The great indie swindle: ascesa e caduta di un genere in Sotto traccia di Hamilton Santià

Estrapolare un discorso coerente dalla lunga “militanza” nel mondo della musica indipendente per me è parecchio complicato. Se mi guardo indietro vedo frammenti incoerenti che potrebbero comporre un quadro se mi concentrassi abbastanza, ma quello che mi ha sempre spinto verso un ascolto piuttosto che un altro sono stati la passione e la voglia di sfuggire agli schemi, anche quando quegli schemi non avevano ancora il nome di algoritmo: per dirla con il titolo del disco d’esordio di una band che ho ascoltato poco, e di cui ho affossato in una recensione probabilmente poco approfondita il secondo disco, Whatever people say I am, that’s what I’m not. Forse per questo ammiro persone come Hamilton Santià, che di musica ha scritto per anni negli stessi anni in cui ne scrivevo io ma che in quel mondo che usciva dal grunge e dall’alternative rock per tuffarsi nell’indie ha navigato con più trasporto, esplorandolo a fondo e rischiando di affogarci dentro mentre io, dalla scrivania della mia cameretta prima e del mio salotto in seguito, recensivo su più o meno oscure webzine altrettanto oscur* artist* dopo aver finito le mie otto ore in fabbrica: ammiro una dedizione che per me è stata sempre subalterna allo stipendio con cui pagarmi l’affitto, e ammiro la capacità di farne un racconto. Un racconto di fallimento, perché “grunge” e “alternative rock” prima e “indie” poi sono etichette che, seguendo il ragionamento di Santià, sono servite alle multinazionali dell’intrattenimento (e non solo) per appropriarsi del nostro sogno di vedere il mondo cambiare con la musica, di una rivoluzione dal basso che si schianta più volte dalla morte di Kurt Cobain alle Olimpiadi di Londra del 2012, dove Elisabetta II ascolta i Sex Pistols cantare “Non c’è futuro, per il sogno inglese” mentre si sta vivendo esattamente il sogno inglese, parafrasando l’outro di Sotto traccia – Una storia indie contemporanea, pubblicato ad aprile 2024 dalla casa editrice effequ.

Quella che state per leggere è una storia personale, sfacciatamente parziale e che si prende le sue responsabilità. Parla di musica, di un certo tipo di musica che si ripara sotto un’etichetta ormai diventata luogo comune, nel bene e nel male. Una parola che è stata svuotata di ogni significato e usata secondo ogni tipo di appropriazione possibile. Una parola che, però, in un certo periodo storico ha voluto rappresentare qualcosa di specifico che non si limitava a un modo di scrivere canzoni o di suonare le chitarre, semmai uno ‘stare nel mondo’ che prendeva posizione: da un lato ci sono loro, dall’altro ci siamo noi.

Questa parola è indie.

Ma chi sono loro?

Già queste righe introduttive, in cui “si mettono le mani avanti” come scrive lo stesso Santià nel sottotitolo dell’intro, lasciano trasparire il clima che aleggia fra le più di trecento pagine del libro, un saggio pop che fa della passione viscerale per la musica e di una visione anche politica della stessa il suo motore principale, analizzando con la discontinuità e parzialità data dai sentimenti una storia che dai Nirvana che colonizzano Mtv è passata all’omologazione (quasi) completa di qualsiasi forma di controcultura, e in una ventina d’anni è passata dalla battaglia delle major (e dei Metallica) contro Napster al “democratico” Spotify che paga un forfait ad alcun* artist* per creare canzoni che intasino le playlist permettendo loro di pagare ancora meno diritti d’autore. La storia si interrompe nel 2012, proprio l’anno in cui la piattaforma svedese dà un ulteriore colpo alla nostra speranza, manifesta o recondita che sia, di cambiamento dal basso, ma pur essendo una storia di sconfitta non significa che Santià non sia capace di farci ballare sulle rovine.

