Racconto in musica 185: Questo lo devi ricordare (The Felice Brothers – Jazz on the Autobahn)

Il legame che unisce musica e letteratura è stretto e di lunga data, ma non è questo il posto adatto ad esplorarlo storicamente (tradotto: non ne siamo in grado). Preferisco fare un piccolo esempio di questa mutua influenza, ovvero il video di una canzone che ho sicuramente già nominato in questo blog: Calamity song dei The Decemberists. Evidentemente appassionati della scrittura di David Foster Wallace (come dar loro torto?), i componenti della band di Portland hanno deciso di sfruttare il tema della loro canzone per mettere in scena una delle parti più iconiche di Infinite jest, ovvero la partita di Eschaton: mentre la canzone scorre e l* musicist* della band siedono su comode sdraio facendo funzione di giudici, alcun* ragazz* usano il campo da tennis per una complicata simulazione di guerra che finisce nel pandemonio più totale, fra palline sparate in faccia e teste nello schermo del computer. Non saranno stati i primi né saranno gli ultimi a farsi influenzare in questo modo, tanto che appena ho letto il racconto che Edoardo Balacchi ha scritto per noi mi sono immaginato la sua storia trasposta in immagini, con in sottofondo la canzone dei The Felice Brothers che lo ha ispirato: in fondo, un uomo può sognare.

Edoardo ce lo siamo andati a cercare dopo aver letto alcuni suoi racconti sul web, perché ha un modo unico di unire l’onirico e il surreale con il nostro mondo di tutti i giorni, risultando allo stesso tempo spaesante e ficcante come pochi. Ubicato nella ridente (?) provincia di Milano, dove vive e scrive, nel 2015 vince il Premio Bukowski con la raccolta di racconti Corpo grottesco, successivamente pubblicata da Giovane Holden Edizioni e già delineante il suo campo d’interesse in letteratura. I suoi testi non hanno affascinato certo noi per primi, dato che sono apparsi su una miriade di riviste letterarie: Narrandom, Spore, Spaghetti Writers, Rivista Blam, Waste, multiperso, Grande Kalma. Topsy Kretts, Rivista Gelo, Super Tramps Club, Nido di Gazza, Alkalina, Nazione Indiana e La Nuova Carne, per la cui estensione editoriale La Nuova Carne Edizioni è in corso di pubblicazione una novella inedita. Accanito bibliofilo, Edoardo ha fondato e gestisce anche il blog/rivista Nabu – Libri e altre storie, che vi invitiamo a esplorare per abbuffarvi di nuovi racconti suoi e non solo.

Coi The Felice Brothers mi ritrovo nella consueta difficoltà di parlarvi di una band che ha pubblicato dodici dischi, attiva dal 2006, e di cui io conosco giusto una manciata di canzoni ascoltate nelle ultime due settimane, cioè da quando Edoardo me li ha proposti come fonte d’ispirazione per il suo racconto. Originaria delle Catskills, catena montuosa nello stato di New York che nella mia mente è indelebilmente associata alla seconda stagione di The Marvelous Mrs. Maisel, la band dei fratelli Felice è effettivamente composta nel suo nucleo centrale dai fratelli Felice (non è così scontato): Ian, voce e autore dei testi nonché pianista e chitarrista, James, che suona piano, organo, accordion e si occupa anche delle seconde voci, e Simone, batterista per i primi tre anni e poi transfugo per inseguire propri progetti personali, sia nel mondo della scrittura che in quello musicale (ha pubblicato sia dischi solisti che col duo The Duke & The King, formato insieme a Robert “Chiken” Burke). La loro carriera inizia nella maniera ruspante che piace a noi da queste parti: nella metropolitana di New York, con grandi sogni e pochi soldi, tanto che il primo disco se lo producono e pubblicano da soli. Through these reins and gone esce lo stesso anno della formazione della band e dimostra già ai fratelli e ai loro sodali (internet non mi aiuta a dipanare i cambi di formazione, ma fra i musicisti più attivi negli anni si contano l’amico Josh “Christmas Clapton” Rawson, Greg Farley e David Estabrook) che la musica è qualcosa su cui puntare, tanto che la storica Radio Woodstock WDST li inserisce nella sua Top 25 di fine anno e un’etichetta inglese, la Loose, si interessa a loro e produce già l’anno successivo il secondo disco Tonight at the Arizona. Qui potete inserire una lunga lista di nomi: dischi, etichette (Fat Possum, Team Love e Yep Roc fra le principali, ma nel corso degli anni The Felice Brothers si sono anche autoprodotti tramite la loro etichetta New York Pro), band con cui hanno suonato (il primo grosso colpo può forse essere identificato nell’apertura di quattro concerti per la Dave Matthews Band nel 2010) e festival internazionali a cui hanno partecipato, fino ad arrivare ai giorni nostri e all’ultimo disco Valley of abandoned songs, uscito nel 2024 per la Million Stars (etichetta di Conor Oberst dei Bright Eyes, evidentemente innamorato della loro musica visto che era già stato fondatore della Team Love) in una formazione che comprende Jesske Hume al basso, Will Lawrence a batteria e percussioni ed entramb* ai cori. Vi sarete però accorti che in tutto questo non abbiamo affrontato una questione fondamentale: che genere fanno i The Felice Brothers?

Folk principalmente, mischiato al country e al pop e imbevuto dell’essenza di Bob Dylan. La prima cosa che salta all’orecchio ascoltando la voce di Ian Felice è la somiglianza con il modo di cantare del celebre cantautore e premio Nobel (giusto per ricordarlo a chi si fa venire l’orticaria al pensiero), ma il paragone ucciderebbe chiunque non ha del talento nella scrittura e Ian, così come l* altr* membr* della sua band, ne ha da vendere. I testi dei The Felice Brothers sono profondi senza apparire stucchevoli, associati a una musica che, con le dovute differenze fra disco e disco (Celebration, Florida, uscito nel 2011, pare sia un non riuscitissimo esperimento a base di synth), accoglie l’ascoltatore in un mondo di melodie facili ma non per questo banali, luminose anche quando, ed è il caso ad esempio di From dreams to dust (2022), esplorano lati oscuri di sé stessi e degli Stati Uniti: non vogliamo fare gli apocalittici prospettando la fine del mondo in caso di vittoria delle elezioni da parte di Donald Trump, ma se la prossima settimana Kamala Harris diventerà la prima Presidente degli USA noi festeggeremo irridendo il tycoon razzista, sessista e stronzo in generale ascoltando questa canzone e brindando a un futuro migliore, pur consapevoli che rimarremo delusi.

Neanche a farlo apposta, appena parlato di apocalisse ci troviamo ad affrontarne un’altra (manco l’avessimo scritto noi questo articolo!). Ispirato da Jazz on the Autobahn, traccia d’apertura di From dreams to dust, così come da Casablanca e dai racconti del recentemente scomparso Robert Coover (il titolo del racconto è un omaggio alla raccolta dello scrittore statunitense Una serata al cinema, o questo lo devi ricordare), Edoardo ha trasformato l’epica on the road del testo in un pastiche citazionista che fra morti viventi e addii strazianti vorrei davvero vedere filmato, un ideale video della canzone che faccia il paio con la Calamity song di cui ho parlato in apertura: in attesa che i potenti mezzi di Tremila Battute mettano in contatto le parti voi potete in esclusiva mettere in sottofondo la canzone, abbassare le luci e farvi trasportare dalle parole di Edoardo, subito dopo il mio augurio di buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero l* artist* accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Scarica il numero Zero, il numero Uno e il numero Due della fanzine di Tremila Battute!

Questo lo devi ricordare, di Edoardo Balacchi

Eravamo in una situazione da Casablanca, innamorati, con il trench lungo e il vento, peccato solo per i morti.

Ce n’erano a decine sulla pista d’atterraggio, morti senza occhi e morti con le bocche oscenamente spalancate, morti interi e a pezzi, schiacciati dal passaggio degli ultimi aerei o dalla furia di chi fuggiva calpestandoli. I loro resti ci inzuppavano le suole delle scarpe in un romantico tramonto da lungometraggio.

Spiegai a Ilsa che non sarebbe bastato volare via, che ci aspettavano i titoli di coda e poi il lungo addio, il nero, un sipario.

Lei scuoteva la testa – una testa bellissima che in bianco e nero sarebbe sembrata una cascata di luce – e ripeteva che doveva esserci un modo, un modo c’era sempre.

Il motore dell’ultimo aereo alle nostre spalle rombava, avviandosi, e i passeggeri concitati dal portellone le facevano cenno di avvicinarsi mentre le ruote avanzavano sopra crani e arti recisi come se fossero chilometri di pellicola sprecata.

Ilsa mi strinse più forte, le sue dita da annegato s’inabissavano nella stoffa del mio trench mentre provava a parlare. Balbettò qualcosa, si asciugò una lacrima con la manica, poi rimase in silenzio. Ci guardammo negli occhi più a lungo del dovuto, guardammo il cielo smarrirsi nel volo frenetico di uno stormo di uccelli confusi, che giravano in tondo andando a sbattere contro i pali della luce o le reti che delimitavano il confine dell’aeroporto.

Ci piovvero addosso piume e guano ma non ce ne curammo: stringendoci provavamo a rimandare la fine, eppure sentivamo di avere solo pochi istanti.

Non c’è modo di fuggire, provai a ripetere mentre qualcosa da lontano muggiva e scalpitava – una folla di predoni, cultisti dell’apocalisse, morti risorti?

Gli uccelli uno per volta cadevano dalla volta celeste come se fosse di cartone dipinto e Ilsa piangeva, scuoteva la testa.

L’aereo avanzava, intanto, ci passava accanto spazzandoci i vestiti con la forza di una colonna sonora.

Non c’è posto in cui rifugiarsi, declamai come da copione, è la fine.

In quel momento Ilsa si voltò e un fascio di luce le disegnò attorno un’aureola di pulviscolo e piume. L’apocalisse aveva il sapore di popcorn stantio, di penne bruciate, di una tenda polverosa, suonava come il jazz.

All’improvviso arrivò. Sentii qualcosa perforarmi il torace e trascinarmi verso il basso come dentro un proiettore, lo sentii bruciarmi come una vecchia pellicola infiammabile mentre Ilsa provava a fuggire, un piede dietro l’altro, i tacchi abbandonati fra i cadaveri e il prologo ormai dimenticato.

Quando l’aereo decollò mi trovai steso a terra a fissare il cielo che si faceva sempre più sfuocato, un senso caldo e liquido di naufragio, mentre sopra di me s’incideva, in una bella grafia ricamata, la parola FINE.

Ti è piaciuto questo racconto/articolo? Segui la pagina Facebook di Tremila Battute!

