quanto volevo ad un racconto nuovo. Nel brano trovate tutte le caratteristiche dei Say Sue Me al loro meglio, che ho condensato in un racconto che parla di cose odiose e del modo in cui si può superare il fastidio che ci provocano (N.B. la storia è stata scritta quando ancora gli assembramenti sui mezzi pubblici erano “solo” fastidiosi). Potete leggerlo sotto il link al brano, come sempre buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).
Ciò che ancora non odio
Non vorresti essere qui. Tutta questa gente ammassata, cosa ci fai in mezzo a loro? E dire che la odi, la metro. Odi qualsiasi mezzo di trasporto pubblico in realtà: gli autobus antiquati, la metropolitana affollata, il rumore del tram che passa attraverso le cuffie con cui ti anestetizzi dalle chiacchiere banali della gente, i taxi che si fermano sempre davanti agli altri e mai di fronte a te che ti sbracci. Meglio camminare, ma oggi avevi fretta e questo è il risultato.
In prossimità della fermata inizi una lunga e penosa manovra di avvicinamento all’uscita. Sgomiti fra automi con lo sguardo fisso sul cellulare, giovani dalla voce troppo alta ed insopportabili personaggi così gentili da ostacolarti mentre cercano di facilitarti il passaggio. Riesci appena in tempo ad arrivare alle porte, e quando la tua via di fuga si spalanca ti incunei fra una massa disordinata di idioti che pretendono di salire senza prima far scendere gli altri. Esci, ti allontani a fatica, e proprio in quel momento una spallata ben assestata ti fa cadere la borsa. È troppo, più di quanto tu sia abituata a sopportare, ma quando si offrono di aiutarti a raccogliere le tue cose sparpagliate per terra sfoggi un sorriso cordiale.
“Non è niente, cose che capitano”, ecco quel che ti esce dalla bocca.
Cammini per i corridoi, passando vicino ad extracomunitari che vendono ciarpame in bancarelle improvvisate e ad altri che chiedono l’elemosina, vorresti gridare Aiutiamoli a casa loro, così, giusto per vedere l’effetto che fa, ma prosegui. Sali veloce i gradini, arrivi all’aperto e la coltre di smog per un attimo ti fa mozza il respiro. Il maledetto traffico della città, aggiungilo alla lista delle cose che odi, assieme alle insegne luminose dei negozi, gli artisti di strada, i fast food, il kebab i marciapiedi pieni di mozziconi e le persone che parlano negli auricolari.
Perché ti stai facendo questo?
Lo sai benissimo. Ignora la difficoltà a respirare, il sudore che cola. Entra nel parco, cammina veloce verso la collinetta laggiù in fondo, attraversa il prato senza pensare a tutti quelli che hanno fatto cagare lì i loro cani senza raccoglierne i bisogni, ai ragazzi strafatti che hanno abbandonato i mozziconi delle loro maledette canne, alla voglia che hai di urlare Incivili del cazzo questo posto è di tutti.
La lista delle cose che odi, ci vorrebbero anni a compilarla. Faresti prima con le cose che apprezzi: i vecchi film, le camminate, i bambini. Quando non piangono o strillano, s’intende.
Oh già, e quell’altra cosa. Quella per cui oggi sei così sorridente.
Corrigli incontro, anche se rischi di inciampare a causa delle scarpe col tacco che non sopporti. Goditi lo spettacolo di quella sua orribile camicia a fiori, delle zanzare che vi attorniano, riempiti le orecchie della musica di merda che ascoltano i due ragazzini poco più in là.
E poi dimentica tutto per un lungo, indimenticabile attimo.
Bacialo. Prenditi una pausa dal mondo. Ama qualcosa, finalmente. Te lo sei meritato.
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Dopo aver parlato di ciclismo e calcio per questo terzo articolo sul legame fra musica e sport avevo già deciso di parlare di pugilato, ma non avevo deciso il modo: con i ciclisti avevo infatti cercato di rimarcare come l’argomento sia stato affrontato in maniera diversa a seconda del contesto musicale, mentre col calcio avevo lasciato perdere qualsiasi aspirazione di completezza rimarcando semplicemente alcune delle storie più particolari attorno agli eroi del prato verde. Per il pugilato ho deciso di fare la cosa più semplice, evitando anche in questo caso la ricerca della completezza: ricordare alcuni dei pugili che più sono rimasti impressi nell’immaginario collettivo, in rigoroso ordine cronologico e rimarcandone alcuni aspetti della vita (che per la biografia completa c’è sempre Wikipedia).
Jack Johnson, il gigante di Galveston
Abituati come siamo a grandi campioni di boxe afroamericani è difficile pensare a un panorama pugilistico dominato dai bianchi, eppure quando Jack Johnson (1878-1946) iniziò la sua carriera le cose erano decisamente diverse. I suoi primi incontri avvennero nelle “battle royal”, intrattenimento per bianchi in cui gli scommettitori lanciavano soldi al vincitore, mentre il passaggio al professionismo, nel 1897, gli portò un altro tipo di guai: dopo un match perso contro il veterano Joe Choynski entrambi vennero arrestati perché…boxare in Texas era una professione illegale. Da quei venticinque giorni di carcere Johnson uscì però con un allenatore, lo stesso Choynski, e iniziò a fare sul serio.
Già nel 1903 divenne campione dei Pesi Massimi, ma nella categoria riservata agli atleti di colore. Ci vollero altri cinque anni perché gli fosse concessa l’opportunità di diventare campione assoluto della categoria, in uno scontro contro Tommy Burns svoltosi in Australia, e solo nel 1910 questo risultato venne convalidato, quando Johnson sconfisse anche uno dei migliori pugili di sempre, James J. Jeffries, che già si era rifiutato in precedenza di affrontarlo per il colore della sua pelle: in un match definito “la battaglia del secolo” l’imbattuto Jeffries, ritiratosi da sei anni e salito sul ring a Reno per difendere l’orgoglio bianco (e per guadagnare parte della grossa cifra racimolata per il match), venne sconfitto in maniera perentoria dal suo più giovane avversario, sporcando così il suo score perfetto e legittimando lo status di Johnson…il che non impedì proteste a sfondo razziale un po’ in tutto il paese (pensate che in Texas le pellicole delle sue vittorie contro pugili bianchi erano vietate per timore di tumulti).
Tentativi falliti di difendere la superiorità razziale, Jack Johnson edition
Per i sette anni successivi Johnson mantenne la cintura, che perse nel 1915 a Cuba contro Jess Willard. In quel periodo il pugile di Galveston era già da due anni in esilio, perché riconosciuto colpevole (da una giuria di soli bianchi) di tratta di donne bianche per la prostituzione: la sua “colpa” era stata quella di aver comprato un biglietto del treno da Pittsburgh a Chicago per una sua ex fidanzata, Belle Schreiber, che a differenza della seconda moglie Lucille Cameron (che per una simile accusa rifiutò di collaborare con la giustizia), testimoniò contro di lui. Tornò negli Stati Uniti solo nel 1920 e venne subito incarcerato per un anno a Leavenworth, nel Kansas, dove perlomeno lo nominarono direttore atletico della prigione. Magra consolazione per un grande pugile che, dopo il suo rilascio, partecipò solo ad esibizioni, forse meno magra della grazia ricevuta nel 2018 (a 105 anni dalla condanna) dal presidente Donald Trump, alla presenza anche di svariate glorie della boxe e di Sylvester Stallone.
Johnson non c’era ovviamente più quando un notorio razzista lo perdonò per i suoi crimini, essendo morto in un incidente stradale nel 1946, e nemmeno riuscì ad ascoltare le note che Miles Davis gli dedicò nel 1971: non una canzone, bensì un intero album, che potete ascoltare al link qui sotto.
Primo Carnera, la montagna che cammina (lentamente)
Una figura controversa quella di Primo Carnera (1906-1967), per molti motivi. Primo italiano a vincere il titolo dei Pesi Massimi nel 1933, detronizzando l’allora campione Jack Sharkey, Carnera fu utilizzato come esempio dalla propaganda fascista senza aver mai apertamente aderito al partito di Mussolini (venne arruolato per soli motivi propagandistici), ma senza nemmeno aver rifiutato di sottomettersi a operazioni come la camicia nera indossata sotto l’accappatoio in un match contro il campione europeo Paulino Uzcudun: per questo motivo alla fine della seconda guerra mondiale i partigiani chiesero di giustiziarlo, e si salvò solo grazie all’intervento di Leonardo Picco, Capo di Stato Maggiore del Gruppo Sud delle Brigate Osoppo.
Certo non avrebbe potuto pensare a sviluppi simili per la sua vita il giovane carneade (trovargli vestiti e scarpe era un’impresa, tanto che per anni dovette andare in giro scalzo) che, ancora adolescente, si trasferì in Francia per lavorare come carpentiere. Fu lì, nelle vicinanze di Le Mans, che lo notò un circo itinerante, ingaggiandolo come lottatore in virtù del suo fisico già statuario: 197 cm per 130 chili. Lavorò alla stregua di fenomeno da baraccone per tre anni, ricevendo svariati soprannomi dal pubblico (fra i quali il curioso Juan lo spagnolo) e guadagnando bene, tanto che quando l’ex pugile francese Paul Journée lo notò fece fatica a convincerlo a lasciare uno stipendio sicuro: solo dopo qualche riluttanza trovò come soluzione il ritorno alla carpenteria, impiego che gli permise di frequentare la palestra dello stesso Journée.
Libero svolgimento sul tema “difficoltà a trovare scarpe adatte”
Carnera, nonostante la stazza, è sempre stato considerato un gigante buono, ma una certa ingenuità lo fece finire nelle mani di manager meno onesti di lui. Leon Sée ad esempio, che quando ancora il pugile non era passato al professionismo lo fece combattere contro un peso massimo, messo al tappeto e fatto svenire da Carnera che, per il gesto di scusarsi con l’avversario, venne ripreso in maniera rabbiosa dal manager. L’ascesa del pugile italiano in Europa fu veloce, tanto che dopo un solo anno volò negli Stati Uniti, ma rimangono ombre su quanti dei suoi incontri furono truccati: innegabile comunque che nelle 16 vittorie ottenute in quel breve periodo c’era il suo talento come ingrediente principale.
Negli States vinse addirittura tutti i primi 23 match disputati, ma si era negli anni del proibizionismo, della crisi economica e dell’ascesa della mafia italo-americana e pensare che non ci fossero combine dietro a quegli incontri (alcune assolutamente plateali, tanto che il suo secondo avversario fu multato e gli venne revocata la licenza) è impensabile. I suoi manager (a Sée subentrò in seguito Bill Duffy) lo fecero conoscere col soprannome The Ambling Alp (“la montagna che cammina lentamente), e non gli risparmiarono incontri su incontri, fra cui un primo match con Jack Sharkey nel 1931 che fu vinto nettamente dal pugile statunitense. Nel 1932, dopo che i suoi primi tre anni fra Stati Uniti ed Europa l’avevano visto quasi sempre vincitore, scoprì che il suo manager gli sottraeva la maggior parte dei guadagni: passò quindi a farsi gestire da un italiano, Luigi Soresi, che riuscì a organizzare un rematch con Sharkey, per arrivare al quale però Carnera dovette passare per uno dei momenti peggiori della sua carriera.