Una storia personale e sfacciatamente parziale, anticipa l’autore, e quel “pop” che segue la parola “saggio” è dovuto proprio a queste due premesse. Si segue Santià con trasporto, trascinati dalla passione che trasuda dalle sue analisi e dai suoi ricordi, ma a dispetto della struttura cronologica Sotto traccia è molto più frammentario nel costruire la sua tesi, aprendosi a divagazioni che, come nelle conversazioni che ogni amante della musica avrà avuto più volte nella vita, finiscono per farti pensare “qui come ci sono arrivato?” Non mancano punti focali, sia musicali (la già citata morte di Cobain o l’uscita di Ok computer dei Radiohead) che storici (il G8 di Genova e la crisi del 2008), ma fra una tappa e l’altra l’autore si fa trasportare più dai sentimenti che dall’intenzione di creare un vero sistema, arrivando a conclusioni condivisibili con spiegazioni che fanno troppi giri per essere davvero convincenti. Questo non gli impedisce però di legare musica e politica, sulla scia del più volte citato Mark Fisher, agganciando alla critica musicale una critica sociale portata avanti con riferimenti interessanti e approfonditi, donando al libro un ulteriore livello di profondità.

[…] quando smette di essere identitario e si fa solo elemento di appropriazione, l’indie come ogni altra categoria di mercato diventa una delle tante variazioni sul tema dominante. Il sensibile softboi, lo stereotipo indie, non è che una raccolta di beni posizionali utili ad affermare una posizione di dominio; la dinamica sessuale in questo senso non diventa nemmeno da intendere secondo lo schema predatorio tradizionale, ma come ‘atto dovuto’ – sono intelligente, sono sensibile, sono problematico, ergo devi venire a letto con me. Avere tutto codificato, diventare una serie di norme è il primo passo per essere parte del problema e non della soluzione. Succede tutte le volte perché, come fanno notare Luc Boltanski e Ève Chiapello nel loro Il nuovo spirito del capitalismo, il capitale trionfa là dove riesce a fare proprio quel bisogno diffuso di autenticità e differenza, trasformando lo spirito e il contenuto delle contestazioni in merce, e rendendo dunque impotente o vano o complice qualunque esempio di opposizione o critica sociale.

Pur essendo un viaggio discontinuo, veicolato anche e soprattutto dalle passioni personali (gli Oasis ad esempio, i cui testi commentati erano il cuore di un libro pubblicato da Santià nel 2011 per la casa editrice Arcana), ragazz* che viaggio! Nel commentarlo non posso esimermi dall’essere anche io di parte, perché gli anni che descrive li ho vissuti, ho attraversato con dinamiche diverse lo stesso terreno virtuale delle prime webzine (compreso il periodo delle recensioni estremamente negative per “darsi un tono”, il cui caso più clamoroso è stata la stroncatura di Shine on degli effettivamente terribili Jet operata da Pitchfork attraverso una recensione composta solamente da un breve video di una scimmia che si piscia in bocca), abbiamo sviluppato dipendenze musicali comuni e visto, con la stessa disillusione mista a speranza (che non muore mai, altrimenti non avrei aperto questo blog), il castello di carte della “musica indipendente come soluzione ai problemi del mondo” crollare su sé stesso più e più volte. Sotto traccia è, per chiunque abbia amato l’indie in ogni sua accezione nel periodo storico analizzato (e anche oltre), una lettura che stimola esattamente quei centri nervosi che ti fanno discutere di musica per ore con gli amici giusti, e amen se non potevo esprimere il mio scetticismo sul fatto che Last nite dei The Strokes sia un brano da tramandare ai posteri, ribaltare il suo giudizio negativo su I milanesi ammazzano il sabato degli Afterhours (entrambi però concordiamo sulla portata comunitaria di alcune scelte di Manuel Agnelli) o abbracciarlo quando arriva a citare Future Of The Left e Fuck Buttons: l’ho fatto nella mia testa, e sono sicuro che potrà farlo chiunque ami la musica in generale e questa musica in particolare.

