Era il 2013 quando mi sono ritrovato in mano il primo disco de Gli Altri, Fondamenta, strutture, argini, e fin dai primi ascolti mi convinse subito. C’erano potenza e direzione, oltre a un sottile malessere che emergeva prepotente soprattutto in una canzone, All’orizzonte,: vi si poteva sentire viva sulla pelle l’oppressione dei lati più oscuri e inumani di una città, Savona, dove loro hanno cercato di ampliare l’attività aggregativa. Lo hanno fatto tramite la collaborazione con un circolo, il Rude Club, la creazione di un’etichetta, la Burning Bungalow, e in generale aprendosi all’aiuto reciproco fra band, che fosse per una data o per uno split. Li ho incontrati una sola volta, causa distanza geografica, durante una loro data al FOA Boccaccio di Monza in cui ho visto la maggior concentrazione di gruppi strani della mia vita: ricordo un tipo che suonava dei pedali con un passamontagna in faccia, il loro live col violinista a pogare mentre suonava e l’ultimo gruppo in scaletta, alle tre del mattino, col cantante che faceva crowdsurfing su pubblico e band riuniti tutti assieme. Gli feci anche una bella intervista, che trovate qui se volete farvi una cultura su come si creano sinergie positive.
Formatisi nel 2009 nel bel mezzo di quella che loro definiscono “la grade depressione del panorama musicale savonese”, Gli Altri contaminano da subito la loro musica con vari elementi, dal punk allo stoner passando per hardcore, noise e post metal. I primi brani escono nel 2011, racchiusi nell’ep Incipit, mentre il primo album arriva nel 2013: Fondamenta, strutture, argini coniuga tutte le loro influenze, in un mix coeso e che si fa forza anche di un elemento inconsueto per il genere, il violino distorto. Partecipano poi alla compilation L’inverno della civetta, che riunisce le scene genovesi e savonesi in un esperimento molto particolare promosso dal Greenfog Studio di Genova: mischiare i componenti per creare brani con band da “one shot”, il tutto con ottimi risultati. Dopo uno split con la band sanremese Uragano ecco arrivare nel 2016 l’ultimo (per ora) disco, Prati, ombre, monoliti, realizzato col supporto di ben trentotto etichette diverse in pieno clima di collaborazione fra realtà differenti. I membri fanno parte anche di varie altre realtà musicali della zona, dai 5mdr ai Nêuvegramme (di cui sta per uscire il secondo disco) passando per FufaZ Quartet e Neive, tutti progetti che condividono la scelta del free download dei loro dischi (il che, come al solito, non significa che non possiate pagare comunque per la loro musica).
Istanbul è una delle canzoni della band savonese che più mi ha impressionato fin da principio, uno dei pochi pezzi strumentali del loro repertorio. Nel suo incedere crea un crescendo di emozioni (anche ansia) dall’invidiale equilibrio, una struttura musicale che mi ha fatto pensare a un cammino: la città che fa da sfondo al racconto che ne ho tratto non è Istanbul, non è nemmeno reale (anche se abitare a Milano ha influenzato certe immagini), ma condivide tutte quelle problematiche di relazioni sociali distorte e marginalizzazione delle minoranze in cui vorrei tanto poter dire di non ricadere io stesso, mentre il “look” del protagonista è stato ispirato da questo video. Lo trovate come al solito dopo il brano, buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).
In cammino
L’uomo senza nome entrò in città alle prime luci dell’alba, accolto dagli occhi sonnolenti delle persone in coda sulla tangenziale. Nessuno fece caso a quella figura fuori luogo, arrancante vicino al guardrail, persi nel ricordo del letto caldo abbandonato da poco. Non videro la sua bocca muoversi nervosa al ritmo di un mare di parole che affiorava troppo veloce, perché solo una volta sceso dalle rampe d’accesso liberò la testa dal cappuccio che la copriva.
Qualcuno lo notò in periferia, senza rimanerne impressionato. Agli angoli delle strade, sotto ai ponti o fermi ai semafori senzatetto e accattoni erano una vista comune, così un uomo dai capelli sconvolti, biascicante cose senza senso, non attirava l’attenzione più del necessario. Qualche negoziante rimase a osservarlo per essere sicuro di evitare rogne, i ragazzini lo indicarono da lontano, un paio di passanti provarono pena per lui, senza capire come fare ad aiutarlo e senza averne veramente voglia. Chi lo vide attraversare la porta della città vecchia, abbandonando il giubbotto logoro, pensò solo a quanti folli girano ancora in libertà.
Attraversò le zone più centrali come un torrente di parole folli, un’anomalia nel suo abbigliamento logoro e col petto nudo e rachitico esposto al freddo. Qualcuno si fermò a guardarlo, azzardando alle sue spalle foto e video da condividere con gli amici, molti si misero a commentare la sua inconsueta apparizione con sermoni piccati da cui ricevevano cenni di assenso in risposta. Tutti pensarono che qualcuno avrebbe dovuto avvertire la polizia, ma nessuno lo fece: all’ora di pranzo l’uomo si inoltrò claudicante fra i palazzi del centro, lasciando i pantaloni come ricordo ai cittadini indignati.
In mutande e urlante arrivò all’ombra dei grattacieli, ottenendo finalmente attenzione. Gli uscieri di alberghi e palazzi lo fecero allontanare velocemente, chi con le buone e chi con le cattive maniere, qualche passante che non aveva troppa fretta si eresse a paladino del decoro cittadino chiamando le forze dell’ordine, dalle tavole imbandite, tanto dei ristoranti stellati quanto dei fast food, arrivarono risate ed occhiate in tralice.
“Dove andremo a finire”, pensarono tutti tenendosi a distanza. Lo videro spogliarsi nudo di fronte al grattacielo più scintillante della città e restare lì, curvo e delirante, con la polizia a pochi passi.
Emise allora un grido che distrusse i vetri sul suo percorso, incrinò muri e lamiere, raggiunse ogni cittadino e lo fece sentire colpevole per ogni dramma su cui ogni giorno chiudeva gli occhi, per le mancanze di una città che si specchiava nel suo marciume, rimbombò come un eco nelle strade anche quando fu silenzio e l’uomo, non più zoppicante, uscì dalla città così come vi era entrato, camminando senza fretta fra le macerie.
Emersi dal terrore capimmo il suo intento. Ci donò l’opportunità di ricostruire, ma non la cogliemmo. Lo maledicemmo anzi, perché odiavamo sentirci gravare sulle spalle la responsabilità del futuro.
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