Il legame che unisce musica e letteratura è stretto e di lunga data, ma non è questo il posto adatto ad esplorarlo storicamente (tradotto: non ne siamo in grado). Preferisco fare un piccolo esempio di questa mutua influenza, ovvero il video di una canzone che ho sicuramente già nominato in questo blog: Calamity song dei The Decemberists. Evidentemente appassionati della scrittura di David Foster Wallace (come dar loro torto?), i componenti della band di Portland hanno deciso di sfruttare il tema della loro canzone per mettere in scena una delle parti più iconiche di Infinite jest, ovvero la partita di Eschaton: mentre la canzone scorre e l* musicist* della band siedono su comode sdraio facendo funzione di giudici, alcun* ragazz* usano il campo da tennis per una complicata simulazione di guerra che finisce nel pandemonio più totale, fra palline sparate in faccia e teste nello schermo del computer. Non saranno stati i primi né saranno gli ultimi a farsi influenzare in questo modo, tanto che appena ho letto il racconto che Edoardo Balacchi ha scritto per noi mi sono immaginato la sua storia trasposta in immagini, con in sottofondo la canzone dei The Felice Brothers che lo ha ispirato: in fondo, un uomo può sognare.
Edoardo ce lo siamo andati a cercare dopo aver letto alcuni suoi racconti sul web, perché ha un modo unico di unire l’onirico e il surreale con il nostro mondo di tutti i giorni, risultando allo stesso tempo spaesante e ficcante come pochi. Ubicato nella ridente (?) provincia di Milano, dove vive e scrive, nel 2015 vince il Premio Bukowski con la raccolta di racconti Corpo grottesco, successivamente pubblicata da Giovane Holden Edizioni e già delineante il suo campo d’interesse in letteratura. I suoi testi non hanno affascinato certo noi per primi, dato che sono apparsi su una miriade di riviste letterarie: Narrandom, Spore, Spaghetti Writers, Rivista Blam, Waste, multiperso, Grande Kalma. Topsy Kretts, Rivista Gelo, Super Tramps Club, Nido di Gazza, Alkalina, Nazione Indiana e La Nuova Carne, per la cui estensione editoriale La Nuova Carne Edizioni è in corso di pubblicazione una novella inedita. Accanito bibliofilo, Edoardo ha fondato e gestisce anche il blog/rivista Nabu – Libri e altre storie, che vi invitiamo a esplorare per abbuffarvi di nuovi racconti suoi e non solo.
Coi The Felice Brothers mi ritrovo nella consueta difficoltà di parlarvi di una band che ha pubblicato dodici dischi, attiva dal 2006, e di cui io conosco giusto una manciata di canzoni ascoltate nelle ultime due settimane, cioè da quando Edoardo me li ha proposti come fonte d’ispirazione per il suo racconto. Originaria delle Catskills, catena montuosa nello stato di New York che nella mia mente è indelebilmente associata alla seconda stagione di The Marvelous Mrs. Maisel, la band dei fratelli Felice è effettivamente composta nel suo nucleo centrale dai fratelli Felice (non è così scontato): Ian, voce e autore dei testi nonché pianista e chitarrista, James, che suona piano, organo, accordion e si occupa anche delle seconde voci, e Simone, batterista per i primi tre anni e poi transfugo per inseguire propri progetti personali, sia nel mondo della scrittura che in quello musicale (ha pubblicato sia dischi solisti che col duo The Duke & The King, formato insieme a Robert “Chiken” Burke). La loro carriera inizia nella maniera ruspante che piace a noi da queste parti: nella metropolitana di New York, con grandi sogni e pochi soldi, tanto che il primo disco se lo producono e pubblicano da soli. Through these reins and gone esce lo stesso anno della formazione della band e dimostra già ai fratelli e ai loro sodali (internet non mi aiuta a dipanare i cambi di formazione, ma fra i musicisti più attivi negli anni si contano l’amico Josh “Christmas Clapton” Rawson, Greg Farley e David Estabrook) che la musica è qualcosa su cui puntare, tanto che la storica Radio Woodstock WDST li inserisce nella sua Top 25 di fine anno e un’etichetta inglese, la Loose, si interessa a loro e produce già l’anno successivo il secondo disco Tonight at the Arizona. Qui potete inserire una lunga lista di nomi: dischi, etichette (Fat Possum, Team Love e Yep Roc fra le principali, ma nel corso degli anni The Felice Brothers si sono anche autoprodotti tramite la loro etichetta New York Pro), band con cui hanno suonato (il primo grosso colpo può forse essere identificato nell’apertura di quattro concerti per la Dave Matthews Band nel 2010) e festival internazionali a cui hanno partecipato, fino ad arrivare ai giorni nostri e all’ultimo disco Valley of abandoned songs, uscito nel 2024 per la Million Stars (etichetta di Conor Oberst dei Bright Eyes, evidentemente innamorato della loro musica visto che era già stato fondatore della Team Love) in una formazione che comprende Jesske Hume al basso, Will Lawrence a batteria e percussioni ed entramb* ai cori. Vi sarete però accorti che in tutto questo non abbiamo affrontato una questione fondamentale: che genere fanno i The Felice Brothers?