Racconto in musica 184: Non una commedia romantica (Camilla Sparksss – Psycho Lover)

Per un certo periodo, negli anni in cui smontavo il salotto di casa mia per organizzarci dentro dei concerti, io e l* altr* membr* dell’associazione novarese ASAP ci siamo avvalsi dell’importante contributo dell’agenzia di booking Vertigo e del suo fondatore Matteo. È grazie a lui se mi sono ritrovato a fare da fonico improvvisato a uno degli animatori del team di Rick e Morty (trovate la storia qui), ma anche a fare colazione chiacchierando di parchi del sudovest (in un inglese stentatissimo, ovviamente il mio) con una chitarrista folk-blues statunitense o ad ospitare una cantautrice elettronica tedesca trapiantata negli states. Avremmo potuto organizzare tanti altri concerti, che di proposte interessanti Matteo ne era pieno, ma vuoi il tempo, vuoi la vita, vuoi il trasferimento milanese che, fra le mille soddisfazioni che mi ha dato, non comprende un soggiorno e dell* vicin* adatt* alla musica live. Forse è un falso ricordo, ma fra i nomi che erano saltati fuori in quel periodo c’era anche quello di una musicista il cui nome mi incuriosiva, vuoi perché era italiano anche se italiana non era, vuoi per le svariate s alla fine del suo cognome: ci ho messo un po’ di anni a scoprire che quel nome era solo un moniker, e altrettanti ce ne sono voluti per vederla live, ma tutto questo oggi ha portato Camilla Sparksss su queste schermate.

L’incontro (per modo di dire, visto che lei era sul palco e io in mezzo al pubblico) con Barbara Lehnhoff, vero nome dell’artista, è avvenuto ad aprile di quest’anno all’Arci Bellezza, durante una serata pregna di musica interessante (l’edizione primaverile dello Psychodelice Fest) che probabilmente porterà altri nomi su questo blog. Il progetto Camilla Sparksss nasce invece nel 2012 per mano della stessa Lehnoff e di Aris Bassetti, una sorta di “side project” del duo Peter Kernel con cui la coppia di musicist* è attiva già da tempo. Come dice in questa intervista recuperata nei meandri dell’internet Lehnhoff sente la necessità di esprimersi in maniera diversa, creare qualcosa che si distacchi da quanto già fatto in carriera e che già dal primo singolo I’ll teach you to hunt (un riferimento giocoso e autobiografico all’infanzia passata in Ontario nella zona dei grandi laghi, isolata e priva di molte comodità) prende la forma di un’interessante commistione fra industrial, synth pop e post punk. Il primo disco For you the wild arriva nel 2014 pubblicato dalle etichette Africantape e On The Camper Records (quest’ultima già dietro le pubblicazioni dei Peter Kernel), ed è la conferma di quanto di buono sentito nel primo singolo: aggressivo, sensuale, una perfetta amalgama fra i ritmi glaciali della drum machine e synth tanto melodiosi quanto aspri in altri punti, perfetto contraltare di una voce che vive anch’essa di estremi. Bisogna aspettare la fine del 2018 per un nuovo singolo, qualche mese in più per un nuovo disco, ma Brutal è il tipo di album per cui vale la pena aspettare tanto: anziché smussare gli spigoli Camilla Sparksss li rende ancora più vividi, rende un poco più minimale la formula amplificando l’effetto sull’ascoltatore. Il mio giudizio può essere viziato dal fatto che è il primo che ho ascoltato, ma le abrasioni che provocano i synth trapananti di So what o il mondo deliziosamente allucinato in cui Walt Deathney scaglia l’ascoltatore sono masterpiece di un disco che chiude perfettamente con la dolente dolcezza di Sorry un discorso che esplora in maniera ambigua l’amore, le aspettative, l’autodeterminazione.

A Lehnhoff non piace sedersi sugli allori, e nemmeno fare le cose di fretta: per il disco successivo a nome Camilla Sparksss, escludendo la versione remix di Brutal uscita agli inizi del 2020, bisogna aspettare la fine del 2023, ma è qualcosa di spiazzante. Lullabies, pubblicato sempre dalla fida On The Camper Records, è un’esperienza musicalmente più morbida, ben illustrata dalla descrizione “eight bedtime stories for adult” coniata dall’artista stessa, ma le canzoni sono solo una parte del progetto: nell’edizione in doppio vinile è infatti compreso uno specchio che, piazzato sul giradischi, “anima” il vinile stesso con illustrazioni fra il fatato e l’inquietante (potete comprendere meglio il funzionamento guardando questo video). A meno di voler fare un salto in Francia o Svizzera le prossime occasioni per farsi incantare dalle sue bedtime stories o per farsi scuotere dai brani della sua precedente produzione sono a fine novembre in quel di Venezia e Livorno o a gennaio a Catania: se vi ho fatto venire la curiosità questa è la pagina giusta dove trovare aggiornamenti.

Lovin’ takes us to a dangerous place” canta Lehnhoff in Psycho lover, sesta traccia di Brutal, una canzone il cui senso lei stessa descrive con queste parole: “it’s awesome to fall in love, it’s horrific to loose love, both are equally dangerous yet everything in between is simply boring”. La noia sembra invece l’ultimo dei problemi per l* protagonist* del racconto, che nella loro relazione entrano in pieno nella dangerous place del testo: potete trovare le loro frammentarie testimonianze degli eventi subito dopo il brano che le ha ispirate, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero l* artist* accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Scarica il numero Zero, il numero Uno e il numero Due della fanzine di Tremila Battute!

Non una commedia romantica

M – Ci siamo conosciuti in ufficio. Lavoravamo su due piani differenti, per cui non l’ho notata per anni. Io cercavo di arrivare sempre in anticipo, ero meticoloso e ossessivo, ma il giorno che ci siamo incontrati una si è buttata sui binari e ha rallentato tutto. Non ci è nemmeno rimasta secca, era tutta scena: si è buttata con minuti di anticipo ed è rimasta lì a resistere ai soccorritori e ai poliziotti. È quello il motivo per cui abbiamo preso lo stesso ascensore, ed è bastato uno sguardo per capire che non sarebbe finita lì. Lo so che fa molto commedia romantica, ma è stata una delle poche cose romantiche in tutta questa storia.

G – L’avevo pagata io, la tizia della metropolitana. Sapevo che quel giorno doveva succedere qualcosa e che serviva il mio intervento per farlo accadere. Ovviamente non sapevo cosa, non sono una medium o che. Lo rifarei? Certo.

M – Le manette sono entrate in gioco quasi subito, ma non erano il punto. Sapevamo farci del male in maniera molto più raffinata e originale.

G – Ogni tanto lo stuzzicavo e gli dicevo che poteva farmi ciò che voleva. La prima volta mi ha fatto sdraiare, mi ha fatto chiudere gli occhi, poi si è sdraiato anche lui e mi ha appoggiato la testa su un fianco, come se fossi un cuscino. È stato così per non so quanti minuti, senza muoversi. Poi si è alzato senza dire niente, appena prima che mi mettessi a urlare.

M – Diceva che avevo uno sguardo inquietante. In metropolitana mi costringeva a guardare fisso le persone attorno a noi, per dimostrarmi che aveva ragione. Sceglieva sempre le persone più dimesse, fragili. Non so cosa volesse ottenere, non me lo ha mai detto: c’erano un sacco di cose che non ci dicevamo dopotutto. Dopo che un ragazzino mi ha quasi spaccato il naso ha smesso di chiedermi di farlo, penso perché il mio viso le piaceva integro.

G – Lo so cos’è un rapporto malato, riesco a riconoscerlo. So anche che il nostro ne aveva tutte le dinamiche. Per come la vedo io, però, singolarmente avremmo potuto solo annoiarci a morte o far del male a qualcun altro che non se lo meritava, che è il motivo per cui lui lavora fino a tardi e io sono finita qui. A modo nostro ci siamo amati, o se non ci siamo amati ci siamo perlomeno completati, e non dico che dovrebbe funzionare così ma fra noi così funzionava.

M – Sul lavoro non si sono mai accorti di nulla. Ho continuato ad essere una rotella efficiente dell’ingranaggio, mi hanno dato anche una promozione. Siete convinti che quello che c’è stato fra noi sia la causa di ciò che è successo dopo, invece è stata solo una storia che fino a un certo punto è stata bella e poi non lo è stata più. Non mi sento in colpa e neanche penso di averla scampata bella.

G – Mi spiace non poterle dare le risposte che cerca, ma probabilmente sta facendo le domande sbagliate. Se ne avrà altre mi troverà qui comunque, di sicuro non scappo.

Ti è piaciuto questo racconto/articolo? Segui la pagina Facebook di Tremila Battute!

Il dolore nella gioia, la gioia nel dolore: No title as of 13 february 2024 28,340 dead dei Godspeed You! Black Emperor

Questa non sarà esattamente una recensione (e probabilmente sarà anche uno degli articoli più brevi del blog): un po’ perché non saprei cosa dire di originale sulla musica dei Godspeed You! Black Emperor che non sia già stata detta da qualcuno che ne ha una conoscenza approfondita mentre io, mestamente, ho avuto con loro solo saltuarie frequentazioni (potete recuperare questa recensione su Ondarock se ne volete leggere almeno una); un po’ perché, all’ottavo disco in trent’anni di carriera, chi li ama ascolterà di sicuro No title as of 13 february 2024 28,340 dead e chi li odia difficilmente cambierà idea. Restano gli indecisi, quelli che non li hanno ancora ascoltati ma vorrebbero, e per convincerli a dare una chance a questo disco voglio metterne in luce alcuni aspetti che, in maniera onestamente partigiana (ma che proverò ad argomentare), ritengo lo rendano rilevante sia a livello concettuale che musicale.

L’ultimo album dei GY!BE è ovviamente un album politico. L’asse canadese del triangolo del post rock, che tocca anche Islanda e Scozia, è sempre stato quello più incline a spendersi per cause e battaglie (tipo l’anticapitalismo), un tratto distintivo tutt’altro che scontato per una band che non usa altre parole che quelle di inserti audio nei propri brani. Bastano però già il titolo e una breve introduzione sulla propria pagina bandcamp per evidenziare  l’argomento che vogliono porre all’attenzione dell* propri* ascoltator*: la strage che si sta svolgendo a Gaza.

THE PLAIN TRUTH==
we drifted through it, arguing.
every day a new war crime, every day a flower bloom.
we sat down together and wrote it in one room,
and then sat down in a different room, recording.
NO TITLE= what gestures make sense while tiny bodies fall? what context? what broken melody?
and then a tally and a date to mark a point on the line, the negative process, the growing pile.
the sun setting above beds of ash
while we sat together, arguing.
the old world order barely pretended to care.
this new century will be crueler still.
war is coming.
don’t give up.
pick a side.
hang on.
love.
GY!BE

I GY!BE indicano un dato incontrovertibile, qualunque sia la propria idea sulla guerra fra il governo di Netanyahu e Hamas, dell’insensatezza di questo conflitto. Si capisce chiaramente da quale parte stanno, ma impongono di pensare e non di pensarla come loro. Vuoi non farlo davanti a quella cifra, che nel frattempo ha superato 40,000? È un discorso breve e conciso, ma risuona in ogni brano.

No title as of 13 february 2024 28,340 dead è giocoforza anche un disco intenso, nella grandiosità di momenti lirici o tragici (la partenza a vele spiegate sul finale di Babys in thunderclouds ad esempio) così come nell’introspezione minimalista (un tratto dei GY!BE che ho sempre apprezzato meno, ma che nella prima metà della tetra Pale spectators takes photographs funziona come non mai). Quell’intensità, marchio di fabbrica della band, qui più che mai si nutre di distanze, dalla gioia più luminosa alla disperazione più nera (mai nera però quanto il finale di Mladic nel disco Allelujah! Don’t bend! Ascend!, che mi strappa sempre una lacrima), ma quelle distanze riesce a colmarle e mischiarle in due momenti che secondo me, più di qualunque altra parola, evidenziano come l’urgenza creativa che li ha riuniti per comporre e registrare questo disco abbia portato le loro singole emotività musicali a un livello altissimo.