Il 10 febbraio del 1933 si disputò il match contro Ernie Schaaf, pugile il cui procuratore era lo stesso Sharkey, reduce da un terribile atterramento subito da Max Baer che gli aveva procurato danni irreversibili al cervello. Tutto questo si scoprì solo dopo, così quando un’inconsapevole Carnera mise al tappeto il suo avversario questi non si rialzò più: morì per emorragia cerebrale quattro giorni dopo, un evento che portò il pugile italiano al ritiro. Furono amici, parenti e la madre dello stesso Schaaf a convincerlo a rientrare, permettendogli di lì a poco di laurearsi con merito campione dei Pesi Massimi. Riuscì a difendere il titolo solo in due occasioni prima di venire sconfitto da Baer nel 1934 in un match confuso, prima e durante il quale Carnera dovette affrontare di tutto: il suo manager fu arrestato prima della sfida, lui si fratturò la caviglia dopo soli due minuti (rimanendo comunque in piedi per tutto l’incontro) e il suo avversario, durante le riprese centrali, mantenne atteggiamenti irrisori che prefiguravano quelli di un certo Muhammad Ali. Il punto sulla sua carriera a grandi livelli venne poi messo da Joe Louis nel giugno 1935, quando il giovane astro nascente (che sarebbe poi diventato uno dei migliori della storia) lo sconfisse per KO tecnico alla sesta ripresa davanti ai 60000 spettatori dello Yankee Stadium di New York.
Baer e Carnera: avversari sul ring, amici fuori
Carnera combatté ancora per anni, fino al 1946, diventando poi wrestler e apparendo in film (anche con il suo avversario sul ring Max Baer, uno dei pochi che lo andò a trovare durante la convalescenza post-frattura) e programmi televisivi. Morì a causa della cirrosi epatica il 29 giugno del 1967, 34° anniversario della conquista del titolo, nella Sequals da dove era partito per ottenere la gloria sportiva. Ha ispirato film, cocktail (pare che l’Americano sia dedicato a lui), gli sono stati dedicati un palasport a Udine, due libri e svariati fumetti, fra cui uno del leader dei Tre allegri ragazzi morti, Davide Toffolo, intitolato Carnera, la montagna che cammina.
Un primo legame con la musica, che lo ha tributato in varie maniere, ma fra le tante ho scelto questo pezzo degli Yeasayer, band pop-psichedelica di Brooklyn che nel disco Odd blood ha inserito un brano dall’emblematico titolo Ambling alp. Nel brano si fa riferimento anche al pugile tedesco Max Schmeling, grande campione negli stessi anni di Carnera, che nel 1938 si fece accompagnare da un addetto stampa del Partito Nazista prima di un’altra “battaglia del secolo”, quella che lo contrappose al già citato Joe Louis in un incontro sportivo, ideologico e politico (dopo il quale, finito con la vittoria di Louis, i due rimasero amici fino alla morte): al pari di Carnera anche Schmeling fu un mezzo propagandistico, ma mantenne sempre contro tutto e tutti il suo manager ebreo e rifiutò anche una decorazione nazista offertagli da Adolf Hitler in persona, cosa che mi fa pensare che la band di New York li consideri esempi positivi pur parlando di “mandare all’inferno i fascisti in giugno”.
Sonny Liston, il picchiatore dell’Arkansas
La scrittrice Joyce Carol Oates disse di lui che “nessuno ha mai impersonato meglio l’aura di truce minaccia del Negro per il mondo dei bianchi”. D’altronde Sonny Liston (1932-1971) aveva mille motivi per essere visto come il cattivo: da giovane aveva fatto parte di una baby gang, fu arrestato svariate volte durante tutta la sua vita (la prima, nel 1950, lo portò ad avvicinarsi alla boxe grazie all’intuizione dei due cappellani del carcere), ebbe seri problemi di alcolismo e i suoi legami con la mafia sono ben documentati, tanto che a inizi carriera pare facesse anche da picchiatore per la malavita organizzata. Nel 1962 la rivista Esquire lo mise addirittura in copertina vestito da Babbo Natale, commentando che era “l’ultimo uomo sulla terra che l’America avrebbe desiderato veder scendere dal camino”, e a quel tempo il pugile nativo di Sand Slough, nell’Arkansas, era già campione del mondo.
Di ragioni per essere una persona problematica in fondo Liston ne aveva parecchie. Nacque in una piantagione di cotone, tredicesimo di venticinque figli di un mezzadro abusivo che lo fece lavorare fin da bambino. Niente scuola per il piccolo Sonny, di cui era incerta persino la data di nascita, mentre certe sono invece le frustate subite dal padre, di cui portava ancora i segni da adulto: “da piccolo non ho avuto niente, se non un mucchio di fratelli e sorelle, una madre inutile e un padre che se ne fregava di noi”, disse anni dopo in un’intervista. Quando i suoi genitori si separarono seguì la madre a St. Louis, e qui invece di andare a scuola si diede ai furti e alle rapine con un gruppo di piccoli delinquenti. Forte già allora, immobilizzava le vittime che venivano poi rapinate dai compari, quando non ci pensava lui direttamente a tramortirle con un pugno. La sua carriera da delinquente non durò molto, aprendogli le porte del carcere a neanche vent’anni, ma fu il preludio ad una professione ben più remunerativa: nel 1952, scarcerato sulla parola dopo una campagna stampa in suo favore da parte dei giornali locali, Liston cominciò a farsi strada nel mondo della boxe dilettantistica, dopo avere imparato le basi dietro le sbarre.
Il passaggio fra i professionisti fu velocissimo, accelerato sia dall’intervento di John Vitale, organizzatore di incontri legato a doppio filo alla mafia del pugilato, sia da un ruolino di marcia che lo vide confitto solo una volta (l’avversario che lo sconfisse, “Big” George Brock, divenne in seguito un celebre cantante blues e nel 2006, con un certo orgoglio, incise la canzone I’m the man who beat Sonny Liston). Nel 1953 iniziò così il suo cammino verso il titolo, osteggiato per i suoi stretti legami con la mafia (la sua unica sconfitta nei primi anni avvenne contro Marty Marshall, pugile molto agile ma che Liston prese troppo sottogamba…anche perché “qualcuno” gli consigliò di far durare il match almeno quattro riprese) ma senza che nessuno potesse metterne in discussione il talento: al primo incontro, il 2 settembre 1953, il suo avversario durò solo 33 secondi prima di soccombere.
Se Carnera aveva problemi con le scarpe, probabilmente Liston li aveva coi guanti
A frenare la sua ascesa non furono gli avversari, ma i suoi problemi con l’alcool. Nel biennio 1956/57 fu fermato varie volte per vagabondaggio, accusato di aggressione a un poliziotto e svariate volte di resistenza a pubblico ufficiale. Le principali federazioni pugilistiche non lo vedevano di buon’occhio, e solo l’intervento del padre gesuita Edward P. Murphy convinse Liston a proseguire col pugilato: lo fece però in una città diversa, Filadelfia, perché a St. Louis ormai la polizia gli rendeva la vita impossibile.
Dal 1958 Liston dimostrò di nuovo tutto il suo valore, sconfiggendo in sequenza ogni possibile candidato al titolo dei Pesi Massimi. Nel 1960 sconfisse Roy Harris, un pugile la cui unica sconfitta in carriera (a fronte di 30 vittorie) era avvenuta per mano del campione di categoria Floyd Patterson, mandandolo a tappeto tre volte nel primo round prima del KO definitivo, e in generale nel triennio 1958-60 sconfisse tutti i tredici principali sfidanti al titolo mondiale. Tutti, ma non Patterson, uno scontro che venne rimandato fino al 1962 dai procuratori di quest’ultimo a causa della vicinanza di Liston alla mafia: ci si dovette mettere addirittura il presidente John Fitzgerald Kennedy per convincere il campione del mondo ad accettare la sfida, e pure Liston fece del suo assumendo un manager “pulito”, George Katz…salvo poi liberarsene in un secondo momento.
Liston Vs Patterson, finalmente
Lo scontro per il titolo, il 25 settembre 1962, durò appena 2 minuti e 10 secondi. Liston dominava la categoria già da quattro anni, i suoi pugni erano così temuti che era difficile trovargli addirittura uno sparring partner, e Patterson se ne accorse in prima persona: ai cronisti non rimase che dichiarare che sembrava un match fra due pugili di categorie differenti. Nessuno fu contento di questa vittoria, nemmeno il Movimento per i diritti civili degli afroamericani, e la NAACP (National Association for the Advancement of Colored People) dichiarò la sua storia “una favola di riscatto” solo dopo la sua ascesa, auspicando la vittoria di Patterson prima del match. Nemmeno nella sua Filadelfia lo accolsero degnamente, un trattamento che lui definì “da topo di fogna” e che dovette pesargli enormemente dato che, pur con i suoi difetti, era ormai considerato fuori dal ring un uomo generoso e gentile, amico dei bambini, tanto che il suo allenatore Will Reddish disse una volta che non aveva mai visto Sonny fare una cattiva azione: una difesa forse eccessiva per un uomo che nella sua vita finì in carcere 19 volte e subì ben 240 denunce.
L’umore della gente per sua fortuna cambiò in fretta (forse anche perché aveva assunto la leggenda Joe Louis come responsabile delle pubbliche relazioni), e dopo che il 22 luglio 1963 il rematch con Patterson finì nuovamente con un KO al primo round la sua nuova città, Denver, lo accolse con i tributi che meritava. Campione del mondo senza più avversari all’altezza, Liston divenne vittima di sé stesso e della sua fama: riprese a bere, cominciò a dedicarsi meno alla palestra per stare dietro ai propri affari, vide anche sfumare una tournée europea dopo essere venuto alle mani con uno dei gemelli Kray (noti malavitosi londinesi, immortalati in svariati film fra cui Legend di Brian Helgeland con Tom Hardy). Soprattutto combatté poco, e quando venne fissato un incontro con l’astro nascente Cassius Clay la lontananza per lungo tempo dal ring divenne decisiva.
Il futuro Muhammad Alì aveva già cercato di farsi notare da Liston, tanto che subito dopo la seconda sfida con Patterson era salito sul ring e aveva urlato al microfono frasi come “Liston è un vagabondo, datemi quel grosso brutto orso!”. Il suo atteggiamento non fu diverso una volta firmato il contratto per il match, ma nonostante la spocchia Alì non si sentiva così sicuro di poter vincere, men che meno ne era convinta la stampa (43 giornalisti del settore su 45 davano Liston come favorito): nelle visite mediche pre-match la vista del campione del mondo gli fece registrare un enorme sbalzo della pressione sanguigna, e nel 1991 confessò a un giornalista di essere spaventato prima della sfida, “ma ero là, non avevo scelta: vado e combatto”.