Folk principalmente, mischiato al country e al pop e imbevuto dell’essenza di Bob Dylan. La prima cosa che salta all’orecchio ascoltando la voce di Ian Felice è la somiglianza con il modo di cantare del celebre cantautore e premio Nobel (giusto per ricordarlo a chi si fa venire l’orticaria al pensiero), ma il paragone ucciderebbe chiunque non ha del talento nella scrittura e Ian, così come l* altr* membr* della sua band, ne ha da vendere. I testi dei The Felice Brothers sono profondi senza apparire stucchevoli, associati a una musica che, con le dovute differenze fra disco e disco (Celebration, Florida, uscito nel 2011, pare sia un non riuscitissimo esperimento a base di synth), accoglie l’ascoltatore in un mondo di melodie facili ma non per questo banali, luminose anche quando, ed è il caso ad esempio di From dreams to dust (2022), esplorano lati oscuri di sé stessi e degli Stati Uniti: non vogliamo fare gli apocalittici prospettando la fine del mondo in caso di vittoria delle elezioni da parte di Donald Trump, ma se la prossima settimana Kamala Harris diventerà la prima Presidente degli USA noi festeggeremo irridendo il tycoon razzista, sessista e stronzo in generale ascoltando questa canzone e brindando a un futuro migliore, pur consapevoli che rimarremo delusi.
Neanche a farlo apposta, appena parlato di apocalisse ci troviamo ad affrontarne un’altra (manco l’avessimo scritto noi questo articolo!). Ispirato da Jazz on the Autobahn, traccia d’apertura di From dreams to dust, così come da Casablanca e dai racconti del recentemente scomparso Robert Coover (il titolo del racconto è un omaggio alla raccolta dello scrittore statunitense Una serata al cinema, o questo lo devi ricordare), Edoardo ha trasformato l’epica on the road del testo in un pastiche citazionista che fra morti viventi e addii strazianti vorrei davvero vedere filmato, un ideale video della canzone che faccia il paio con la Calamity song di cui ho parlato in apertura: in attesa che i potenti mezzi di Tremila Battute mettano in contatto le parti voi potete in esclusiva mettere in sottofondo la canzone, abbassare le luci e farvi trasportare dalle parole di Edoardo, subito dopo il mio augurio di buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero l* artist* accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).
Scarica il numero Zero, il numero Uno e il numero Due della fanzine di Tremila Battute!
Questo lo devi ricordare, di Edoardo Balacchi
Eravamo in una situazione da Casablanca, innamorati, con il trench lungo e il vento, peccato solo per i morti.
Ce n’erano a decine sulla pista d’atterraggio, morti senza occhi e morti con le bocche oscenamente spalancate, morti interi e a pezzi, schiacciati dal passaggio degli ultimi aerei o dalla furia di chi fuggiva calpestandoli. I loro resti ci inzuppavano le suole delle scarpe in un romantico tramonto da lungometraggio.
Spiegai a Ilsa che non sarebbe bastato volare via, che ci aspettavano i titoli di coda e poi il lungo addio, il nero, un sipario.
Lei scuoteva la testa – una testa bellissima che in bianco e nero sarebbe sembrata una cascata di luce – e ripeteva che doveva esserci un modo, un modo c’era sempre.
Il motore dell’ultimo aereo alle nostre spalle rombava, avviandosi, e i passeggeri concitati dal portellone le facevano cenno di avvicinarsi mentre le ruote avanzavano sopra crani e arti recisi come se fossero chilometri di pellicola sprecata.
Ilsa mi strinse più forte, le sue dita da annegato s’inabissavano nella stoffa del mio trench mentre provava a parlare. Balbettò qualcosa, si asciugò una lacrima con la manica, poi rimase in silenzio. Ci guardammo negli occhi più a lungo del dovuto, guardammo il cielo smarrirsi nel volo frenetico di uno stormo di uccelli confusi, che giravano in tondo andando a sbattere contro i pali della luce o le reti che delimitavano il confine dell’aeroporto.
Ci piovvero addosso piume e guano ma non ce ne curammo: stringendoci provavamo a rimandare la fine, eppure sentivamo di avere solo pochi istanti.
Non c’è modo di fuggire, provai a ripetere mentre qualcosa da lontano muggiva e scalpitava – una folla di predoni, cultisti dell’apocalisse, morti risorti?
Gli uccelli uno per volta cadevano dalla volta celeste come se fosse di cartone dipinto e Ilsa piangeva, scuoteva la testa.
L’aereo avanzava, intanto, ci passava accanto spazzandoci i vestiti con la forza di una colonna sonora.
Non c’è posto in cui rifugiarsi, declamai come da copione, è la fine.
In quel momento Ilsa si voltò e un fascio di luce le disegnò attorno un’aureola di pulviscolo e piume. L’apocalisse aveva il sapore di popcorn stantio, di penne bruciate, di una tenda polverosa, suonava come il jazz.
All’improvviso arrivò. Sentii qualcosa perforarmi il torace e trascinarmi verso il basso come dentro un proiettore, lo sentii bruciarmi come una vecchia pellicola infiammabile mentre Ilsa provava a fuggire, un piede dietro l’altro, i tacchi abbandonati fra i cadaveri e il prologo ormai dimenticato.
Quando l’aereo decollò mi trovai steso a terra a fissare il cielo che si faceva sempre più sfuocato, un senso caldo e liquido di naufragio, mentre sopra di me s’incideva, in una bella grafia ricamata, la parola FINE.
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