Sei minuti e quaranta secondi di Raindrops cast in lead, ascoltate il modo in cui il violino entra sulla seconda nota del giro armonico. L’atmosfera è serena, ci si può immaginare mentre si osserva il sole tramontare su un panorama meraviglioso, ma quelle note emesse dalle corde del violino sporcano la pace dello sguardo ed eccolo, “the sun sets above beds of ashes”: il brano finirà poi col trionfo della luce, ma quel momento porta la consapevolezza che l’esistenza è gioia e dolore, dolore nella gioia e gioia nel dolore. “Every day a new war crime, every day a flower bloom”.

Tre minuti di Grey rubble – green shots, ascoltate come il drammatico giro armonico che ci accompagna dall’inizio del brano muta improvvisamente, naturalmente, il germe di rinascita insito nella canzone che fiorisce. Siamo infinitesimali nell’universo, eppure una sofferenza come quella di Gaza ci sembra insostenibile, ed è dalla verità che sta fra queste due immagini opposte (e che le comprende entrambe) che i GY!BE hanno tratto le note di questo disco: “pick a side”, mentre costruisci un mondo in cui non ci siano più schieramenti.

Ora vi fidate di me e lo ascoltate per intero?

Scarica il numero Zero, il numero Uno e il numero Due della fanzine di Tremila Battute!

Ti è piaciuto questo racconto/articolo? Segui la pagina Facebook di Tremila Battute!

Racconto in musica 183: Io corro dietro al cane (Sleap-e – Growin’ up)

Una decina d’anni fa, senza l’allenamento necessario e per motivazioni ora confuse nella mia mente, decisi di farmi una vacanza in bicicletta andando da vicino a Novara fino a Roma. Geografia a scuola l’avevo fatta poco e male dalle medie in poi per cui (beata ignoranza) pensavo che una volta scavallato l’appennino tosco-emiliano avrei trovato lo stesso piattume della pianura padana ad attendermi: ora so che non è così, e lo sanno anche le mie gambe, ma con più informazioni e spirito di autoconservazione non avrei mai fatto quella sfacchinata e, visto che sono qui a raccontarlo, buona così. Già che dovevo fare delle tappe decisi che quello sarebbe stato anche un viaggio musicale, infatti mi fermai al confine fra Toscana e Lazio ad intervistare gli ormai disciolti (ahinoi) Dondolaluva e prima ancora, a Firenze, l’allora cantante dei Walking The Cow. ora se non disciolti quantomeno in stato vegetativo. Oltre a cominciare a sospettare di portare una certa sfiga (a Roma vidi un’altra band, i Kafka On The Shore, che intervistai più tardi a Milano e si sciolsero di lì a poco), da quell’esperienza imparai che i Walking The Cow omaggiavano nel loro nome un bizzarro cantautore, Daniel Johnston, precursore del movimento lo-fi e idolo di chiunque metta l’urgenza espressiva davanti ai mezzi e, a volte, anche al talento: quella stessa urgenza io l’ho sentita nella musica di Sleap-e, ed è grazie alla new entry Gianandrea Frighetto che oggi posso prendere la palla al balzo e parlarvene.

Sono solito pasticciare un po’ le biografie che mi inviano l* collaborator*, ma con grande capacità di mimesi Gianandrea aveva già scritto una propria presentazione perfetta e che pertanto, escluso questo preambolo, lascerò integra tacendomi se non per dire Benvenuto!
Gianandrea ha trent’anni in difetto ed è bassanese di nascita, di quella Bassano degli alpini, il Ponte Vecchio e la grappa. Vive con la moglie Francesca e la figlia Caterina in un angusto appartamento con la speranza di trasferirsi prima dell’arrivo del secondogenito.
Laureato in Economia aziendale prima ed Economia e Gestione dei Beni culturali poi, ha sempre amato la storia, Star Wars (portato come tesi di laurea) e la letteratura in generale. Un tempo era pure un collezionista di libri, ma dopo lo stage in biblioteca e il trasferimento nell’angusto appartamento ha deciso di rinunciarci.
Lavora nella cartotecnica di famiglia, dove discute quotidianamente con il padre e scrive durante le pause pranzo.
Ha cominciato quando aveva diciassette anni in un tira e molla che lo ha portato a pubblicare il suo primo romanzo, Santa Kultura, nel 2022 per La Ruota Edizioni. Dopodiché è stato un susseguirsi di concorsi, manoscritti (ancora inediti) e racconti sparsi tra varie riviste e web: Pastrengo, TerraNullius, Offline, Inchiostro ecc.
Presto uscirà pure su Narrandom e Metatron.

Dietro al moniker Sleap-e, fusione dei verbi inglese per dormire e saltare che già si fa dichiarazione d’intenti, si nasconde (per modo di dire) Asia Martina Morabito, bolognese classe 2000 che mette in piedi il progetto nel 2018, uscendo già lo stesso anno con un primo Ep omonimo anticipato da un singolo, Hard times, prodotto dalla band italoamericana Baseball Gregg. Sia queste prime canzoni che quelle inserite in Mellow, Ep di tre brani che sancisce nel 2020 l’ingresso nel roster del benemerito collettivo We Were Never Being Boring, hanno il sapore di qualcosa di raffinato e notturno, semplice nella costruzione e intimo nella poetica, bedroom pop ancora un po’ acerbo ma che mette in mostra un’artista già capace di affascinare. È però con Pouty lips, uscito a maggio 2022 sempre per WWNBB, che Morabito comincia a mettere a fuoco un proprio sound personale, fatto di suggestioni bossanova, costruzione ancora più lo-fi e un cantato sbilenco e trascinante, figlio di quel Johnston citato in apertura e di tutta quella scena anti-folk che lui ha contribuito ad influenzare. Senza perdere la componente più brumosa della propria musica, ben delineata dalla semplicità voce-tastiera di Fried chiken, Sleap-e aggiunge alla raffinatezza un’aura di divertita rilassatezza, due anime che si sposano benissimo tanto nei brani più “jazzati” come Cherub quanto in quelli, come Wounded, dove è la finta semplicità degli arrangiamenti a trascinare: la presenza dei fiati aggiunge spessore al tutto, ma si capisce che ulteriori mutazioni sono di là da venire.

A fine 2022 Morabito entra nel progetto La Zona D’ombra dell’etichetta Bronson Recordings ed inizia a lavorare a un nuovo disco, ma è l’estate 2023 a rappresentare un punto di svolta. Come racconta con dovizia di particolari nella pagina bandcamp di 8106, il disco uscito a marzo di quest’anno per la stessa Bronson, una crisi dovuta all’assenza da casa per lavoro e il confinamento in una stanza d’albergo a Milano, la 8106 del titolo (anche se, come racconta in quest’intervista, il numero non è quello reale), l’hanno portata a ribellarsi all’apatia e alla tristezza di quella situazione scegliendo un’altra strada: “I chose happyness. I chose myself”, per dirla con le sue stesse parole, e con quella scelta arriva un modo molto più diretto e giocoso di esprimersi. 8106 è un disco vivo, sregolato, imperfetto nella misura in cui le imperfezioni rappresentano spontaneità e non errori, punk (o egg-punk, come lo definisce la stessa Morabito) nella misura in cui se ne frega di tutto e punta al sodo, lo-fi nell’animo perché se hai qualcosa di urgente da esprimere non ti servono molti elementi per farlo: Poetry e J.i.t.f.o.d. sono anti-folk magistrale nell’esecuzione e nello spirito, Sad is ugly e No joke partono dalle suggestioni notturne della precedente produzione ma buttando via giocosamente quell’intensità e trovandone una nuova più energica, Leave my bum alone è scazzataggine punk che fa venir voglia di lasciarsi andare e ballare come cretin*. 8106 è un grido di vitalità che Morabito porta in giro per tutta l’Italia e che non ha ancora finito di roteare per lo stivale: se volete rimanere aggiornat* sui prossimi appuntamenti questa è la pagina giusta dove trovare informazioni.

La prima scelta di Gianandrea per il suo racconto non era in realtà Sleap-e, bensì la giovane band milanese The Sbrillies. Con un solo singolo all’attivo (che trovate qui, perché chi siamo noi per negare un po’ di visibilità alle nuove leve?) non me la sono sentita di dedicare loro un’intero articolo, ma nel momento in cui ho proposto di associare al racconto Growin’ up, penultima traccia di Pouty lips, ci è sembrato subito di aver trovato una casa musicale giusta per la storia: sia la canzone che il racconto parlano della difficoltà di crescere, di lunghi momenti passati a guardare la direzione che stiamo prendendo cercando di capire dove ci porteranno e come ci cambieranno, sia in notti insonni che in giornate solitarie dentro la propria cameretta. Quello di Gianandrea è anche un racconto che parla di neet, i giovani che non studiano e non lavorano, un tema che abbiamo molto a cuore e che lui decide di affrontare con una leggerezza che ben si sposa alle note di Sleap-e, un piccolo manifesto contro una società che ci vuole performativ* a tutti i costi: lo trovate come al solito dopo il brano, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero l* artist* accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Scarica il numero Zero, il numero Uno e il numero Due della fanzine di Tremila Battute!

Io corro dietro al cane, di Gianandrea Frighetto

Mamma bussa alla porta, il cane è da portare fuori. Non rispondo e rimango mummificato sul letto, i pensieri che corrono in un loop tra passato e futuro. Il presente è lo status di nullafacente, a casa dei genitori, senza laurea né prospettive, quindi meglio lasciarlo perdere.

In tv hanno abbreviato in neet la mia condizione, termine coniato dai think tank d’oltremanica o forse inventato dai nostri tg amanti dell’anglicizzazione.

In fondo, per i sondaggi di qualche sconosciuta università, il figlio italiano è il più sedentario tra i cugini europei e il dubbio è lecito porselo.

Mamma chiama di nuovo, io faccio finta di nulla.

A vent’anni se non studi o non lavori sei praticamente un fallito della società. Non ti lasciano pensare, non esiste l’incertezza di che strada scegliere, devi prenderne una e come va, va.

Affondo i pugni nel cuscino come un bambino capriccioso. Io una strada ce l’avevo pure: medicina. Mica i miei sono dottori, sì e no se hanno finito le scuole dell’obbligo, ma pensavo che un medico in famiglia facesse sempre bene. Per l’avvocato e il prete lasciavo spazio ai cugini.

Ma, dopo studi e test vacanzieri, ecco la botta sulle gengive: non ammesso. Altri mille garibaldini erano pronti a sacrificarsi tra i corridoi ospedalieri prima di me.

Le nocche alla porta si fanno pesanti e la maniglia si abbassa a vuoto. Ha mandato papà.

È stato lui il primo deluso e il secondo e il terzo. Quando ho smesso di provarci, il suo sguardo è stato chiaro: mi condannava per sempre al part time in nero nella pizzeria di quartiere. A vent’anni lui aveva già una famiglia, la casa, un figlio, solite cose.