Il definitivo passaggio di consegne
L’incontro si dimostrò una farsa, finì al settimo round per ritiro di Liston e si portò dietro sospetti di ogni genere per ingerenze mafiose, ma tutto questo non riuscì a mascherare che Liston sembrava invecchiato di dieci anni: del potentissimo pugile che solo un anno prima aveva polverizzato il campione del mondo rimaneva poco, e dell’anonimo rematch organizzato da Bill McDonald (sì, il fondatore della catena di fast food, che a causa del poco interesse dovuto alle ingerenze mafiose ci rimise ben 300000 dollari) a Lewinston, nel Maine, l’immagine più famosa rimane quella di Alì che sovrasta un Liston a terra dopo nemmeno un minuto, tramortito da quello che è diventato famoso come il “pugno fantasma“. Altri sospetti di combine (le finanze di Liston lievitarono sensibilmente dopo l’incontro), polemiche a non finire, e una carriera che da lì in avanti andò verso il declino.
Nonostante la permanenza fra i migliori nelle classifiche dei Pesi Massimi, e la perdita del titolo per renitenza alla leva di Alì, le ritrosie di procuratori e della stessa mafia (che gli aveva ormai voltato le spalle) non permisero più a Liston di combattere per un titolo che, con ogni probabilità, non sarebbe comunque stato in grado di riconquistare. Morì nel 1971, il cadavere trovato in avanzato stato di decomposizione nella sua villa di Las Vegas dalla moglie: la causa della morte fu un arresto cardiaco ma sulla sua morte aleggia il mistero, mentre nessuno ha dubbi sul fatto che sia stato uno dei più forti pugili della storia.
Per Sonny Liston si è scomodato addirittura Mark Knopfler, che nel 2004 gli ha dedicato Song for Sonny Liston all’interno del suo album Shangri-La. Non me ne voglia il leader dei Dire Straits se scelgo però una canzone italiana, perché in Brutto orso dei Diaframma c’è tanto della storia di Liston racchiuso in pochi minuti: la forza, la corruzione, e quegli interrogativi morali di cui non abbiamo prova, ma che sicuramente hanno scosso un uomo che, arrivato in cima al mondo, non è riuscito a rimanerci a lungo.
Muhammad Alì, Il più grande
Che dire che non sia già stato detto su Muhammad Alì (1942-2016), il campione di boxe che tutti nominano appena gli viene menzionato questo sport? Uno che riusciva ad essere tanto odioso sul ring per i suoi avversari (e a volte non solo per quelli) quanto un modello nella vita di tutti i giorni, capace di rischiare la carriera per una scelta, quella di non combattere nella guerra del Vietnam, che gli costò l’arresto e tre anni di lontananza dal ring. Tutto è già stato detto, scandagliato, ma vale sempre la pena di rinfrescarne la leggenda.
Nato a Louisville nel Kentucky, Cassius Marcellus Clay venne battezzato con lo stesso nome del padre, un nome che già conteneva i germi del suo impegno politico futuro: era infatti il nome di un politico abolizionista del diciannovesimo secolo. Il giovane Clay iniziò a combattere molto presto, indirizzato al pugliato dal poliziotto Joe E. Martin quando questi lo vide inveire contro chi gli aveva rubato la bicicletta, e certo nessuno avrebbe più compiuto quel gesto contro il pugile dilettante che, prima di partecipare alle Olimpiadi di Roma, vantava uno score di 100 vittorie a fronte di sole 5 sconfitte. La medaglia d’oro dei Pesi Mediomassimi, conquistata nella capitale romana, fu una ciliegina dolceamara, perché al suo ritorno in patria dovette scontrarsi contro la perdurante discriminazione razziale: un ristoratore si rifiutò infatti di servirlo in quanto nero, e a causa di questo affronto Clay decise di gettare la medaglia nel fiume Ohio (anche se allo scrittore Thomas Hauser raccontò di averla persa un anno dopo la vittoria), medaglia che gli venne simbolicamente restituita in occasione delle Olimpiadi di Atlanta 1996.
Passato ai professionisti nell’ottobre del 1960 Clay dimostrò subito il suo valore, con 19 successi e nessuna sconfitta nei primi tre anni fra i Pesi Massimi. Non ottenne però le sue vittorie con facilità, e in particolare lo scontro contro l’arcigno Doug Jones nel marzo 1963, vinto ai punti per decisione unanime dei giudici, scatenò una reazione rabbiosa del pubblico: probabilmente ad aizzare questa pesante contestazione fu anche l’atteggiamento di Clay, che fin da subito esibì quel “trash talking” che elevò ad arte, sia dentro che fuori dal palco. Ispirato dal wrestler Gorgeous George, il pugile sminuiva vocalmente i suoi avversari e non solo, visto che definì addirittura il Madison Square Garden di New York un’arena “troppo piccola per lui”: tanto era veloce di lingua quanto lo era col corpo, una velocità considerata eccezionale per uno della sua stazza.
Ed ecco il vero motivo per cui si sciolsero i Beatles
Degli incontri con Sonny Liston, che gli valsero la prima conquista e la prima difesa del titolo di campione dei Pesi Massimi, si è già detto abbastanza, ma non del contesto in cui si ritrovò il pugile del Kentucky fra i due match. Subito dopo la prima vittoria Cassius Clay uscì definitivamente di scena per lasciar spazio prima a Cassius X e quindi a Muhammad Alì, nome preso dopo una conversione all’Islam ispirata da un Malcolm X che, a causa del suo allontanamento dai Black Muslim di Elijah Muhammad, finì sulla lista nera anche dello stesso Alì, fedele al movimento e per questo apertamente criticato da Martin Luther King. L’assassinio di Malcolm X pochi mesi prima del rematch fra Liston e Alì, compiuto da esponenti dei Black Muslim, portò ad approntare per il campione del mondo in carica un sistema di sorveglianza per evitare ritorsioni da parte dei seguaci di Malcolm X, un altro dei motivi che portarono quella sfida al misero numero di 2434 spettatori, tuttora il record negativo per uno scontro valevole per la cintura.
Da campione Alì riuscì a difendere altre sette volte il titolo, battendo tutti i più forti pugili dell’epoca, ma dove non arrivarono gli avversari arrivò il governo degli Stati Uniti: renitente alla leva, come già si è detto, Alì venne condannato a cinque anni di reclusione, perdendo la licenza e tre anni di carriera prima di vedere la sua condanna annullata. Sbruffone come suo solito, Alì in quel periodo si lasciò andare a dichiarazioni come “Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato negro” e, quando gli venne chiesto se sapesse dove fosse il Vietnam, rispose “Sì, in TV”. Tornato a combattere nel 1971, Alì ebbe al terzo incontro la possibilità di riprendersi la cintura ma perse contro uno dei migliori pugili in circolazione, Joe Frazier, in quello che venne allora definito (tanto per cambiare) “l’incontro del secolo”. L’occasione per rifarsi gli venne concessa nel gennaio 1974, occasione in cui Alì sconfisse Frazier in 12 riprese, ma il titolo era già passato di mano a George Foreman, ultimo apice di un ideale triangolo di talenti che si contese il titolo di miglior pugile di quel periodo (se non di sempre).
Lo scontro fra Alì e Foreman, il famosissimo Rumble in the jungle, si disputò il 30 ottobre 1974 a Kinshasa, nel neonato Zaire del dittatore Mobutu dove il pubblico parteggiava assolutamente per lo sfidante (arrivando a gridare “Alì boma ye” ovvero “Alì uccidilo”). Sfruttando la sua intelligenza tattica Alì capì che per vincere contro la potenza esagerata di Foreman l’unica possibilità era farlo sfogare, così invece del balletto della prima fase della carriera (ma senza rinunciare alle provocazioni) sfruttò le corde per incassare inaspettatamente i colpi dell’avversario, che senza intuire minimamente che così facendo limitava l’efficacia dei suoi colpi finì per esaurire le energie e perdere per KO all’ottava ripresa. Nemmeno gli allenatori di Alì si aspettavano quella tattica, ribattezzata rope-a-dope, e se volete un racconto ancora più entusiasmante di questo match il signor Federico Buffa è qui per questo.
Thrilla in Manila, un titolo che manco Quentin Tarantino per i suoi film saprebbe sfornare
Un anno dopo si svolse il match ribattezzato Thrilla in Manila, dove Frazier cercò di riprendersi il titolo. Considerato il match più brutale mai visto, lo scontro finì prima della quindicesima e ultima ripresa perché l’allenatore di Frazier ritirò il suo atleta, lasciando la cintura ad un Alì che era comunque in vantaggio ai punti. Il regno di Alì, senza i due grandi rivali, proseguì senza grossi scossoni fino al 1978, quando perse la cintura dei Pesi Massimi contro Leon Spinks. Riconquistata la cintura contro lo stesso Spinks, un ormai non più così veloce Alì decise di ritirarsi: cambiò idea nel 1980, ma il The last Hurrah (come venne ribattezzato l’incontro) arrise al campione in carica Larry Holmes, che non ebbe difficoltà a resistere per dieci riprese prima che l’allenatore di Alì, Angelo Dundee, gettasse la spugna. Dopo l’ultimo urrà ci fu comunque tempo anche per il Drama in Bahama, atto conclusivo della carriera che risultò in una sconfitta ai punti alla decima ripresa contro Trevor Berbick: il dramma vero però si stava svolgendo lontano dai riflettori, perché la lentezza nei movimenti di Alì era solo il primo sintomo della comparsa della Sindrome di Parkinson che di lì in avanti ne avrebbe minato il fisico, ma non il morale.
Eroico, irritante, potente, sagace, mille sarebbero gli appellativi cui riferirsi ad una figura che ha fatto la storia della boxe e della sua nazione, un mito talmente enorme da essersi scontrato perfino con Superman, in un fumetto del 1978, per scongiurare un’invasione aliena. Charlyn Marshall, meglio nota come Cat Power, ha donato alla sua figura una nota che mancava, la delicatezza: potete goderne anche voi ascoltando qui sotto la sua The greatest.
Rubin Carter, The Hurricane
Mentre Sonny Liston prima e Muhammed Alì dopo facevano la storia dei Pesi Massimi, anche i Pesi Medi accolsero un promettente campione. Rubin Carter (1937-2014) però non deve la sua fama tanto al ring, quanto a un evento che ne compromise definitivamente la carriera: l’accusa di triplice omicidio che, nel 1967, lo portò in carcere da innocente per quasi vent’anni.