Poi c’erano gli amici, economisti perlopiù, ed Emma. Chissà cosa starà facendo ora. Ci eravamo salutati alle porte dell’Alma Mater Studiorum con la promessa di una relazione a distanza, che dopo pochi mesi naufragò tra crescentine e tigelle.

Era amore? Non so, di sicuro aveva un bel culo.

Sulla porta le unghiette grattano fameliche. Quanto fastidioso può diventare quel cane, e dire che l’ho portato a casa io. Se piscia dentro però sono finito.

Spalanco la porta, mamma urla dalla cucina di prendere il guinzaglio sennò scappa. Allaccio il segugio e mi getto fuori prima che i miei possano fermarmi.

Ma perché dovrebbero farlo? In fondo loro hanno da fare tutto il giorno, alla ricerca di una pensione che ogni anno gli ritardano.

Anche Emma e gli altri non si fermano più con me. Loro sono andati avanti, loro corrono da qualche parte mentre io passeggio con il cane.

Pure lui vuole correre ma io tiro indietro, senza fretta.

In un mondo di centometristi e maratoneti, di bambini competitivi, adulti arrivisti, conti correnti vuoti e viaggiatori social, il mio unico scopo è raggiungere i campi per la cacca del quattrozampe di famiglia.

Eppure questa distesa di linee zen senza destinazione né meta è così bella.

Stacco il guinzaglio, lui parte e io subito dopo.

Il mondo corre e alla fine lo faccio pure io.

Io corro dietro al cane.

Ti è piaciuto questo racconto/articolo? Segui la pagina Facebook di Tremila Battute!

Poveri, fallibili criminali: The killer, Ripley e Joker – Folie à deux

Alcune settimane fa ho letto su Nazione Indiana un’interessante articolo di Giacomo Agnoletti che metteva a paragone due serie apparentemente agli antipodi: Better call Saul e L’amica geniale. Le conclusioni a cui arriva non mi sono sembrate completamente a fuoco, ma l’analisi che fa della serie di Gilligan è degna d’attenzione: stringendo molto, Agnoletti sostiene che Jimmy/Saul è una figura in lotta contro il sistema che non trova altra alternativa che sfruttare quello stesso sistema per realizzarsi, cieco nella sua vendetta a qualunque possibile risvolto sociologico della propria ribellione.

La figura dell’antieroe, in fondo, è mutata parecchio da quando qualcun* ha capito che l* “cattiv*” possono essere protagonist* anche più affascinanti dell* “buon*”, basti pensare a Tony Soprano e alla sua umanamente disgraziata figura criminale. Qualunque mutazione (ok, qualunque magari no, perché sono esistiti di sicuro esempi contrari a questa tesi) ha però cercato di mantenere il fascino perverso dell’immorale, per quanto misero e umano potesse diventare: tre opere recenti invece, a mio avviso, hanno messo altri mattoncini per destrutturare la figura dell* cattiv*, in un pericoloso gioco che mira a delegittimare i propri protagonisti di qualunque aura.

The killer, o la fallibilità del professionista

Ci vuole pazienza per questo lavoro…

Il film di David Fincher, uscito poco più di un anno fa direttamente su Netflix nella tortuosa e incongruente politica della piattaforma per farsi apprezzare dall* cinefil* mentre poi al 90% spara fuori monnezza, è più curioso nella sua sostanza che nella sua forma. Riduzione di una serie a fumetti francese durata sedici anni dallo stesso titolo, la pellicola segue le vicende di un killer senza nome (Michael Fassbender) mentre cerca di rimediare a un incarico andato male che lo mette nel mirino dei suoi stessi datori di lavoro. Fincher segue passo per passo il suo protagonista, e tramite un insistito utilizzo della voce fuori campo ci mette direttamente in contatto con i suoi pensieri, le sue procedure, il freddo e professionale distacco con cui affronta ogni incombenza: peccato che poi vada quasi sempre tutto male.

The killer è un film volontariamente ironico che si traveste da film in cui l’ironia è quanto di più lontano si possa immaginare. Più i tentativi di salvarsi la pelle del killer lo portano ai piani alti della catena che gli forniva lavoro, più l’impressione di avere a che fare con un sistema burocratico perverso aleggia sullo spettatore: non ci sono figure mefistofeliche ad orchestrare il tutto, solo impiegat* di alto livello che gestiscono a modo loro un problema e al massimo qualche bruto da utilizzare alla bisogna, quando proprio non si può fare a meno di un po’ di caos. Il sistema è automatico, non si ferma perché chi potrebbe farlo nemmeno si accorge che le cose non stanno proprio andando per il verso giusto, e la falla più clamorosa appare quella originaria: la scelta del professionista sbagliato.

… e tocca pure viaggiare in economica

Fincher ha detto che questo film forse non si sarebbe fatto senza Fassbender come protagonista (sbugiardando un’indiscrezione che voleva Brad Pitt in predicato di prendersi la parte, salvo poi produrlo con la sua Plan B), e il controllo sulle proprie espressioni dell’attore è effettivamente quanto di più azzeccato per il ruolo. Allo stesso tempo è straniante vederlo pianificare al dettaglio, spiegare per filo e per segno a sé stesso e all* spettator* le proprie dinamiche per poi vederlo fallire clamorosamente, costretto quasi ogni volta a improvvisare per salvarsi la pelle: è a tutti gli effetti una macchina di morte, ma allo stesso tempo non la prima scelta che ti verrebbe in mente se vuoi un lavoro pulito, spinto avanti da un ego spropositato che gli fa descrivere in maniera ordinata anche il fallimento più cocente. Si procede di scena in scena, di missione in missione, col minimo di partecipazione emotiva concessa dal protagonista freddo di una vicenda gelida: a ravvivarla è proprio la sua fallibilità, eppure resta l’impressione che l’ironia rivolta verso il sistema che lo ha assunto diventi involontaria quando si tratta di guardare alla figura trainante della trama.

Ripley, o l’ambizione spropositata del mediocre

Ti aspetta un futuro grande e meraviglioso

Se The killer è freddo, Ripley non alza sicuramente la temperatura. La miniserie di Steven Zaillian, prodotta anche in questo caso da Netflix, si basa come già il precedente film di Anthony Minghella (e come, scopro grazie a wikipedia, l’ancor precedente film del 1960 con Alain Delon nei panni del protagonista) sul romanzo Il talento di Mr. Ripley di Patricia Highsmith: in questo caso è Andrew Scott a impersonare Tom Ripley, un’enigmatica figura che vive di espedienti a cui la sorte mette di fronte l’occasione di un viaggio in Italia tutto spesato per riportare ai suoi doveri negli Stati Uniti Richard Greenleaf (Jamie Flynn), rampollo di una famiglia imprenditoriale affascinato dalla cultura italiana e ben propenso a continuare ad utilizzare il proprio vitalizio per fare la bella vita ad Atrani con la fidanzata Marge Sherwood (Dakota Fanning). Come dargli torto in fondo? Se si escludono le interminabili scale su cui Ripley è continuamente costretto ad arrampicarsi lo stile di vita di Dickie è invidiabile, tanto che il nuovo arrivato non ci mette molto a cercare di capire come entrare a far parte del quadro in maniera stabile, e a qualunque costo.

Gran belle scale però

I pregi della serie sono molti (cito brevemente Eliot Sumner, che riesce a fare un figurone nel ruolo del borioso Freddie Miles che già fu di un certo Philip Seymour Hoffman), e ne basterebbero due per consigliarne la visione. Il primo è Scott, attore a cui non ho ancora visto sbagliare un colpo (Sherlock, Fleabag, Black mirror, Estranei, ovunque giganteggia cambiando pelle con naturalezza), che al suo Ripley dona una viscidezza apatica, sfuggente a qualsiasi categorizzazione (e che secondo me in questa serie sembra il sosia di Mike Patton, anche se la mia compagna non è d’accordo); il secondo è la regia di Zaillian, giustamente premiato agli Emmy, fatta di una messinscena tecnicamente ordinata (aiutato in questo anche dall’azzeccata scelta del bianco e nero) in cui ogni inquadratura è un capolavoro. Ciò che ho trovato più affascinante, e che ha contribuito pesantemente a farmi proseguire nella visione di una vicenda che per sommi capi già conoscevo, è stato però il modo in cui Zaillian ha deciso di raccontare la condotta criminale di Ripley.

Nonostante una messa in scena volutamente estetizzante, quando Ripley entra in azione non si può fare a meno di giudicarlo ridicolo. Il regista insiste lungamente sul modo in cui il protagonista cerca di sbarazzarsi dei problemi che gli si parano di fronte e ogni decisione presa, per piccola che sia, non fa che aumentare il carico di errori che si assommano sulle sue spalle: non so quanto fosse in gamba nei romanzi di Highsmith (che lo ha reso protagonista di ben cinque libri, di cui almeno un altro portato sul grande schermo con protagonista John Malkovich, che qui fa un piccolo ma importante cameo), e di sicuro non era un genio infallibile nella versione incarnata da Matt Damon (su quella di Delon non posso esprimermi), ma qui Scott rappresenta alla perfezione la figura di chi ha ambizioni altissime e nessuna vera abilità per riuscire a raggiungere quel traguardo. Durante le otto puntate si viene rapit* dell’alternanza con cui la faccia tosta di Ripley riesce a fargli mettere a segno colpi geniali oppure si schianta contro ingenuità insensate, e come nell’allenniano Match point restiamo in attesa di vedere da quale lato della rete atterrerà la pallina: solo la fortuna, e non l’abilità, sono infatti il discrimine che porterà un ambizioso mediocre verso il successo o il fallimento.

Joker – Folie à deux, o la negazione del supercriminale

Spoiler: nel film questa scena non c’è

Il primo Joker non mi aveva entusiasmato (se volete assentire o dissentire con le mie motivazioni potete trovarle qui), e a posteriori vedo nella sua trama molti dei temi analizzati nell’articolo di Agnoletti da cui siamo partiti. Sembrava essere un episodio a sé stante quello diretto dall’outsider Todd Phillips (outsider in quanto nessuno si aspettava dal regista di Una notte da leoni quel tipo di sterzata cupa), fuori da ogni continuity del claudicante universo DC, così come doveva essere una botta e via anche l’incarnazione dell’iconico arcinemico di Batman da parte del pluripremiato (a ragione) Joaquin Phoenix: l’annuncio di Joker – Folie à deux ha quindi spiazzato tutt*, tranne l* più disillus* appassionat* di cinema che non vedevano l’ora di potersi scagliare contro la serializzazione imperante al grido di “ve l’avevo detto”. Nemmeno loro potevano però immaginare che il seguito sarebbe stato (anche) un musical.

Era legittimo aspettarsi, qualunque fosse la forma definitiva del progetto, che il seguito raccontasse come il sofferente Arthur Fleck diventasse definitivamente Joker. C’era il finale della prima pellicola a spingerlo in quella direzione, l’ambientazione (il manicomio di Arkham, splendidamente raccontato e illustrato in Batman: a serious house on serious earth di Grant Morrison e Dave McKean), la presenza del personaggio di Harley Quinn (Lady Gaga): invece, dopo una prima origin story che esplora un lato umano piuttosto inedito del clown, il regista ci nega inizialmente la sua evoluzione, raccontandoci una nuova nascita invece dell’apoteosi che ci aspettavamo. Fleck comincia la sua nuova tragica traversata come un detenuto qualsiasi, rispettato per il modo in cui è diventato inavvertitamente iconico ma depresso ai limiti dell’apatia: l’incontro con un’altra detenuta, della quale si innamora perdutamente in men che non si dica, lo porta però a risvegliare il lato più oscuro e istrionico della propria personalità, proprio mentre sta per iniziare il processo che gli darà una vetrina mediatica enorme. Fra un’audizione e l’altra, un’umiliazione in carcere (sarò di parte, ma ho trovato splendido il capo delle guardie interpretato da Brendan Gleeson) e uno stacchetto musicale, la vicenda segue un corso reso imprevedibile dal continuo centellinamento di Joker in un film che ha Joker nel titolo: in un mondo di film fatti con lo stampino è una scelta coraggiosa e apprezzabile, ma sa comunque di rapina a mano armata se hai attirato al cinema le persone promettendo qualcosa che, proseguendo con la visione, il regista non sembra avere l’intenzione di mantenere se non con subdole strizzatine d’occhio (c’è Harvey Dent! È proprio quel mondo lì!).

Piango per la qualità, rido per il cachet

Mi sono ritrovato a discuterne parecchio dopo essere uscito dalla sala. Mio fratello ne ha apprezzato la confezione tecnica, la mia compagna ha sofferto tutto il tempo col disgraziato Fleck. E io? Ragionandoci sopra sono arrivato ad apprezzare il modo in cui Arthur Fleck, e non Joker, si prende ancora una volta il ruolo del protagonista: il mondo in cui Phillips ha deciso di calare una delle figure meno realistiche dello sterminato panorama DC resta realistico nonostante le canzoni e le aspettative, e Fleck sfugge al suo destino perché semplicemente non ne è all’altezza. Da questo punto di vista risulta quasi un punto a favore la chimica pericolosamente altalenante fra Phoenix e Gaga, perché quale bellissima ragazza dalla personalità esuberante potrebbe mai essere affascinata da un’icona che preferisce essere un perdente? Il rapporto con le donne di Fleck era già problematico nella precedente pellicola, e qui i trucchetti del clown riescono solo a dargli un trucco sotto cui nascondere le sue fragilità. Il labile equilibrio fra l’accettazione e la negazione del suo lato oscuro è interessante, ma la negazione prevale e alla fin fine Phillips decide di portare all’apoteosi la delegittimazione del criminale: ce lo nega dopo avercelo promesso ancora, il Joker che non visse due volte.

Ma il film, alla fine, com’è? Io ho trovato Joker – Folie à deux uno splendido disastro, una pellicola che va incontro alle critiche con sguardo fiero, vivendo di discontinuità e mettendo insieme pezzi che non sono nati per combaciare: qual è il pubblico per un film che si spaccia per cinecomic mischiando il musical, la tragedia umana e il dramma legale? Nei cinema di tutto il mondo pare si stia risolvendo in un flop, nonostante un Phoenix ancora pienamente in parte che risulta meno efficace solo perché ciò che gli succede intorno sembra inutilmente caotico, e non riesco a dare torto al pubblico perché il vero dramma è che a tratti ci si annoia. La seconda (e spero ultima, almeno in questo universo a sé stante) incarnazione di Joker è meno pazza di quel che vuol sembrare, meno soprattutto del protagonista che non vuole avere: il finale a sorpresa, a seconda di quanto siate stati catturati dal suo arco narrativo, potrà sembrarvi geniale o la rapina a mano armata di cui accennavo sopra, forse entrambe le cose visti i cachet che si sono portati a casa Phillips e Phoenix.

Scarica il numero Zero, il numero Uno e il numero Due della fanzine di Tremila Battute!

Ti è piaciuto questo racconto/articolo? Segui la pagina Facebook di Tremila Battute!

Racconto in musica 182: Dove finiscono i calzini spaiati (The Interrupters – Take back the power)

La mia ambizione principale, con questo blog/aspirante rivista letteraria, era quella di attrarre molt* scrittor* che avessero voglia di votarsi alla causa della musica bella che fa la fame o, in alternativa, si fidassero abbastanza da far associare i propri testi a canzoni decise arbitrariamente da me (non proprio arbitrariamente, cerco sempre di dare un po’ di scelta). Se seguite Tremila Battute con costanza (brav*!) vi sarete accort* che questo è un periodo di vacche grasse, e da che è finita la pausa estiva ho potuto evitare di mettere la mia penna in mezzo a quella di altr* collaborator*: fra quest* ci sono graditissime new entry, ma una delle cose che mi ha stupito di più in questi quattro anni e mezzo è lo stretto legame che si è creato con l* autor* che decidono di ritornare. Con loro (e non solo con loro) si è creato un bellissimo rapporto che mi ha portato a farci serata insieme (obiettivo birra offerta a chi collabora: achieved, anche se c’è chi poi me l’ha offerta a sua volta), collaborare anche ad altri progetti, leggere le loro opere pubblicate nel frattempo e scambiarci pareri su quelle che invece ancora speriamo di pubblicare. Il loro affetto è uno sprone continuo per questo bizzarro progetto che si è volutamente ficcato nella nicchia della nicchia, ed è pertanto con un grande abbraccio (purtroppo virtuale) che accolgo nuovamente Iacopo Innocenti, arrivato qui per la terza volta e pronto a farci scoprire The Interrupters.

Pistoiese classe 1983, Iacopo è una persona con cui il rapporto è talmente bello che mi sembra strano collabori da un solo anno e che, soprattutto, lo abbia visto una sola volta in vita mia, in quel dello scorso Firenze RiVista. Trovate i suoi precedenti racconti qui e qui (il secondo è inserito anche nel nuovo numero cartaceo di Tremila Battute, che potete scaricare più in basso), mentre i suoi romanzi Quarto di secolo e Era destino, che gli hanno dato fama condominiale, potete trovarli semplicemente cliccando sui titoli: un altro è nel cassetto e da queste parti speriamo che trovi presto la sua strada nel mondo editoriale.

The Interrupters sono invece una band californiana che continua la buona vecchia tradizione ska-punk losangelina. Formatisi nel 2011 dall’incontro fra Aimee “Interrupter” Allen (voce) e i fratelli Kevin (chitarra, voce, cori), Justin (basso, cori) e Jesse Bivona (batteria cori), la band si è accasata subito presso la Hellcat Records di Tim Armstrong (a sua volta branca della Epitaph di Brett Gurewitz, e se non conoscete questi nomi forse vi diranno di più i nomi Rancid e Bad Religion) e ha pubblicato fino ad oggi quattro dischi pieni di energia. Questo però è il punto in cui mi faccio indietro, lasciando la parola a Iacopo.

“Un diciassettenne bruttarello, imbranato e snobbato da tutti, un bel giorno, scopre il punk rock e trova finalmente il suo posto nel mondo. Smette di aver paura di essere sé stesso, si disinteressa dell’opinione dei fighetti e, in qualche maniera, si riscatta. Questa storia l’abbiamo sentita un miliardo di volte, però, almeno per me, è andata veramente così. Ma cosa succede dopo?
Sono passati una ventina d’anni, l’adolescente è diventato un uomo, la rabbia e la ribellione sono rimasti chiusi nella sua collezione di cd e i bellimbusti di scuola sono diventati maschi alfa che cavalcano roboanti SUV. Tutto è cambiato per restare com’era.
Si imbatte casualmente nel primo lavoro di una band chiamata Interrupters e, stavolta con grande soddisfazione, scopre che anche il punk è rimasto come se lo ricordava.
L’album si apre con il pezzo “Take back the power” che esorta, semplicemente, a riprendersi il potere. Ma quello che prima era un ragazzetto disastroso, e adesso è un adulto altrettanto disastroso, vuole dargli un’interpretazione più ampia che mai. Con la leggera ingenuità che caratterizza il genere, e lo rende irresistibile, è un invito a riprendersi la propria vita.
Ma c’è ancora tempo per farlo? Secondo me sì.
Anche nella storia che segue il protagonista prova a riprendersi quello che gli spetta, magari lo fa nei tempi e nei modi sbagliati, e forse non ci riuscirà nemmeno, però decide di fare un tentativo.”

E vale proprio la pena di vedere in quale maniera il protagonista della storia, un altro relitto del famigerato Bar Biturico che Iacopo ci sta facendo conoscere racconto dopo racconto, cerca di riscattare la propria vita, leggendo la sua vicenda possibilmente sulle note della Take back the power che l’ha ispirata: a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero l* artist* accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Scarica il numero Zero, il numero Uno e il numero Due della fanzine di Tremila Battute!

Dove finiscono i calzini spaiati, di Iacopo Innocenti

Fu facile entrare al Bar Biturico. Avevamo vent’anni, o giù di lì, e lo svago principale nel Quartiere era vegliare i defunti alle cappelle del commiato. Logico che passammo ai gin tonic, dritti come fusi.

Il difficile fu uscirne. Teo e Banana morirono, Luchino si mise a fare l’imprenditore e finì al gabbio, Fabio si fece prete, non per vocazione ma perché, da dottore in Scienze Turistiche, fu l’unico impiego che trovò. Ogni tanto al bar lo vedevano ricomparire, a sfondarsi come e più di prima. L’unico a rimanere fu Giò, così fatto dagli psicofarmaci che era come se fosse su Urano.

Io cercai la svolta una quindicina d’anni fa, quando mi tagliai i coglioni su YouTube. La cosa mi portò qualche visualizzazione, una certa notorietà e un paio di ospitate in televisione. Poi, nient’altro, sciagurato ero e tale restai.

Per la vergogna mi chiusi in casa e, da allora, non sono più uscito. Il mio zerbino è diventato la linea Maginot tra me e il resto del mondo. Sbarco il lunario facendo il telelavoro. Dai tempi della pandemia l’hanno nobilitato con l’espressione smart working, ma tanto si tratta sempre di spippolare al computer da casa, in pigiama. Le cose dette in inglese sembrano più ganze.

Se qualcuno ora mi dice che non ho le palle per fare qualcosa devo dargli ragione, perché è così. La cosa divertente è che la mia voce è rimasta uguale. Pensavo che sarebbe diventata più sottile, invece era solo una leggenda metropolitana.

Nessuno ricorda più la mia impresa, era giusto ricomparsa per poco, qualche tempo fa, la mia foto sotto forma di meme: immortalato nell’atto di compiere le gesta che mi avevano reso celebre, con sotto frasi del tipo “io al pensiero di guardare Sanremo”, oppure “io il lunedì”.

Un anno fa un mio concittadino, Mirko Calosci, ha iniziato a pubblicare video su Tik Tok dove si esibisce in imitazioni di gente sconosciuta. Cambia il tono della voce, balbetta oppure simula un difetto di pronuncia, sostenendo di scimmiottare il suo commercialista, il suo benzinaio, oppure la sua igienista dentale.