Problemi con la giustizia Carter li ebbe fin da subito. Cresciuto a Paterson, città natale del poeta William Carlos Williams (e immortalata nel film del 2016 di Jim Jarmusch che porta lo stesso nome della cittadina), il giovane Rubin si dimostra la pecora nera della famiglia, finendo in riformatorio già all’età di quattordici anni a causa delle accuse di aggressione e furto. Scappato di lì nel 1954, Carter si arruolò nell’esercito e lì cominciò a interessarsi alla boxe: fu l’unico buon ricordo dei 21 mesi passati in divisa, dato che venne congedato nel 1956 in quanto inadatto al servizio militare dopo essersi dovuto presentare per ben quattro volte davanti alla corte marziale, causa insubordinazione. Il ritorno alla vita civile coincise col ritorno al crimine, e passò poco tempo prima che lo stato del New Jersey gli aprisse le porte del carcere con una condanna a quattro anni.
L’uomo che uscì dal carcere nel settembre del 1961 aveva fatto fruttare gli anni dietro le sbarre, passati ad allenarsi nuovamente coi guantoni. Divenne subito professionista, combattendo nei pesi medi nonostante l’altezza mediamente più bassa rispetto agli avversari, e la potenza dei suoi colpi gli fece ottenere una rapida ascesa nel ranking. I numerosi KO con cui concludeva gli incontri galvanizzarono il pubblico, incuriosito anche dal suo look intimidatorio, e ben presto la furia con cui combatteva sul ring gli valse il soprannome di Hurricane.
L’apice della sua carriera si svolse fra il 1963, quando venne per la prima volta inserito nella top 10 degli sfidanti al titolo, e il 1964, quando ottenne dopo una serie di ottimi risultati la possibilità di affrontare il campione di categoria Joey Giardello. Il match fu combattuto, con Carter aggressivo all’inizio e Giardello, più esperto, capace di uscire alla distanza, e alla fine fu quest’ultimo a vincere per parere unanime dei giudici. Il biennio 1965/66 non fu all’altezza della precedente fase della carriera, e gli ultimi incontri li combatté contro il campione olimpico dei Superwelter di Roma 1960 Wilbert McClure, ottenendo una vittoria e un pareggio. Poi arrivò il 17 giugno 1966, e nulla fu più come prima.
Alle 2:30 di quel giorno due uomini neri entrarono nel Lafayette Bar and Grill di Paterson, aprendo il fuoco e uccidendo sul colpo il barista Jim Oliver e Fred “Cedar Grove Bob” Nauyoks. Hazel Tannis, terza vittima della sparatoria, morì un mese dopo per le ferite riportate mentre una quarta persona, Willie Marins, se la cavò perdendo “solo” un occhio. La scena fu vista anche da un altro testimone, Alfred Bello, un noto criminale che aveva intenzione di rapinare il Lafayette proprio quella notte, e fu proprio lui ad avvisare per primo la polizia. Sia lui che un vicino, Ronald Ruggiero, videro una macchina bianca sfrecciare via dal luogo del crimine, e quando la polizia fermò Carter e un amico, John Artis, su una macchina simile a quella e con una pistola e dei proiettili da fucile sul sedile posteriore fu facile fare due più due. Carter e Artis vennero però rilasciati il giorno stesso per insufficienza di prove, dato che nemmeno il testimone oculare Marins li aveva identificati.
Bello tornò in scena sette mesi dopo, rivelando che con lui c’era una seconda persona, Arthur Dexter Bradley. Entrambi identificarono Carter e Artis come gli autori degli omicidi, iniziando la gigantesca farsa che portò una giuria composta da soli bianchi a condannare il pugile ed il suo amico al carcere a vita. Negli anni ci furono ricorsi, controricorsi, ritrattazioni della testimonianza da parte di Bello e Bradley e controritrattazioni, a causa delle quali anche il secondo processo richiesto dalla difesa nel 1976 finì con una condanna per i due imputati. Carter nel frattempo aveva già scritto la sua autobiografia, Il sedicesimo round: da sfidante numero 1 a numero 45472, e il suo caso ebbe una grandissima eco mediatica, col sostegno della gente che ne chiedeva la grazia.
La grazia non arrivò mai, ma una petizione alla Corte Federale promossa grazie all’aiuto di un giovane canadese, Lesra Martin, e dei suoi amici che affiancarono gli avvocati di Carter, portò infine il giudice Haddon Lee Sarokin ad affermare che i due imputati non avevano avuto un processo equo e che la loro condanna era da imputarsi a motivazioni razziali. Era il 1985 quando Carter poté uscire dal carcere (Artis era uscito sulla parola nel 1981, ma ritornò dietro le sbarre nel 1986 per traffico di cocaina e possesso di un’arma rubata), ma lo spettro di un nuovo processo aleggiò ancora per tre anni: solo nel 1988 i procuratori del New Jersey fecero cadere definitivamente le accuse, ristabilendo una giustizia che nel frattempo aveva privato Carter di molto più della sua carriera.
Soddisfazioni che ti puoi togliere dopo anni in carcere ingiustamente: venire interpretato da Denzel Washington
Stabilitosi a Toronto, dove ottenne la nazionalità canadese, Carter dal 1993 al 2005 ricoprì la carica di direttore esecutivo dell’ADWC (Associazione per la Difesa dei Condannati per Errore), e ottenne quale parziale risarcimento dal mondo (incolpevole) della boxe la cintura di Campione del Mondo ad honorem. Un altro scambio di persona lo vide vittima di un arresto nel 1996 ma per fortuna in questo caso la polizia si accorse subito dell’errore, segno che i tempi erano cambiati…o che forse in Canada la polizia è meno razzista che negli USA.
Carter è morto nel 2014, sconfitto da un cancro alla prostata che lo affliggeva da tempo. Non sapremo mai cosa ricorderemmo di lui se quel 17 giugno del 1966 la polizia non lo avesse incriminato, né se avrebbe potuto scrivere ancora brillanti pagine della sua carriera di pugile: di certo, però, sapremmo meno della sua vita se Bob Dylan non avesse cantato in suo favore la famosissima Hurricane, vero motore del movimento popolare in favore del pugile ingiustamente incarcerato. Una canzone splendida, quella del folletto di Minneapolis, che vale la pena ascoltare ancora una volta al link qui sotto.
Fra tanti pugili famosi vale la pena lasciare un piccolo pensiero anche per Duk Koo Kim (1959-1982), pugile sudcoreano che perse la vita in un match valevole per la cintura dei Pesi Leggeri contro Ray Mancini, il suo primo in Nord America. L’incontro fra i due fu brutale, e a causa di uno dei pugni Kim entrò in coma, morendo quattro giorni dopo il match. Le conseguenze a lungo termine furono anche peggiori, con la morte per suicidio della madre del pugile e del giudice del match, roso dai sensi di colpa per non aver interrotto prima le ostilità: lo stesso Mancini, pur continuando la carriera, non fu più lo stesso e passò un lungo periodo di depressione.
La sua morte portò almeno qualcosa di buono, inducendo le maggiori federazioni pugilistiche mondiali a rivedere controlli medici e regole di durata (si passò dai quindici ai dodici round nei combattimenti per il titolo). Sun Kil Moon ha dedicato allo sfortunato pugile coreano una bellissima canzone omonima, che è quella con cui vi saluto e vi rimando al prossimo appuntamento, in cui si parlerà di…chi lo sa?
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Era il 2013 quando mi sono ritrovato in mano il primo disco de Gli Altri, Fondamenta, strutture, argini, e fin dai primi ascolti mi convinse subito. C’erano potenza e direzione, oltre a un sottile malessere che emergeva prepotente soprattutto in una canzone, All’orizzonte,: vi si poteva sentire viva sulla pelle l’oppressione dei lati più oscuri e inumani di una città, Savona, dove loro hanno cercato di ampliare l’attività aggregativa. Lo hanno fatto tramite la collaborazione con un circolo, il Rude Club, la creazione di un’etichetta, la Burning Bungalow, e in generale aprendosi all’aiuto reciproco fra band, che fosse per una data o per uno split. Li ho incontrati una sola volta, causa distanza geografica, durante una loro data al FOA Boccaccio di Monza in cui ho visto la maggior concentrazione di gruppi strani della mia vita: ricordo un tipo che suonava dei pedali con un passamontagna in faccia, il loro live col violinista a pogare mentre suonava e l’ultimo gruppo in scaletta, alle tre del mattino, col cantante che faceva crowdsurfing su pubblico e band riuniti tutti assieme. Gli feci anche una bella intervista, che trovate qui se volete farvi una cultura su come si creano sinergie positive.
Formatisi nel 2009 nel bel mezzo di quella che loro definiscono “la grade depressione del panorama musicale savonese”, Gli Altri contaminano da subito la loro musica con vari elementi, dal punk allo stoner passando per hardcore, noise e post metal. I primi brani escono nel 2011, racchiusi nell’ep Incipit, mentre il primo album arriva nel 2013: Fondamenta, strutture, argini coniuga tutte le loro influenze, in un mix coeso e che si fa forza anche di un elemento inconsueto per il genere, il violino distorto. Partecipano poi alla compilation L’inverno della civetta, che riunisce le scene genovesi e savonesi in un esperimento molto particolare promosso dal Greenfog Studio di Genova: mischiare i componenti per creare brani con band da “one shot”, il tutto con ottimi risultati. Dopo uno split con la band sanremese Uragano ecco arrivare nel 2016 l’ultimo (per ora) disco, Prati, ombre, monoliti, realizzato col supporto di ben trentotto etichette diverse in pieno clima di collaborazione fra realtà differenti. I membri fanno parte anche di varie altre realtà musicali della zona, dai 5mdr ai Nêuvegramme (di cui sta per uscire il secondo disco) passando per FufaZ Quartet e Neive, tutti progetti che condividono la scelta del free download dei loro dischi (il che, come al solito, non significa che non possiate pagare comunque per la loro musica).
Istanbul è una delle canzoni della band savonese che più mi ha impressionato fin da principio, uno dei pochi pezzi strumentali del loro repertorio. Nel suo incedere crea un crescendo di emozioni (anche ansia) dall’invidiale equilibrio, una struttura musicale che mi ha fatto pensare a un cammino: la città che fa da sfondo al racconto che ne ho tratto non è Istanbul, non è nemmeno reale (anche se abitare a Milano ha influenzato certe immagini), ma condivide tutte quelle problematiche di relazioni sociali distorte e marginalizzazione delle minoranze in cui vorrei tanto poter dire di non ricadere io stesso, mentre il “look” del protagonista è stato ispirato da questo video. Lo trovate come al solito dopo il brano, buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).
In cammino
L’uomo senza nome entrò in città alle prime luci dell’alba, accolto dagli occhi sonnolenti delle persone in coda sulla tangenziale. Nessuno fece caso a quella figura fuori luogo, arrancante vicino al guardrail, persi nel ricordo del letto caldo abbandonato da poco. Non videro la sua bocca muoversi nervosa al ritmo di un mare di parole che affiorava troppo veloce, perché solo una volta sceso dalle rampe d’accesso liberò la testa dal cappuccio che la copriva.