Tutti, nel vederlo, hanno cominciato a sganasciarsi dal ridere e a condividere i suoi sketch ovunque, facendolo diventare, nel giro di poche settimane, più famoso del Papa. Lo hanno invitato come concorrente a Lol, dove ha stravinto facendo scompisciare gente del calibro di Paolo Crepet, Enrico Montesano e Pilar Fogliati. In città lo hanno nominato direttore del Teatro, poi condurrà un suo talent show per aspiranti comici e, tra un paio di mesi, uscirà il suo libro pubblicato da Mondadori.

Capito come va? Io mi sono tagliato i coglioni e non ho niente, questo fa due versi e ha tutto.

Così ho deciso di riprendermi quello che mi spetta. Ho una mazza da baseball, e un account su Tik Tok, li porto con me e vado a trovare quello stronzo, che tanto so dove abita.

Al di là dello zerbino, dove finiscono i calzini spaiati, è lì che mi troverai.

È lì che ti spedirò, bastardo.

Ti è piaciuto questo racconto/articolo? Segui la pagina Facebook di Tremila Battute!

Racconto in musica 181: Una tessera per non tornare (The National – Vanderlyle crybaby geeks)

Ho da poco finito di vedere la serie tv Ripley (che vi consiglio caldamente, anche solo per la presenza del sempre ottimo Andrew Scott), e c’è una scena che mi è sembrata perfetta per questo cappello introduttivo. Siamo agli inizi degli anni ’60, il protagonista si trova in un negozio di musica e scartabella fra i vinili nella sezione “tutta la musica degli anni ’50”. Tutta la musica! Ci pensate? Ovviamente è un’esagerazione, e neppure un Leonardo Da Vinci considerato l’ultima persona a riuscire a intendersene di tutto se ne poteva intendere DAVVERO di tutto, ma l’accumulo di stimoli e conoscenze prosegue giocoforza con l’avanzare degli anni (anche se sì, certo, il tempo è relativo) e viene naturale chiedersi, di fronte a quell’innocente scaffale che pretende di contenere tutta la musica di un decennio, quanto sarebbe grande uno scaffale che contenesse la musica uscita dal primo gennaio di quest’anno, pur contando solo i dischi che sono usciti in versione fisica. Tutta la sala? Tutto l’edificio? Chi lo sa. Il punto è che, se era impossibile già allora ascoltare tutto (e Tom Ripley fra l’altro ascolta solo Il cielo in una stanza o quasi, per fortuna nella versione di Mina e non del nemico pubblico numero uno), a maggior ragione è impossibile ora: questa è perciò una delle volte in cui ammetto di non sapere quasi niente della resident band della settimana, The National, che compaiono su queste schermate grazie a Gabriele Palumbo.

Classe 1991, bolognese di nascita e milanese d’adozione dopo un lungo girovagare, Gabriele fa parte della schiera degli autori che mi sono volontariamente andato a cercare dopo aver letto questo racconto, apparso su Malgrado le mosche, e dopo aver letto la sua bio. Ad attirare la mia attenzione non sono state la laurea in Sociologia e quella in Relazioni internazionali (che dice gli servano “solo per litigare”) ma il suo “curriculum” dopo gli studi, che lo porta nel mondo della musica organizzando concerti e collaborando con artisti ed etichette discografiche. A oggi si è spostato verso il mondo del digital marketing e del copywriting, ma la passione per la musica emerge anche da altri fattori: il libro Ministri. Suoniamo per non lavorare mai, dedicato alla band milanese e uscito nel 2019 per Arcana, la collaborazione come editor e contributor al Collettivo Dischirotti e quella con la rivista Fantastico.esclamativo, fondata da Alberto Guidetti de Lo Stato Sociale, che per un paio d’anni ha animato il variegato panorama della lit-web. Gabriele è anche autore del romanzo in versi Ci siamo solo persi di vista, edito nel 2015 da VJ Edizioni nella collana Poiesis, e girovagando per internet potreste imbattervi anche in una raccolta di racconti a tema cocktail che invece, a meno di smentite, è opera di un suo omonimo: di sé aggiunge che, oltre a maledire il capitalismo (siamo sulla stessa barca), legge molto, prova a scrivere un romanzo, fa meme, guarda reel sui procioni e invia la sua newsletter Capibara.

Ridurre venticinque anni di carriera dei The National entro pochi caratteri non è semplice. Su cosa far luce? Cosa escludere? Partiamo innanzitutto dal genere, un indie-rock con influenze che vanno dal country al pop (barocco secondo Wikipedia), venato di una strana malinconia che sa di addii e ripartenze e che li rende perfetti per le stagioni di mezzo (ma non fatevi problemi ad ascoltarli anche d’inverno o d’estate), il tutto sviluppato lungo dieci album, dall’omonimo esordio del 1999 all’ultimo Laugh track uscito per 4AD nel novembre 2023 (anno in cui hanno fatto doppietta, visto che ad aprile era uscito First two pages of Frankenstein). La band è formata tuttora dai membri originari, ovvero Matt Beringer (voce e testi), i fratelli Aaron (chitarra, basso, pianoforte, armonica, mandolino e cori) e Bryce Dessner (chitarra, pianoforte e cori) e i fratelli Scott (basso, chitarra e cori) e Bryan Devendorf (batteria e cori), che come nelle più belle storie di musica indipendente iniziano a suonare insieme dopo altre esperienze condivise fra alcuni di loro, pubblicano i primi due dischi con la propria etichetta (la Brassland Records), suonano mentre lavorano per un po’ in quel di Brooklyn e poi piano piano emergono, attirano l’attenzione dell’etichetta londinese Beggars Banquet (poi confluita nella 4AD) e cominciano a fare di lavoro quello che più gli piace (o forse, come i Ministri, suonano per non lavorare mai). Come me potreste non aver mai sentito per intero un loro album, ma la portata dei The National è diventata tale che potreste esservi imbattut* in una loro canzone senza saperlo, guardando una serie tv (Chuck, Southland, Dr. House e Friday Night Lights alcune delle varie in cui sono apparse loro canzoni, per non parlare della The rains of Castamere scritta appositamente per la seconda stagione di Game Of Thrones: beccati questa Ed Sheeran!), un film (Warm Bodies, Hunger Games: La Ragazza Di Fuoco) o giocando a un videogioco (del 2011 la canzone Exile vilify, inserita nel videogioco Portal 2).

L’impressione di band a cui volere bene, che sta insieme da una vita e fa quello che più le piace, è acuita dal fatto che, nel corso della loro carriera, i The National si sono anche spesi per varie cause benefiche, dalla raccolta Dark was the night (2009), il cui ricavato è stato interamente donato all’associazione internazionale dedicata alla lotta contro l’AIDS Red Hot Organization, alla cover di Never tear us apart degli INXS inserita nell’album collettivo Songs for Australia, progetto della cantautrice Julia Stone volto a raccogliere fondi per le regioni colpite dagli incendi, passando anche per il singolare crowdfunding avviato dopo il Primavera Sound 2018 per sostenere economicamente la crew che li accompagna durante i tour (a cui si aggiungevano i profitti del merchandise sullo store ufficiale della band). Sono stati inoltre una delle band più attive nel supportare Barack Obama durante le presidenziali 2008, quando stamparono una t-shirt apposta per finanziare la sua campagna, e sebbene non mi risultano loro endorsement per Kamala Harris ho l’impressione che a novembre avremo le stesse speranze riguardo all’esito delle elezioni negli Stati Uniti: dall’Italia sono appena passati per due date a giugno, confidiamo di festeggiare presto insieme a loro lo scampato pericolo di un nuovo mandato di Trump.

Vanderlyle crybaby geeks è l’ultima traccia di High violet, album del 2010, ed è una canzone dalla forte carica emotiva, disperata ma senza farsi mancare un raggio di luce fra le note del pianoforte e gli scarni ma incisivi colpi di batteria. Gabriele ha reso il Vanderlyle del titolo protagonista del suo racconto, mostrando in divenire una storia di amori non corrisposti che si alimenta di rimandi al testo della canzone e ci fa sprofondare nella semplicità del dolore. Potete trovare il racconto come al solito dopo la canzone che ne è l’ideale colonna sonora, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero l* artist* accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Scarica il numero Zero, il numero Uno e il numero Due della fanzine di Tremila Battute!

Una tessera per non tornare, di Gabriele Palumbo

Il poster dei The National si è staccato nella parte superiore. Sembra inchinarsi, quasi a voler facilitare le cose. Vanderlyle spegne la lucina per le zanzare, ma la lascia lì. Ormai è quello il suo posto.
Continuano a sbucare fuori cose da portare. Come diavolo faccio? Le valigie sono già piene. Userò delle buste, tanto vado in macchina.
Prende qualche gruccia e le infila a forza in una delle buste. E questa coperta da dove esce? Merda. La metto nella borsa frigo. Si rende conto di avere un numero esagerato di asciugamani.
Dovremmo esserci. Andiamo.
Cazzo la torta per Victoria! Vanderlyle ha però già lasciato le chiavi. Si maledice, ma la vuole. Suona il citofono fino a svegliare l’ormai ex coinquilino.
«Ehi scusa, grande classico, mi son dimenticato una cosa importante.»

«Guarda qua. La tessera ATM spezzata di quando provasti a usarla per aprire la porta di casa.»
«Minchia. Io devo ancora andare a prendere quella definitiva, ormai sarà dispersa in attesa che la vada a ritirare. Quando arrivo a Milano sarà la prima cosa che farò. Forse la seconda.»
«Ehi, che hai? Ti sei intristito pensando alla tessera ATM rimasta sola ad aspettarti?»
«Più o meno. Non hai idea della tristezza che mi mettono quelle tessere per entrare in locali dove non andrai più, o quelle che ti timbrano ogni volta che prendi un panino o un gelato. Le mie si fermano sempre a un timbro, massimo due. Me ne vado sempre prima di poterle finire, per questo non faccio mai quelle dei supermercati.»
«Sai che non ha senso questa cosa? »
«Lo so, ma è più forte di me. È un modo per non legarmi a cose che so che tanto lascerò. Lo faccio anche con le persone.»
«Buono a sapersi… Quella l’hai fatta però.»
«Infatti ora non mi servirà più.»
«Ma cosa dici? Tu stai male.»
«Questo è sicuro… Va beh, lasciamo stare. Tanto appena arrivo a casa come prima cosa devo sistemare la stanza.»
«Ho già detto che stai male? Io appena torno a casa dormo per almeno due giorni. Merda!»
«Cosa?!»
«Ho dimenticato il borsello!»
«C’erano cose importanti?»
«Solo tutta la mia vita.»
«Una vita a misura di borsello.»
«Ti odio.»

Allora qui abbiamo penne, matite, forbici… eccolo, il taglierino. Un po’ arrugginito, andrà bene. Vanderlyle lo prende e inizia a guardarlo, lo rigira tra le mani con curiosità e aria di sfida. Le piacerà la torta? No, non deve pensarci, se no non lo farà mai. Come l’ultima volta, a quel lampadario. Questa volta però non fallirà.
Senza accorgersene ha già iniziato, non fa neanche male finché non incontra le vene.