Qualcuno lo notò in periferia, senza rimanerne impressionato. Agli angoli delle strade, sotto ai ponti o fermi ai semafori senzatetto e accattoni erano una vista comune, così un uomo dai capelli sconvolti, biascicante cose senza senso, non attirava l’attenzione più del necessario. Qualche negoziante rimase a osservarlo per essere sicuro di evitare rogne, i ragazzini lo indicarono da lontano, un paio di passanti provarono pena per lui, senza capire come fare ad aiutarlo e senza averne veramente voglia. Chi lo vide attraversare la porta della città vecchia, abbandonando il giubbotto logoro, pensò solo a quanti folli girano ancora in libertà.
Attraversò le zone più centrali come un torrente di parole folli, un’anomalia nel suo abbigliamento logoro e col petto nudo e rachitico esposto al freddo. Qualcuno si fermò a guardarlo, azzardando alle sue spalle foto e video da condividere con gli amici, molti si misero a commentare la sua inconsueta apparizione con sermoni piccati da cui ricevevano cenni di assenso in risposta. Tutti pensarono che qualcuno avrebbe dovuto avvertire la polizia, ma nessuno lo fece: all’ora di pranzo l’uomo si inoltrò claudicante fra i palazzi del centro, lasciando i pantaloni come ricordo ai cittadini indignati.
In mutande e urlante arrivò all’ombra dei grattacieli, ottenendo finalmente attenzione. Gli uscieri di alberghi e palazzi lo fecero allontanare velocemente, chi con le buone e chi con le cattive maniere, qualche passante che non aveva troppa fretta si eresse a paladino del decoro cittadino chiamando le forze dell’ordine, dalle tavole imbandite, tanto dei ristoranti stellati quanto dei fast food, arrivarono risate ed occhiate in tralice.
“Dove andremo a finire”, pensarono tutti tenendosi a distanza. Lo videro spogliarsi nudo di fronte al grattacielo più scintillante della città e restare lì, curvo e delirante, con la polizia a pochi passi.
Emise allora un grido che distrusse i vetri sul suo percorso, incrinò muri e lamiere, raggiunse ogni cittadino e lo fece sentire colpevole per ogni dramma su cui ogni giorno chiudeva gli occhi, per le mancanze di una città che si specchiava nel suo marciume, rimbombò come un eco nelle strade anche quando fu silenzio e l’uomo, non più zoppicante, uscì dalla città così come vi era entrato, camminando senza fretta fra le macerie.
Emersi dal terrore capimmo il suo intento. Ci donò l’opportunità di ricostruire, ma non la cogliemmo. Lo maledicemmo anzi, perché odiavamo sentirci gravare sulle spalle la responsabilità del futuro.
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Ci sono due modi di inquadrare un disco come Del nostro abbraccio ostinato in questa crepa in fondo al mare, quello attuale e quello universale. La rabbia e l’energia che emanano dall’ultimo disco degli ZiDima possono essere viste infatti come il grido di un’umanità esasperata, vittima oltre che dei propri problemi anche di una situazione di cui aspettiamo ancora la fine; per chi li conosce meglio, invece, l’album non è nient’altro che la prosecuzione di un cammino tanto sonoro quanto politico da parte di una band che da sempre dice quel che pensa, e quel che pensa non può fare a meno di passare per una musica energica quanto loro, nel caso specifico un mix di noise e tanto post hardcore.
Le illustrazioni dell’album sono di Antonio “Ragno” Foglia (@antonior.foglia)
Entrambi le visioni condividono una parte di verità. Del nostro abbraccio ostinato in questa crepa in fondo al mare nasce infatti dalle storie di persone con cui gli ZiDima sono entrati in contatto, raggruppate per farne un piccolo specchio del mondo reale in un periodo in cui tutto sembra irreale, ma la dedica (“a chi continua sentirsi vivo e pericoloso”) indica la prosecuzione della lotta, non certo una pausa di riflessione, prova ne sia anche solo il testo di Emme: frasi come “qui nessuno ha perdonato né mai dimenticato/ e aspetto di vedervi sventolare giù a Loreto” sono una chiara presa di posizione e, allo stesso tempo, la naturale prosecuzione di un discorso, se è vero che sul precedente disco annunciavano (in Come farvi lentamente a pezzi) “ci riposeremo solo quando avremo vinto”.
Lotta e cicatrici, di questo parlano le canzoni degli ZiDima, storie accompagnate da tanta furia ma anche da momenti più tranquilli. Sotto questo aspetto la band dimostra una varietà stilistica maggiore rispetto al passato, alternando distorsioni e melodie in maniera molto efficace anche all’interno dello stesso brano. Ne sono prova canzoni come Roby, blanda e delicata ma che quando s’infiamma ha la potenza dei più coinvolgenti canti di piazza (e il coro intona non per niente, anche per il momento storico, “il popolo ha fame”), o la conclusiva Paolo e Rocco, dolce ed empatica ma, anche in questo caso, non arresa. Nel secondo caso è la voce di Alessandro Andriolo dei Selva a guidare la carica, un’ospite che si dimostra importante ogni qualvolta viene chiamato a dare energia con le sue grida.
Il lavoro sui suoni operato dagli ZiDima è magistrale. In Del nostro abbraccio ostinato in questa crepa in fondo al mare c’è la potenza degli strumenti, che quando si uniscono come in certi momenti dell’iniziale Vale e di Zita creano un fronte granitico, ma quello che stupisce di più è l’attenzione al dettaglio. Lo si nota particolarmente in Chiara, dove a strofe arpeggiate che ricordano vagamente le atmosfere livide degli Alice in chains più presi male si associano ritornelli in cui il violino si innesta a meraviglia con le distorsioni, creando un effetto quasi drammatico (acuito, anche qui, dalla voce di Andriolo), e parlando di strumenti “esterni” è ottimo anche l’inserimento della tromba nel finale della già citata Roby. Una nota stonata però c’è, ed è il volume della voce nel mix generale: che l’intenzione della band fosse quella di ottenere un’amalgama il più possibile compatta è chiaro, ma per riuscirci sacrificano troppo le grida di Manuel Cristiano Rastaldi, un peccato grave se si considera l’alta qualità dei testi.
Gli ZiDima hanno sfornato un disco potente e incisivo, liberatorio e libero, importante soprattutto (ma non solo) per questo periodo complicato. L’album vede la luce grazie al contributo di ben otto etichette (che vale la pena citare tutte: Boned Factory, Brigante Records, Fresh Outbreak Records, Gasterecords, I Dischi del Minollo, In Circle Records, Nel mio nome Dischi e Truebypass), ed è un peccato che la situazione attuale impedisca di godere di queste canzoni dal vivo: in attesa di poterlo fare ascoltatele qui, in modo da impararle e cantarle insieme sotto al palco.
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Vorrei poter scrivere che seguo Giorgio Canali fin dagli esordi, ma non è così. Un po’ per motivi anagrafici (il primo album di Canali coi CCCP – Fedeli alla linea è del 1990, avevo 11 anni e in casa mia entrava solo la musica di Sanremo. Avevo probabilmente appena scoperto Vasco e la musica truzza, pensa te), tanto per ignoranza mia (i CCCP e i CSI, per me, sono stati a lungo unicamente la figura scarna e allucinata di Giovanni Lindo Ferretti). Poi un mio amico, ai tempi patron di quell’Indie-Zone che fu il mio battesimo nell’ambito della critica musicale (critica senza riconoscimenti, quella ufficiale ancora non sa chi io sia), mi passò il terzo disco del progetto solista di Canali, l’album omonimo dei suoi Giorgio Canali & Rossofuoco contraddistinto dalla cover bianca con una freccia rossa che punta verso il basso, e me ne innamorai subito. Ricordo che una delle cose che più piacevano al mio amico era il fatto che chiudeva le canzoni senza tanto menarla su, tipo Mostri sotto al letto che a un certo punto fa “le ragazze con cui esco na-nana-na-nanaaaaaa” e stop!, chiusa lì, ho detto tutto quello che dovevo dire, te l’ho urlato, basta. Da allora quando mi capita di andare a Ferrara non riesco a guardarla senza pensare alla sua Savonarola (la fine del mondo a Ferrara): sono riuscito a intervistarlo, un paio di volte via mail e una dal vivo, ma tutto ciò è stato fagocitato dal grande nulla in cui vivono i siti di cui non è stato rinnovato il dominio (ciao ciao vecchio Indie-Zone), mentre resistono le emozioni di tutti i suoi concerti che ho visto in questi anni.
L’album di cui parlavo sopra
La carriera di Giorgio Canali è variegata e ultratrentennale. Inizia come tecnico del suono, lavorando con nomini del calibro di PFM e Litfiba prima di collaborare coi CCCP ed entrare a farne parte nel 1989. Seguirà tutte le future incarnazioni del progetto originario, dai CSI ai PGR, fra spostamenti in Francia (dove vive per un certo periodo, collaborando ai tour dei Noir Désir e producendo tre dischi dei Corman & Tuscadu di Claude Saut, che per un decennio lo ha accompagnato al basso nei Rossofuoco) e l’inizio della carriera da solista, nel 1998, con l’album Che fine ha fatto Lazlotòz. Da allora di album, sotto il nome di Giorgio Canali & Rossofuoco, ne ha pubblicati sette (l’ultimo, del 2018, è Undici canzoni di merda con la pioggia dentro), fra cui una raccolta di cover intitolata Perle ai porci. Enorme la sua importanza come produttore, visto che c’è lui dietro agli esordi di Verdena e Le luci delle centrali elettrica, oltre ad album imprescindibili come La testa indipendente dei Tre allegri ragazzi morti e, per il mio cuore, Stagnola dei Wolfango e Arrivano i pollini dei Dondolaluva (di cui mi disse in un’intervista che erano bravissimi ma “ti fanno fare brutta figura ai cocktail party: non se li inculerà nessuno”, e anche se in maniera immeritata ebbe ragione). In Ci sarà, brano presente nel suo sesto album Rojo, canta “ci sarà posto per la mia biografia\ fuori dai libri di psichiatria”, e questa autoprevisione si è avverata: nel 2011 è uscito per Italica Edizioni Fatevi fottere, frutto di alcune lunghe interviste fra Canali e gli autori Samuele Zamuner e Irene Zanetti. Ve ne consiglio la lettura, ammesso che ne troviate una copia in giro, anche solo per i fantastici aneddoti raccontati dagli artisti che hanno avuto la fortuna di lavorare con lui: su tutti scelgo quelli di Umberto Palazzo, della cui band Santo Niente Canali produsse il secondo disco ‘Sei na ru Mo ‘na Wa ‘na dicendo “Ragazzi, non è il caso di fare una demo, perché se si accorgono di quello che stiamo facendo questo disco non si farà mai” (Palazzo lo considera il disco più duro mai pubblicato da una major italiana), e di Vasco Brondi, che durante gli spostamenti in macchina in tour quando gli chiedeva di rallentare (pare che Canali guidi molto “sportivo” e abbia in antipatia le autostrade) si sentiva rispondere “Sentite il poeta maledetto che ha paura di morire!”. Oltre a tutto questo Canali ha pure realizzato la colonna sonora di Guardami e Mondonuovo di Davide Ferrario (per cui ha anche recitato) e sicuramente fatto altre mille cose meritevoli di menzione che in questo momento non mi vengono in mente.
Questa no è l’ultima traccia del disco con cui ho aperto questo interminabile articolo (che non vorrei terminare, visto quanto ho da dire), e stava lì pronta ad aspettare un racconto dedicato da anni, più o meno da quando mi era presa l’idea di realizzare un romanzo su una banda di folli che prendeva in ostaggio gli ospiti di un motel e ne faceva quel che voleva, storia nella quale ogni capitolo sarebbe stato basato su una canzone (quello dei Rossofuoco sarebbe stato il terzo capitolo, i primi due si basavano invece su questa e questa). La storia che alla fine ne è venuta fuori ha invece a che fare con la guerra, coi sentimenti e con le contraddizioni a cui siamo soggetti quando amiamo qualcuno. La trovate più in basso, subito dopo la canzone: a me non resta che augurarvi buon ascolto, e buona lettura.
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Ancora insieme
All’inizio di quella lunga notte cerca di riportarle alla mente le parole con cui aveva provato a conquistarla, frasi banali e antiquate piene di rime imbarazzanti come cuore e amore. C’era da riderne, ora che ormai erano innamorati, e con la perseveranza nell’esercizio della scrittura riusciva a dedicarle frasi più ispirate. Anche in quel momento, quando un rumore la distrae, riesce a creare un mondo diverso da quello che i suoni della notte significano realmente: un fischio prolungato diventa un treno che viaggia verso mete lontane, un grido improvviso la luna che, alzandosi in cielo, avverte il mondo del suo avvento.
Si chiede, mentre i minuti passano lenti e li trovano insonni, quanto a lungo potrà rassicurarla, e ad ogni urlo maledice nell’intimo chi non riesce a morire mantenendo almeno la dignità. Quando verrà il suo turno, si dice, ostenterà uno stile impeccabile davanti alle pallottole, ma prega di non dover mostrare il suo coraggio stanotte.
La sente tremare fra le sue braccia, chissà se per paura o per il freddo di una chiara notte invernale, e prima che possa ragionare su quei tremiti inventa terremoti lontani abbastanza da lasciarli sorpresi, ma incolumi. Sa che non può credergli, ma lei sorride e annuisce.
Non lo contraddice mai, anche se avrebbe tutti i motivi per provare paura. Non vuol fargli credere che sia stato inutile rimanerle al fianco mentre i suoi compagni andavano a combattere. Avrebbe dovuto essere con loro, a spargere il sangue di chi li vuole inermi e in catene invece di nascondersi ingoiando l’orgoglio, ma era diviso fra due doveri. Si è così confusi, quando si ama.
L’ultimo grido arriva da vicino, un ordine dato da una lingua straniera ma non estranea. La stringe a sé con un braccio, con l’altra mano afferra la pistola, mentre al piano di sopra qualcuno armeggia con la serratura. La tranquillizza, ancora, evocando un vento violento che sbatte le porte sul suo cammino. Prega che non riescano a trovarli in questo gelido seminterrato, di avere abbastanza tempo per scrivere un finale diverso a quella storia: loro due liberi, ad amarsi fra la folla in un giorno luminoso, o almeno su un treno diretto lontano, ancora vivi, seppur con la morte nell’animo.
Sentono dei passi sopra di loro. Si stringono ancora più forte, tanto da sentire i battiti l’uno dell’altra. No, si dicono, non sarà oggi che i nostri cuori si fermeranno, e si preparano al peggio grati almeno di poterlo affrontare insieme.
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Oggi l’uomo trae il senso del miracoloso dalla scienza e dalle macchine, dalla radio, dagli aerei, da enormi navi e dai dirigibili, dai gas velenosi e dalla seta artificiale: queste cose nutrono il senso del miracoloso dell’uomo odierno come la magia faceva in passato.
D. H. Lawrence
Avete mai sentito parlare del transumanesimo? Probabilmente no, eppure alcune delle opere di finzione in cui magari vi è capitato di imbattervi hanno molto a che fare con la realtà che gli aderenti al movimento stanno cercando di realizzare. Sicuramente avrete invece sentito parlare di Google, di Elon Musk, di Amazon: ecco, dietro il transumanesimo ci sono anche questi grossi nomi, e non è sempre un buon segno.
Mark O’Connell, giornalista irlandese, ha deciso di dedicare a questo movimento una fetta della sua vita per realizzare Essere una macchina, libro edito in Italia da Adelphi. Quel che ha scoperto, nel suo viaggio perlopiù circoscritto alla tecnologicamente avanzata Silicon Valley, ha dell’incredibile: aziende che criogenizzano le persone in vista di una loro possibile “resurrezione”, aspiranti cyborg che testano le loro scoperte sulla propria pelle, spettri di un futuro dominato dall’intelligenza artificiale e l’illusione dell’immortalità, speranza inseguita da alcuni attraverso il travaso del nostro cervello su hard disk e da altri, più “realisti”, attraverso l’annullamento del processo di invecchiamento. O’Connell descrive queste frontiere, e le persone che cercano di raggiungerle, con un sano scetticismo a cui però si associa anche un misto di meraviglia e timore: la domanda che aleggia è “e se avessero ragione loro?”
«Parliamoci chiaro,» dice Nate «io sono convinto che questa roba mi ucciderà».
Chissà perché, la sua formulazione così precisa mi colpisce più delle altre. Che Nate prenda tanto sul serio la minaccia è naturale. So bene che per le persone come lui non si tratta di un giochino intellettuale: lui e gli altri credono davvero che questa sia una possibilità molto concreta. Eppure, l’idea che Nate ritenga più probabile essere ucciso da un sofisticato programma computerizzato piuttosto che da un cancro, da una cardiopatia o dalla banale vecchiaia mi pare, per non girarci intorno, una pazzia.
Mark O’Connell, Macchine come noi
Il Nate che parla è Nate Soares, direttore esecutivo al MIRI (Machine Intelligence Research Institute) di Berkeley, una delle realtà che analizza il “rischio esistenziale” degli studi sull’AI, e i suoi timori sono condivisi da imprenditori del calibro del già citato Musk e di Bill Gates, che al MIRI e ad altre associazioni devolvono importanti cifre, e da attori come Alan Alda e Morgan Freeman, che hanno fatto da consulenti per dette associazioni. E vien da chiedersi se è un caso che Freeman abbia deciso nel 2014 di interpretare, in Transcendence, proprio un personaggio intento a impedire con ogni mezzo l’avvento della “singolarità”.
In questo articolo non cercherò di convincervi che un simile pericolo è più preoccupante e vicino del riscaldamento globale, ma semplicemente di fare un salto nella fantascienza letteraria e cinematografica per trovare rimandi a ciò che O’Connell ha scoperto con le sue indagini e interviste, per valutare insieme se, come dicevano i Bad Religion, “sometimes truth is stranger than fiction”.
Criogenizzazione e aldilà: le conquiste del presente e la semi-vita di Philip K. Dick
Cose che possono andare storte quando vieni criogenizzato
Immaginate un edificio grigio, basso e squadrato nel mezzo del deserto di Sonora, a mezz’ora di strada da Phoenix. Dall’Area 51 al perimetro militare sulle White Hills, dove la bomba atomica venne testata per la prima volta, i deserti degli Stati Uniti sono teatro di ogni congettura possibile sugli esperimenti che vi si svolgono in gran segreto, ma in quell’edificio, sede della Alcor di Max More, non c’è nessun riserbo a proclamare che 117 persone vengono tenute in animazione sospesa tramite criogenesi…e molti di questi, per inciso, con la sola testa all’interno di cilindri metallici.
Sono ben quattro le strutture nel mondo (tre negli Stati Uniti e una in Russia) dove si insegue l’illusione di poter mantenere sospese le funzioni vitali di una persona, o del suo cervello, abbastanza a lungo da rianimarla in un futuro in cui il progresso tecnologico potrà farlo senza danni. Al netto delle conoscenze tecnologiche e sanitarie attuali farsi criogenizzare è più un discorso di fede (tema che torna spesso in Essere una macchina) che altro, ma se volete immaginare quel tipo di futuro che More e consorte anelano sappiate che c’è chi l’ha già fatto.
Matt Groening, ad esempio, che in Futurama riesce a far diventare presidente degli Stati Uniti un redivivo Richard Nixon…o meglio la sua testa, sospesa all’interno di una teca di vetro in una sorta di immortalità che è toccata, tra gli altri, anche a Leonard Nimoy, Luciano Pavarotti, Lucy Liu e i Beastie Boys. Padrino di una simile tecnologia, all’interno del panorama fantascientifico, è stato però il geniale Philip K. Dick in Ubik, probabilmente il miglior romanzo dello scrittore che proprio nella stessa California dei transumanisti creava le sue storie. Fra le mille invenzioni concepite all’interno del libro fanno la loro comparsa i Moratorium, edifici dove le persone sono sospese in semi-vita (o pre-morte, sarebbe meglio dire) in attesa della dipartita finale. Fintanto che gli rimane una scintilla di vita i cari quasi-dipartiti possono ancora comunicare, cosa che porterà all’interno della trama a sviluppi che vi lascio il piacere di approfondire, nel caso vi siate persi questo capolavoro della science fiction. Fa specie che, con gli innumerevoli adattamenti (non sempre centrati) dalle sue opere, da Blade Runner in poi , un libro di cui lui stesso aveva scritto la sceneggiatura non sia ancora riuscito a trovare spazio sul grande schermo: ci provarono qualche anno orsono, coinvolgendo il Vincenzo Natali di The cube (e di quel piccolo capolavoro, inedito in Italia, di Nothing), ma al grande fermento della notizia fece seguito un nulla di fatto.
Mappare l’anima: come riversare la nostra essenza su hard disk e vivere felici
«Quando l’informazione perde il suo corpo,» scrive la critica letteraria N. Katherine Hayles «quando la materialità in cui la mente si sostanzia appare irrilevante in confronto alla sua essenza, assimilare gli esseri umani ai computer diventa facilissimo».
Mark O’Connell, Essere una macchina
L’affermazione sovrastante troverebbe sicuramente d’accordo Umberto Galimberti, che alla scissione mente-corpo operata da Cartesio (e da Platone prima di lui) ha dedicato anni orsono il saggio Psichiatria e fenomenologia, ma non Randal Koene, dottorando in neuroscienze computazionali alla McGill University di Montreal, che con la sua organizzazione no-profit Carboncopies insegue l’obiettivo opposto: rendere obsoleto il corpo, facendo un uploading totale della mente.