Le pareti della stanza di Victoria sono un insieme di mondi nei quali si rifugia ogni volta che la realtà la opprime e la trova impreparata. Sul tavolo in cucina la attende una torta alla frutta, ancora intera.
Indossa il suo pigiama preferito, con la scritta I Am Easy to Find sul petto. A letto pensa a Matt, ancora una volta. Voleva dormire per almeno due giorni, invece non riesce ad addormentarsi. Non riesce proprio. Vorrebbe solo smettere di svegliarsi.

Ti è piaciuto questo racconto/articolo? Segui la pagina Facebook di Tremila Battute!

Non l’album indie che mi aspettavo: Yo homo! di The Irrepressibles

Se non siete particolarmente giovani potreste ricordarvi del periodo in cui quella che era chiamata “musica alternativa” divenne “indie”. È stato un processo in cui è difficile individuare il momento esatto della metamorfosi, ma io associo quel periodo di transizione con l’invasione delle band con THE nel nome. The Hives, The Raveonettes, The Strokes, The Libertines, The (International) Noise Conspiracy (etc. etc.), dal nord Europa agli Stati Uniti un’ondata che con influenze diverse (dal punk/ska al rock’n’roll passando per garage e shoegaze) fece dondolare le teste e gli arti, con più o meno profondità e sostanza a seconda della band o addirittura del disco. Da allora non riesco a vedere un nome che inizia con THE senza pensare a quella fase, immaginandomi non un suono preciso ma qualcosa di stiloso, ballabile, disimpegnato e forse anche un po’ banale, anche se quel momento storico di bella musica ne ha prodotta un sacco. Quando mi è stato proposto di ascoltare Yo homo!, il quarto disco in studio dei The Irrepressibles, mi sono quindi fatto quel film lì: è brutto essere prevenuti, lo so, ma non mi aspettavo niente di originale e speravo di ottenere dall’ascolto una smentita (c’era anche una parte di me, quella più brutta, che sperava di ottenere una conferma per dire “ecchallà!” con il sorrisetto beota di chi convalida il detto “a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca”, in cui peraltro non credo).

La prima sorpresa è stata scoprire che The Irrepressibles è solo un moniker dietro cui si cela il musicista di Manchester Jamie McDermott, o meglio Jamie Irrepressible, nome con cui si esibisce da anni; la seconda, indagando sulla sua carriera, è stata ritrovarlo in un brano che avevo ascoltato un decennio fa, You know I have to go dei Röyksopp, band con cui la collaborazione è stata molto stretta negli anni (il duo norvegese ha anche remixato alcuni brani di Irrepressible); la terza me l’ha riservata l’ascolto, perché fin dal primo brano di Yo homo!, pubblicato il 27 settembre dall’etichetta Of Naked Design, ho ottenuto la smentita che cercavo.

Definire il genere a cui ascrivere il nuovo disco di The Irrepressibles è difficile. Ci sono la polvere del folk statunitense, un gusto pop intenso e a tratti barocco, chitarre capaci di farsi grosse e cattive e un violino che riesce magicamente a stare bene su tutto. C’è soprattutto la voce di Irrepressible, versatile, espressiva, quella di un mutaforma che sussurra da inglese strafottente, ulula come un Nick Cave d’altri tempi ripulito appena appena, passa con disinvoltura al falsetto e quando si fa aulico ti strappa il cuore dal petto: ascoltarlo invocare nei ritornelli di Raise my soul eleva e strazia, al culmine di un’esperienza che unisce una chitarra scarna a un piano brioso per poi finire nel territorio degli spiritual in quello che è uno degli episodi migliori del disco. L’inizio con Will you? aiuta ad ambientarsi nel mood, raffinato ma denso di energia che brucia in sottofondo, ma non lascia presagire la grande varietà che ci si troverà di fronte negli undici brani del percorso.

Basta passare alla seconda traccia So! per ritrovarsi immersi in territori post punk selvaggi a cui il violino dona melodie inaspettate, ma lo sballottamento sonoro prevede anche i ritornelli stoner della title track, il basso col dub nel sangue di Destination, le esplosioni lungamente preparate della vitalissima In the rythm (sette minuti che si sentono tutti e allo stesso tempo sembrano volare come fossero tre) e addirittura l’esplorazione di territori fra doom e cantautorato tipici di artisti come Mount Eerie e il nostrano Urali nella conclusiva Ecstacy homosexuality. È un percorso musicale che va a braccetto con quello identitario, perché Yo homo! è anche un disco che parla in ogni testo di omosessualità, in molte maniere diverse e rivendicando tutto: lussuria, dolcezza, sfacciataggine, amore, disperazione, in poche parole (ma usandone molte) l’unicità del proprio essere e la normalità dei propri sentimenti e delle proprie pulsioni.

Ci sono difetti? Piccoli e parziali: la doppietta Be wildTwo hearts a metà disco blocca il meccanismo entro una certa ripetitività, pur viaggiando i due brani su mood completamente diversi (divertita una, romantica l’altra), mentre a Connection non riesce il gioco di In the rythm e le lente progressioni smorzano la tensione invece di crearla. Sono impressioni che si acuiscono però ascoltando i brani singolarmente, staccati dal quadro, perché assorbito per intero Yo homo! è un’esperienza in cui la ripetitività di certi passaggi ipnotizza, preparando alla svolta successiva. Grazie, Jamie Irrepressible, ad anni di distanza mi hai dato motivo per credere che un THE davanti al nome possa contenere moltitudini.

Scarica il numero Zero, il numero Uno e il numero Due della fanzine di Tremila Battute!

Ti è piaciuto questo racconto/articolo? Segui la pagina Facebook di Tremila Battute!

Racconto in musica 180: Stranieri (Il Quadro Di Troisi – L’alieno)

C’è una promessa, nella sezione contatti di questo blog/aspirante rivista letteraria, che recita più o meno “ascolto tutto quello che mi mandate, ma non posso promettere una recensione”. Devo ammettere, a più di quattro anni di distanza, che non va proprio così: ci provo, ci riesco per la maggior parte delle richieste, ma tutto tutto non ce la faccio ad ascoltarlo e chiedo scusa per questo. Poi ci sono anche i dischi che ascolto e mi colpiscono, non per forza in positivo (sono dell’idea che le recensioni servono anche e principalmente all* artist*, quindi che senso avrebbe dire solo cose belle?), ma di cui per motivi di spazio e tempo non riesco a parlare, anche perché mi piace spaziare verso altri lidi come cinema, letteratura, videogiochi e pure podcast (che fra l’altro comprimono il mio tempo di ascolto). Per fortuna Tremila Battute è anche uno spazio aperto a collaborazioni, e così è capitato che un disco di cui non ho parlato è stato ascoltato anche da Franco Santucci, che lo ha apprezzato e ha deciso di trarre un racconto da una delle canzoni che lo compongono: il disco è La commedia e la band che lo ha composto si chiama Il Quadro Di Troisi.

Iniziamo da Franco, acquisizione recente ma già fedele alla causa della musica bella che fa la fame. Era passato a trovarci a fine giugno con un racconto ispirato ad una canzone di Daniela Pes, torna oggi con un racconto che ha pazientato per qualche tempo nel mio hard disk, ché lui l’aveva inviato subito dopo il primo: lo ringraziamo ricordandovi che a gennaio è uscita per Wojtek Edizioni la sua raccolta di racconti Bestiario del sogno e anticipandovi che il 10 ottobre la presenterà a Milano al Circolo Masada, spazio amico di Tremila Battute e che da una decina d’anni vive e lotta insieme a tutt* noi per diffondere cultura.

È una storia più recente invece quella de Il Quadro Di Troisi, iniziata nella seconda metà degli anni ’10 di questo secolo per mano di Eva Geist e Donato Dozzy, alias dietro cui si nascondono Andrea Noce e Donato Scaramozzi. Il nome della band non è casuale, visto che il progetto nasce proprio dalla comune passione dell* due artist* per il compianto regista napoletano: dalle chiacchiere attorno alla sua poetica ne vengono fuori altre, e il passo successivo è cominciare a mettere insieme le suggestioni nate da queste conversazioni in una forma musicale che unisce la voce e i testi dell’una alle composizioni elettroniche partorite in comune, creando un connubio fra cantautorato e synth pop. L’omonimo disco d’esordio esce nella seconda metà del 2020 per l’etichetta/ piattaforma culturale tedesca raster, ed è il frutto di due anni di registrazioni avvenute fra Berlino e Roma: il duo crea nove composizioni che si piazzano fra l’aulico e l’ipnotico, pop nella forma ma profondo nei contenuti, a cui collabora uno stuolo di artist* che ampliano lo spettro sonoro attraverso innesti di percussioni, archi, chitarre e sax. Fra l* collaborator* c’è anche Pietro Micioni che, oltre a offrire un grande aiuto in sede di produzione e arrangiamento, nel disco suona la chitarra e segue il duo nei live seguenti l’uscita: la vicinanza diventa comunione d’intenti e da lì il passo è breve per entrare in pianta stabile nella band, che da duo si allarga ufficialmente a trio nel 2023, anno in cui l’album d’esordio ottiene una seconda vita con Remixes, sempre pubblicato da raster.

Qualcos’altro bolle però in pentola, e non bisogna aspettare molto per sentirlo arrivare. A fine marzo 2024 è infatti uscito il disco di cui parlavamo in apertura, La commedia, che vede Il Quadro Di Troisi entrare nel roster della 42 Records e mutare ulteriormente pelle. Come dicono loro stessi nella bio sul proprio sito i quattro anni di distanza sono stati pregni di eventi segnanti a livello globale, motore in ognun* di noi per riflessioni personali: quelle operate dal trio prendono la forma, nei testi di Noce, di modi per “trasformare una crisi in un’opportunità e di usare il cambiamento come catalizzatore per la rinascita”. Nascono così dieci nuovi brani che ampliano attraverso arrangiamenti ben congeniati il lato intimistico della band pur mantenendone inalterato il beat, debitore anche dell’italodisco nostrana come esemplifica bene il brano La verità. Arriviamo in ritardo per consigliarvi di vedere il trio dal vivo, visto che proprio ieri si è concluso al Locomotiv di Bologna il breve tour di presentazione del disco, quindi non ci resta che esortarvi a seguire il loro sito ufficiale per novità future.

La canzone scelta da Franco come ispirazione per il suo racconto è L’alieno, quarta traccia del nuovo album. Accompagnando le parole del testo il racconto riesce a dare vividezza alle immagini costruite da Noce, ricostruendo con efficacia e lirismo i ricordi di una specifica estate che si riverberano nel presente. Potete trovare le parole di Franco più in basso, subito dopo il brano: come al solito buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero l* artist* accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Scarica il numero Zero, il numero Uno e il numero Due della fanzine di Tremila Battute!

Stranieri, di Franco Santucci

Non sembrò lo stesso quando fu Chiara a ballare di fronte al fuoco. La birra in mano, il sorriso imbarazzato, i capelli in lento movimento, i piedi a strisciare sulla sabbia: era tutto uguale a quanto facessero le altre ragazze, ma così differente da farci capire che lei non era la stessa dell’anno precedente e che quell’estate non sarebbe trascorsa allo stesso modo.

L’avvisaglia c’era già stata nel pomeriggio quando, sdraiata su uno scoglio in cerca di qualche raggio ormai lieve, frappose i suoi sedici anni dalla forma perfetta alla maledizione di uno sguardo inafferrabile, come quei sentieri stretti che a vederli così verdi si teme di percorrere.