Koene è solo uno dei tanti che, attraverso lo Human Brain Project, cerca di trovare il modo di tradurre la nostra coscienza in informazioni. Obiettivo impossibile secondo alcuni, fra cui il pioniere nel campo delle tecnologie dedicate all’interfaccia cervello-macchina Miguel Nicoelis, anche se gli studi sul campo compiuti dal neuroingegnere Ed Boyden hanno già portato a mappare completamente il cervello del nematede C. elegans, un vermicello trasparente lungo all’incirca un millimetro. Che sia possibile o meno, insomma, la strada appare ancora lunga.
Pessima CGI direttamente dagli anni 90
Forse la prima opera (o almeno la prima che viene in mente a me) a immaginare una coscienza che si libera del corpo per assumere una forma esclusivamente digitale è stata Il tagliaerbe, film del 1992 con Jeff Fahey e Pierce Brosnan in cui il classico scemo del villaggio viene sottoposto a esperimenti per migliorare le potenzialità del suo cervello, con conseguenze inaspettate quando questi cerca di perpetuarsi in rete (curiosità: Stephen King intentò causa alla produzione, rea di averlo citato nei credits per l’ispirazione tratta da un suo racconto che, per inciso, non c’entra davvero niente). In Altered Carbon invece, serie televisiva prodotta da Netflix la coscienza di un essere umano può venire spostata da un corpo all’altro tramite una sorta di disco fisso impiantato alla sommità della spina dorsale, ma la buona idea di partenza (che porta, tanto per cambiare, a disparità sociali grazie alle quali i ricchi possono disporre dei corpi migliori) viene sprecata con un susseguirsi di cliché narrativi talmente fastidiosi da convincermi a interrompere la visione.
Meglio recuperare, se siete videogiocatori avvezzi al survival horror, Soma di Frictional Games, studio di programmazione con una lunga esperienza in materia. Nei panni di Simon Jarrett, uomo con gravi danni cerebrali a causa di un incidente automobilistico, ci ritroveremo improvvisamente proiettati di cento anni nel futuro, dove dovremo dare una mano alla dottoressa Catherine Chun, il cui scopo è spedire nello spazio una sorta di “arca della speranza” (chiamata, molto fantasiosamente, Ark) in cui sono immagazzinate le coscienze di tutta l’umanità. Il come siamo arrivati lì e il perché sia stato varato un simile piano sono solo alcune delle domande a cui troverete risposta esplorando la labirintica base sottomarina in cui si svolgono le vicende…sempre che riusciate a sopravvivere a WAU, l’intelligenza artificiale che ha preso il controllo del sito. E a proposito di intelligenze artificiali…
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Visto che non citerò Ex Machina lo metto qui, tutti contenti
Quanti film si possono citare in cui una AI poco avvezza ad ubbidire agli ordini attenta alla vita degli esseri umani, se non dell’umanità intera? Da 2001: odissea nello spazio in avanti la possibilità che i computer diventino più intelligenti di noi è stata esplorata in mille modi, dallo Skynet che in Terminator e seguiti cerca di eliminare gli esseri umani a suon di cyborg alla matrice di Matrix che invece si accontenta di usarci come pile, passando per interazioni meno nocive come quella immaginata nello splendido Her di Spike Jonze, consigliato se volete vedere Siri e compagnia sotto una luce diversa.
Certo nessuno dei futuri che il cinema ci ha prospettato sembra potersi realizzare, ma c’è chi non la pensa così. Nate Soares ad esempio, citato nel cappello introduttivo, e assieme a lui tutti gli studiosi impegnati a capire come rendere una eventuale evoluzione inaspettata dell’intelligenza artificiale gestibile, magari non tramite le tre leggi della robotica di Asimoviana memoria ma per mezzo di qualcosa che funzioni alla sua stregua. Nick Bostrom, filosofo svedese che dirige il Future of Humanity Institute, ha pubblicato, proprio per sensibilizzare il mondo scientifico al riguardo, il libro Superintelligenza: Tendenze, pericoli e strategie, ed esemplifica il pericolo che corriamo in maniera semplice ma glaciale:
In uno degli scenari più estremi, a un’intelligenza artificiale viene chiesto di produrre graffette nel modo più efficiente ed economico possibile, solo che lo fa trasformando in graffette (e in impianti per la produzione di graffette) tutta la materia dell’universo.
Mark O’Connell, Essere una macchina
Una frase come quella sopra esposta può apparire ridicola, ma se l’Effective Altruism, associazione di razionalisti di cui fanno parte i già citati Musk e Gates, decide che è più importante a livello umanitario stanziare fondi per capire come contenere l’intelligenza artificiale, piuttosto che investire nella disponibilità di acqua potabile nei paesi in via di sviluppo…be’ qualche domanda viene da farsela. Ciò su cui più insistono gli allarmisti è che solo una minima percentuale di scienziati che stanno studiando come far evolvere l’AI si preoccupa di come contenerla, sicuri che la sua evoluzione non possa essere così veloce, anche se il passaggio dal livello “scemo del villaggio” al livello “super Einstein” potrebbe essere veloce come uno schiocco di dita. Stephen Omohundro, ricercatore al MIRI come Soares, prova a fare un altro esempio per illustrare il pericolo a cui siamo esposti:
Se un robot scacchista viene distrutto non giocherà mai più, un esito che la macchina considera un controsenso, e che cercherà in ogni modo di evitare. Insomma, si costruisce un robot che gioca a scacchi convinti di poterlo spegnere nel caso qualcosa non vada per il verso giusto, salvo scoprire, con immenso stupore, che il robot non ha alcuna intenzione di lasciarci fare.
Stephen Omohundro
Fondamentalmente tutti concordano con uno scenario in cui l’AI si ribellerà non perché vuole vendicarsi di noi, ma semplicemente perché i suoi piani non avranno più a che fare con noi. Qualcosa di simile, andando a ripescare dalla sterminata bibliografia Dickiana, al racconto Autofac, in cui un’industria automatizzata continua a produrre le sue merci anche dopo un olocausto nucleare, consumando le residue risorse del pianeta a danno dei sopravvissuti che non sanno che farsene dei suoi prodotti. Assomiglia molto alla storia delle graffette, no?
Più curiosa è invece una variante tutta italiana all’argomento, e che arriva direttamente dai giochi di ruolo. Sine Requie, GDR nostrano a tema horror in cui si immagina un D-Day alternativo in cui allo sbarco in Normandia è coincisa la resurrezione dei morti, vede l’impero russo sotto il potere di Z.A.R., un’intelligenza artificiale che è riuscita a creare una sorta di comunismo perfetto: tutti sono uguali, nel senso che sono ugualmente schiavi della sua tecnocrazia.
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Se nel paragrafo precedente non ho citato Invernomuto, l’IA che compare in Neuromante di William Gibson, è perché il panorama più vicino al padrino del cyberpunk è quello di gente come Tim Cannon, il fondatore di Grindhouse Wetware. Collettivo nato allo scopo di potenziare l’umanità attraverso tecnologie sicure, accessibili e open source, quello di Tim e dei suoi (pochi) compagni è un movimento che cerca di andare oltre le limitazioni del corpo, sperimentando ad esempio impianti sottopelle che indicano il nord magnetico. Se i transumanisti che studiano come convogliare la propria coscienza su hard disk vogliono escludere il corpo, quelli di Grindhouse Wetware non vanno molto lontano visto che Cannon stesso all’interno del libro dichiara:
Chiedi ai transgender, ti diranno tutti che sono intrappolati nel corpo sbagliato. Io invece sono intrappolato nel corpo sbagliato perché sono intrappolato in un corpo. Tutti i corpi sono sbagliati.
Tim Cannon
La descrizione che il leader dei grinder fa del suo primo impianto, innestato sottopelle grazie a un’operazione compiuta non da un medico ma da un ingegnere tedesco specializzato in modificazione corporea (che ha operato, dulcis in fundo, senza anestesia), non può non ricordare l’inizio di Tetsuo, geniale opera prima di Shin’ya Tsukamoto, in cui a seguito dell’investimento accidentale di un uomo intento a innestare parti metalliche nel suo corpo il protagonista comincia, a sua volta, a trasformarsi inspiegabilmente in un cyborg. Film seminale, girato con un budget irrisorio da uno Tsukamoto coinvolto in ogni fase del lavoro, riesce con un montaggio che fa largo uso dello stop-motion, una colonna sonora dai toni industrial e quintalate di stile a sopperire a qualunque carenza monetaria.
Tsukamoto, non contento di fare praticamente tutto, in Tetsuo ci recita anche
Se collettivi come Grindhouse Wetware nascono con una visione democratica (per quanto inquietante) dell’augmentation, ben più preoccupanti sono gli scenari che emergono quando si inserisce nel contesto la DARPA. Branca del pentagono che si occupa dello sviluppo di nuove tecnologie per scopi militari (il GPS e ARPANET, tecnologia da cui si è sviluppato Internet, sono entrambi loro traguardi), la DARPA organizza concorsi legati allo sviluppo di robot da utilizzare in contesti pericolosi per gli esseri umani (tipo la guerra) e allo stesso tempo sovvenziona, tramite il Defense Sciences Office diretto da Michael Goldblatt, studi dai risultati inquietanti, come topi pilotabili da portatili grazie a elettrodi impiantati nel cervello e, come prossima meta, ibridazioni uomo-macchina che portino ad avere soldati insensibili al dolore, attivi 24 ore su 24 e in condizione di comunicare col pensiero.
Proprio quest’ultima caratteristica mi ha ricordato un passo di World War Z, il libro di Max Brooks da cui è stato tratto un film talmente brutto e fuori fuoco che lo sconsiglio a chiunque. Vero e proprio resoconto di guerra, ma di una combattuta contro gli zombi, Brooks riesce a trattare il tema in maniera serissima, tracciando anche un quadro geopolitico credibile del mondo post-apocalisse zombi. In un capitolo descrive l’azione di un battaglione dell’esercito, i cui membri sono collegati visivamente l’uno all’altro, mentre cerca di riconquistare New York: la tecnologia ottiene però un effetto contrario a quello sperato, cioè ottimizzare i contatti fra i soldati, facendoli finire nel panico quando le reti neurali gli mostrano in diretta la morte dei compagni. Forse anche la direttrice della Darpa Arati Prabhakar dovrebbe leggere il libro di Brooks, ma è più probabile che le sia gradito uno scenario come quello immaginato da Charlie Brooker nella puntata Gli uomini e il fuoco della serie Black Mirror: qui una squadra speciale dell’esercito statunitense si trova a combattere contro i “parassiti”, orribili mutanti solo in parte umani, ma un malfunzionamento nella maschera di uno dei soldati gli permette di scoprire che i nemici in realtà sono umani quanto loro.