Furono gli stessi dove ci portò prendendoci per mano. Era l’unica del gruppo appena ricomposto a essere del luogo, conosceva meglio di chiunque altro le colline e le spiagge solitarie, le grotte lungo la costa e le radure ariose dove vedere chiaramente, più che le nuvole e le scie degli aerei, il passaggio rapido della nostra fame.

Era nella natura degli sguardi verso il suo corpo, che le garantiva potere e incostanza: ci trattava con dolcezza, ci disprezzava, imboniva i nostri animi o si perdeva in un’indifferenza senza nome a cui non riuscivamo a rassegnarci. Allora ci facevamo scudo delle notti che divenivano giorno affinché l’alba rossa in spiaggia trionfasse sui suoi occhi in lacrime. Ognuno ne dava un’interpretazione differente: chi la immaginava così per l’incanto della mattina, chi per la musica delle chitarre, chi vittima del nostro stesso desiderio.

Non ci scoraggiavamo e le portavamo allora fiori o gusci di conchiglia, che lei faceva risuonare nella sua collana posticcia prima di immergersi ancora in un mare pieno di correnti, che smetteva di chiamarsi col proprio nome e prendeva a prestito quello di Chiara così come tutto il paese, gli scogli, i pomeriggi sulla sabbia, le passeggiate solitarie e il vento di quell’estate, l’ultima in cui saremmo stati tutti assieme, l’ultima assoggettata ai profondi giorni di vuoto quando lei scompariva senza motivo.

Ci additava come stranieri, come chi non può capire davvero: la stessa incomprensione, nonostante tutti gli anni trascorsi assieme, che rivedo nuovamente in questo ritorno, nel suo sguardo intenso riflesso dal finestrino dell’auto.

Siamo vicini. Se gli altri fossero qui con me, quando compariranno il mare e gli scogli e le dune di sabbia gialla sotto un sole rosso e le fiamme di falò tardivi in lontananza chiameremmo tutto di nuovo Chiara mentre lei, testa sul vetro, è persa nel ricordo della collina antistante l’asfalto, dove la vegetazione marina, incerta della luce e dentro una sbiadita appartenenza, è ancora, indissolubilmente, pastello.

Ti è piaciuto questo racconto/articolo? Segui la pagina Facebook di Tremila Battute!

Perdersi nella letteratura di Luciano Funetta

C’è un racconto in cui Sergio Pitol, nel tentativo di spiegare perché, dal suo punto di vista, la vita degli scrittori e quella dei lettori per molti aspetti sia simile a quella dei folli, cita una frase tratta da Zanzare di Faulkner. A dire il vero la citazione è indiretta: Pitol non cita Faulkner, ma la scrittore cileno José Donoso, in particolare il romanzo di Donoso Donde van a morir los elefantes, in cui la frase di Faulkner compare come esergo: 《A novel is a writer’s secret life, the dark twin of a man》.

Pitol sostiene che la frequentazione non occasionale della letteratura porti alla scissione di una vita in due segmenti paralleli. In uno ci si muove normalmente, tra faccende di soldi, debiti, lavoro o disoccupazione, sussidi, amore, malattia, in poche parole tutto ciò che, dal momento in cui si è nati, è necessario, giusto e irrinunciabile vivere. La realtà del secondo segmento funziona in un altro modo, si cammina come in sogno, tutto assume il valore di un possibile dettaglio letterario, di uno sviluppo romanzesco, di un’oscillazione della prosa. Di questo Pitol è grato, perché Pitol, nei momenti in cui la vita parallela prende il sopravvento, 《sente voci nelle voci》e ringrazia 《le Muse per avergli trasmesso quelle voci senza le quali sarebbe perso》, e ragiona sul fatto che quando non gli sarà più possibile sentirle, quando non si sveglierà più nel cuore della notte per appuntare una frase o leggere una pagina che gli è apparsa in sogno, sentirà arrivare la morte, non la morte definitiva, 《ma la morte in vita, il silenzio, l’ibernazione, la paralisi》.

Una delle storie di cinema che più mi affascinano è quella relativa a Il ladro di orchidee, film diretto da Spike Jonze e scritto da Charlie Kaufman. Quest’ultimo, incaricato di adattare un saggio per il grande schermo, entra in crisi e se ne esce con la storia di uno sceneggiatore altrettanto in crisi che non sa come adattare il saggio su cui avrebbe dovuto lavorare (il titolo originale non per niente è Adaptation). Ho pensato a questa storia rileggendo la sinossi di Domicilio sconosciuto di Luciano Funetta, saggio narrativo sulla letteratura latinoamericana che ha per protagonista proprio colui che il saggio deve scriverlo: Guerra, scrittore e portiere notturno di un albergo, che riceve il compito dal misterioso Direttore dell’Istituto, iniziando un viaggio dalle tinte fortemente oniriche attraverso le pagine di alcun* dell* miglior* scrittor* latinoamerican*.

Funetta l’ho scoperto tramite un libraio di fiducia, Danilo della Gogol & company di Milano, ed è stato amore a prima lettura. Un amore strano, indecifrabile: il suo esordio Dalle rovine, uscito nel 2015 per l’allora splendente collana di narrativa di Tunué, l’ho divorato, letto in un giorno solo dalla mattina alla sera, e ad anni di distanza non saprei dire molto della sua trama. Ricordo l’incipit, folgorante, in cui un uomo appassionato di serpenti deve decidere, a causa di un incidente domestico in cui sono coinvolti la figlia e i rettili, fra la famiglia e il suo “hobby”: lui sceglie i serpenti, e già solo qui ci sarebbe materiale per un intero romanzo. Invece Funetta usa questo pretesto per portarci in un viaggio allucinato che si snoda fra l’enigmatica città di Frontiera e Barcellona, esplorando un mondo fatto di pornografia che confina con gli snuff movie e trainandoci non tanto in una storia quanto in un’atmosfera misteriosa, torbida, attraente e respingente allo stesso tempo. L’ho incontrato una volta, alla presentazione del suo libro seguente Il grido (da cui sono rimasto molto meno entusiasmato), e ho ammesso candidamente di aver adorato Dalle rovine ma senza sapere perché: altrettanto candidamente lui ha detto di non sapere perché lo ha scritto, ma non so se era una frase di circostanza e se lo direbbe ancora oggi. Di certo, se non aveva la risposta prima, vagare all’interno dell’Istituto potrebbe averlo aiutato a trovarla.

Domicilio sconosciuto, pubblicato a ottobre 2023 da UTET e scoperto colpevolmente in ritardo almeno un semestre più tardi (neanche a farlo apposta nella stessa libreria dove avevo comprato il suo libro d’esordio), non è un saggio nel vero senso della parola e nemmeno un romanzo, visto che la trama si esaurisce quasi nel suo incipit: la ricerca di Guerra, per quanto lo porti a viaggiare e a ritrovarsi in frangenti misteriosi e inquietanti, è più interiore che esteriore, non è analitica ma caotica, volta a spiegare più a sé stesso che ad altri ciò che della letteratura sudamericana ama e perché. Lo fa ragionando sui passi di alcuni dei letterati più noti del panorama, partendo dal Borges che di quella corrente considera mefistofelico iniziatore (si cela lui dietro i panni del Direttore), per poi addentrarsi sempre più fra nomi ingiustamente dimenticati, scavando alla ricerca dell’essenza stessa di quegli scritti che lo hanno plasmato, di un senso laddove esso stesso sembra alimentarsi di incompiutezza.

È questo il senso, il senso profondo, della letteratura del Direttore e dell’intera letteratura dell’Istituto. Il loop e l’orrore, lo scherzo e l’incubo che Kafka e Joyce avevano tentato di esaurire e di cui quasi nessuno aveva avuto il coraggio di farsi carico dopo di loro, hanno attraversato l’oceano e trovato una nuova casa, o meglio una nuova mente che è un altro modo per dire una nuova forma, quella forma che Garcia Márquez disprezzava, quella che Garcia Márquez chiamava con sdegno letteratura d’evasione. Come si può essere tanto distratti da arrivare a parlare di evasione in merito a una letteratura che disegna una prigione?

Quello orchestrato da Funetta è un viaggio discontinuo che, come i migliori viaggi, non si intestardisce a raggiungere il punto B dal punto A ma parte e basta, da Macedonio Fernández (“Non avevo mai pensato di cominciare da Macedonio, ma forse è Macedonio che ha deciso di iniziare da me, come un assassino che sceglie la sua prima vittima”) passando per una conferenza a cui sono presenti una Traduttrice, un sosia di Philip Dick e uno scrittore messicano senza un braccio, stanze vuote e fotografie sbiadite, una Vienna spettrale e un mare di parole, citazioni, ragionamenti sulla scrittura, la letteratura e sull’abisso misterioso su cui la parola scritta o letta ci fa affacciare.

I viaggi senza meta però sono i migliori quando riescono, quando sei nella disposizione d’animo adatta ad accettare il rischio, quando anche gli imprevisti diventano esperienze: in caso contrario saranno viaggi a metà, privati sia della sicurezza che del fascino dell’avventura. Come già in Dalle rovine, anche se in maniera differente, Funetta riesce ad essere la guida turistica perfetta per l’oblio, suscita sensazioni profonde e qui fa innamorare di ogni scrittore e scrittrice citat* (magari non di Garcia Márquez, anche se al suo gruppo di “narratori incalliti, che hanno interpretato la realtà e scelgono l’allegoria per esporre la loro verità in forma di parabola” riconosce il merito di essere stati loro “in più di un’occasione, a salvarmi la vita”), portandoci fra le loro opere, facendole rivivere nitide e allo stesso tempo fumose perché siamo pur sempre alla “festa della sparizione, il party dell’incompiutezza”.

《A priori, lo scrittore non è nulla, non è nessuno, condizione che, a dire il vero, metafisicamente parlando, egli condivide con gli altri esseri umani dai quali però si differenzia per un dettaglio insignificante eppure decisivo, sufficiente a influenzare la sua vita: se per la maggior parte delle persone la costruzione dell’esistenza consiste nel riempire questa assenza di contenuto con svariate proiezioni sociali, lo scrittore deve fare di tutto per preservarla.》 Così scrive Saer, forse non proprio così; forse ancora una volta devo rassegnarmi all’imprecisione. Saer è stato soprattutto autore di romanzi, è vero, ma i suoi sono romanzi in cui la tensione narrativa si avvolge su se stessa e, attraverso una prosa inattaccabile, spinge l’orizzonte degli eventi narrati verso un bordo pericoloso, quello dell’incomunicabilità.

Domicilio sconosciuto è imprescindibile per chiunque abbia provato qualcosa esplorando la letteratura latinoamericana e a quel qualcosa non sa dare un vero nome. Perdersi alla ricerca di quel senso, senza l’imperativo di trovarlo, è un viaggio da brividi: Funetta è la miglior guida che non sapevo di cercare, e nel parlare di letteratura riesce a farne di sublime.

Scarica il numero Zero, il numero Uno e il numero Due della fanzine di Tremila Battute!

Ti è piaciuto questo racconto/articolo? Segui la pagina Facebook di Tremila Battute!

Progetta un sito come questo con WordPress.com
Comincia ora