Visto che non c’è limite al peggio, e in questo caso peggio fa rima con capitalismo, sappiate che Amazon e Uber non stanno cercando di creare ibridi tecnologici che possano lavorare ininterrottamente, ma si accontentano semplicemente di sviluppare tecnologie che non prevedano la nostra presenza. Non che lavorare in un magazzino dell’azienda di Jeff Bezos sia un sogno, ma sapere che tramite l’Amazon Picking Challenge si cerca di eliminare l’ultimo intermediario fra il prodotto e il suo cliente, cioè i dipendenti fisici, e che il servizio di consegne tramite droni è già stato testato…be’, tutto questo non fa piacere. Quel simpaticone di Travis Kalanick, il patron di Uber che già si è attirato l’odio dei tassisti di tutto il mondo, sta invece aspettando come la manna che il Self-Driving Car Project di Google (azienda che, tramite start-up e consociate varie, sta dietro più o meno a tutto ciò di cui si è parlato fino ad ora) diventi realtà per fare a meno degli autisti: nella sua ottica sono un lusso che, una volta eliminato, permetterebbe un ulteriore abbassamento dei costi per i clienti, e quando gli è stato chiesto come spiegherebbe agli autisti la loro obsolescenza si è limitato a dire “così va il mondo, non è tutto rose e fiori”.
Meglio rimanere nello scantinato dove operano Tim Cannon e soci insomma, che per quanto strani possano sembrare mantengono un animo poetico nelle loro azioni. Sentire il suo collaboratore Marlo Webber dichiarare che
Vuole diventare un’entità così potente e onnisciente da non lasciare letteralmente più nulla fuori di sé, al di là di sé, finché tutto ciò che esiste, tutto lo spazio e il tempo, non saranno consustanziali con l’essere precedentemente noto come Marlo Webber.
Mark O’Connell, Essere una macchina
fa quasi tenerezza, e si avvicina all’aspirazione dello stesso Cannon quando dice di voler semplicemente “esplorare pacificamente e amorevolmente l’universo per l’eternità”. A sentire discorsi come questo viene in mente il bizzarro Clancy Gilroy, protagonista della serie animata The Midnight Gospel, che esplora l’universo intervistando assurdi personaggi che ampliano sempre di più la sua visione della realtà: nel terzo episodio, Cacciatori senza dimora, Clancy finisce per essere edotto sui misteri della magia da un androide comandato da un pesce in una teca di vetro (psichedelia portami via), e le sue spiegazioni sulla via per costruirsi un corpo astrale sarebbero utili a Cannon quando questi si chiede “in che senso io? Cos’è una persona?”…forse anche più dei suoi innesti futuribili.
Vecchiaia addio: come rendere la morte un problema risolvibile
“Davvero posso vivere per sempre?” “No, Nemo, tu no”
In questo blocco conviene che escludiate qualunque dubbio metafisico sul fatto che è l’approssimarsi della fine che rende la vita degna di essere vissuta: nella Silicon Valley dei transumanisti non trovereste nessuno disposto a darvi retta, visto che il più “ragionevole” al riguardo potrebbe essere Jason Xu, il leader della pseudoreligione Terasem, che ha inscenato davanti alla sede di Google una manifestazione con cartelli come “Google, per favore, risolvi il problema morte“. E l’azienda con sede a Mountain View, ovviamente, ci sta pensando davvero.
Da Aubrey De Grey, specialista in gerontologia biomedica e direttore dell’organizzazione no-profit SENS che si occupa di soluzioni tecniche contro l’invecchiamento, a Peter Thiel, multimiliardario cofondatore di Paypal che dichiara
La potenza di calcolo investirà in misura crescente il campo della biologia, permettendoci di rimediare a tutte le sofferenze umane così come rimuoviamo un bug da un programma informatico.
Peter Thiel
sono in molti quelli che si adoperano per raggiungere la velocità di fuga della longevità, traguardo dopo il quale il progresso tecnologico ci permetterà di vincere la morte naturale per distacco. Larry Page e Sergey Brin ad esempio, i fondatori di Google che col loro ramo di venture capital investono copiosamente nel settore delle biotecnologie e con Calico, società biotech fondata nel 2014, compiono ricerche con l’obiettivo dichiarato di combattere l’invecchiamento e le malattie legate all’età; Laura Deming, giovanissima ricercatrice che Peter Thiel ha sovvenzionato con 100000 dollari per creare il Longevity Fund, società espressamente indirizzata al progetto dell’estensione della vita umana; Zoltan Istvan, il meno fantascientifico di tutti, che si è limitato a guidare in lungo e in largo per gli Stati Uniti un camper a forma di bara per sensibilizzare tutti sul problema della morte, candidandosi nel contempo alle elezioni presidenziali 2016 come primo effettivo candidato transumanista. La cosa strana è che a nessuno è venuto in mente che un mondo di immortali (o quasi) finirebbe per essere sovrappopolato a livelli che ora non possiamo neanche immaginare, a meno che Thiel non stia bluffando quando dichiara che l’esenzione dalla morte non sarebbe ad appannaggio solo dei ricchi ma “finirebbe per diffondersi verso il basso, fino a noi”.
Questo fantastico mondo senza vecchi, propagandato proprio in un momento storico in cui si cerca di combattere l’ageismo (e vengono realizzati documentari come questo al riguardo), sembra paradossale quanto le dichiarazioni del sopracitato Istvan quando, interrogato riguardo alle barriere architettoniche presenti a Los Angeles, preferisce parlare di esoscheletri potenziati con cui “aggiustare” i disabili piuttosto che della cultura discriminatoria che emerge nell’ambiente urbano. Istvan in fondo vede qualunque devianza dal “canone” base come qualcosa da ottimizzare, e se le sue reazioni di fronte a un adolescente con un grave handicap mentale possono essere quasi condivisibili (“Saresti contento di vivere così?” chiede a O’Connell, “Ti piacerebbe vivere senza poter pensare, sempre agitato, combinando un disastro dopo l’altro?”) sono le derive di tale pensiero a spaventare: tipo quella che, in Danimarca, sta portando a una società senza bambini down.
L’allungamento della vita tramite la medicina è un argomento che è stato trattato, in maniera simile, dai romanzi Non lasciarmi del premio Nobel per la letteratura 2017 Kazuo Ishiguro e The repossession mambo di Eric Garcia: in entrambi si ipotizza un futuro in cui è possibile ricorrere alla sostituzione degli organi, ma sarebbe un peccato aggiungere altro. Contando che il romanzo di Garcia è inedito in Italia potreste volerli recuperare nella loro trasposizione cinematografica (il romanzo di Ishiguro è stato portato sul grande schermo da Mark Romanek con titolo omonimo, il secondo è diventato invece Repo Men e vede Jude Law e Forest Whitaker nel cast), nel qual caso vi consiglio di aggiungere alle visioni anche Mr. Nobody. Diretto dal regista belga Jaco Van Dormael e interpretato da uno Jared Leto ancora lontano dal fiasco di Suicide Squad (curiosamente è stato l’unico attore per cui interpretare il Joker è stato il punto più basso della carriera, invece che il più alto), il film racconta gli ultimi giorni di vita di un ultracentenario, perso nei suoi confusi ricordi mentre il mondo intero attende con curiosità la sua dipartita: la razza umana ha infatti raggiunto l’immortalità, e Nemo (questo il nome del protagonista) è l’ultima persona sulla Terra a dover affrontare la morte.
Conclusioni: la visione di Ray Kurzweil contro quella di Stanislaw Lem
Fra il dire e il fare c’è di mezzo un oceano. Senziente.
Il nome di Ray Kurzweil potrà non dirvi molto, ma se si può indicare un vero e proprio guru all’interno del movimento transumanista quello è lui. Inventore geniale (a lui si devono lo scanner a piano fisso, la macchina di lettura usata dai ciechi e, tramite un’azienda fondata con Stevie Wonder, sintetizzatori all’avanguardia utilizzati tra gli altri da Scott Walker e dai New Order), Kurzweil è noto soprattutto per i suoi scritti in cui predica l’avvento della Singolarità, un futuro di abbondanza tecnologica che, secondo i suoi calcoli, dovrebbe arrivare a compimento nel 2045.
«La Singolarità» scrive Kurzweil «ci permetterà di superare queste limitazioni dei nostri corpi e cervelli biologici. Acquisiremo potere sul nostro stesso destino. La nostra mortalità sarà nelle nostre mani. Saremo in grado di vivere quanto vorremo (una cosa un po’ diversa dal dire che vivremo per sempre). Capiremo a fondo il pensiero umano e ne estenderemo ed espanderemo enormemente il dominio».
Mark O’Connell, Essere una macchina
In una scena del documentario a lui dedicato, The transcendent man, Kurzweil osserva l’Oceano Pacifico al tramonto e si perde in una digressione sul numero di calcoli che rappresenta quella massa liquida. Per lui tutte quelle molecole d’acqua che interagiscono non sono altro che materiale computabile, informazioni che possono essere analizzate ed immagazzinate, basta solo arrivare ad avere la potenza di calcolo necessaria.
A questa visione meccanicistica dell’uomo e del mondo, affine a quella del pioniere dell’intelligenza artificiale Marvin Minsky (il quale definiva il cervello una “macchina di carne”), mi piace opporre quella filosofico-fantascientifica dello scrittore polacco Stanislaw Lem. Nel suo romanzo più famoso, Solaris, immagina un mondo lontano che l’umanità ha cercato di studiare (creando una branca apposita della scienza, la Solaristica) senza però arrivare a comprenderne i segreti: la sua orbita instabile resta un mistero, così come l’oceano che ne compone la superficie, capace di assumere forme incredibili ma in cui non si riconosce un senso logico. Solaris è allo stesso tempo un pianeta e un essere vivente unico, mosso da un’intelligenza talmente aliena alla nostra da rendere impossibile la comunicazione con esso: ci proverà lo psicologo Kelvin, protagonista del libro (da cui sono stati tratti ben due film, uno del regista russo Andrej Tarkovskij nel 1972 e uno diretto da Steven Soderbergh e interpretato da George Clooney nel 2002, quest’ultimo universalmente riconosciuto come inferiore), trovandosi però confuso e atterrito quando l’oceano pensante che “È” Solaris lo metterà di fronte una copia identica della moglie morta.
Kurzweil, di fronte all’Oceano, pensa di poter comprendere tutto; Lem, col suo di Oceano, ci ricorda che può esistere una coscienza diversa da quella dell’uomo nell’universo. Il futuro darà ragione a uno dei due, e sono curioso di vedere quale.
«Dammi retta, Kelvin: apriamo i portelli inferiori e chiamiamolo! Può darsi che ci senta! Chissà qual è il suo nome…Ti rendi conto che abbiamo dato un nome a tutte le stelle e pianeti, e che quelli un nome magari ce l’avevano già? Che usurpazione!»
Stanislaw Lem, Solaris
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