Negli anni avrò visto i Cloud Nothings molte volte, ma pochi altri concerti mi hanno colpito come il loro concerto a Londra nell’ottobre 2012. Salgono sul palco del Village Underground di Shoreditch coi vestiti che avevano la sera prima. Non è una cosa banale dato il periodo storico, ma i Cloud Nothings dal vivo spaccano e sembra subito che abbiano un senso del qui e ora e, soprattutto, una strada da percorrere. Sul palco urlano come se fosse davvero il loro ultimo concerto. E le loro urla sono convincenti. Sono grida di disperazione che non cadono nel vuoto. Anzi. Il pubblico va vicino, avanza brano dopo brano e a un certo punto succede una cosa che non vedevo da tempo: inizia a cantare all’unisono le canzoni. E c’è una cosa che per un momento, per un solo piccolo momento, mi fa ben sperare per futuro del mondo: le prime file sono occupate da ventenni. Cercando un’unione sincera con il pubblico, con una generazione che cerca motivi per unirsi, urlare e riconoscersi in canzoni che esplicitano il disagio generazionale post crisi economica, mi sembrava che i Cloud Nothings raccontassero molto bene le urgenze di una generazione in cerca di una voce attraverso un’elettricità incazzata capace di rappresentare la sincerità di un disagio reale e di una precarietà esistenziale. Precarietà esistenziale che si cerca di combattere in qualche modo.

Sotto traccia è un libro sincero ed appassionato, imprescindibile per chiunque ritenga la missione di questo minuscolo blog/aspirante rivista letteraria meritevole (non vi sarà sfuggito che alcune delle band menzionate hanno dei racconti dedicati su queste schermate, ma avrei potute menzionarne molte altre, dai Godspeed You! Black Emperor ai The National), e tale rimane nonostante un numero insolitamente alto di refusi: lo si può perdonare a chi riesce a farti fare un viaggio nel tempo, stimolando la tua nostalgia mentre riesce efficacemente a disinnescarla e problematizzarla.

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Racconto in musica 190: Fuori tutto UniNeuro (Post Nebbia – Freni inibitori)

I miei genitori non si sono mai concessi vacanze, al massimo gite. Le mie estati fino a vent’anni le ho passate in parte sulle sponde del Ticino (“vicino a San Martino”, come canta il mio conterraneo Bugo) e in parte girando in motorino per la desolazione padana, ma frammenti dell’Italia mi sono passati davanti agli occhi in altre occasioni: visite in giornata a Crodo e Bognanco che mi fanno chiedere, a più di trent’anni di distanza, quale fascinazione avessero i miei per le acque minerali (delle terme non abbiamo mai usufruito, e penso di non aver mai visto nemmeno IL MURO DEL DIAVOLO a Crodo), più le mete spirituali come il Santuario di Oropa e, allargandosi al Veneto da cui arrivava mio padre, Padova. Padova che avrà sicuramente i suoi lati interessanti, gli angoli caratteristici, ma che per me è stata sempre e solo la Basilica di Sant’Antonio. Ho visto solo quella, ricordo frammenti solo di quella: la città è un corollario che non si è impresso nella mia mente, attraversata di fretta o forse dimenticata dal me stesso di allora che probabilmente preferiva essere al Ticino piuttosto che lì, e che ha influenzato il me stesso di oggi che, quando va a visitare una famosa cattedrale, si guarda in giro pensando “ok, un’altra chiesa”. Che vita grama, direte voi, ma c’è di peggio. Che cazzo ce ne frega delle tue vacanze da piccolo, obietterete anche, ma vi spiego subito il collegamento: nella mia testa, oltre alla Basilica, Padova si sta ormai stabilmente associando a furia di ascolti ai Post Nebbia.

Nella mia desolata provincia novarese i primi passi per imparare a suonare decentemente uno strumento li ho fatto prendendo lezioni di chitarra dai Cantori del paese da appena maggiorenne: Carlo Corbellini, deus ex machina dei Post Nebbia, alla musica si è approcciato fin dai dieci anni in una scuola di musica parrocchiale, lasciata a quattordici anni per cominciare già a sperimentare in proprio ma non prima di aver conosciuto Niccolò Bosio, Andrea Cadel e Riccardo Chillin, rispettivamente tastierista, bassista e batterista di quelli che di lì a qualche anno saranno i Post Nebbia. Il frutto degli esperimenti di home recording di Corbellini e dell’amalgama successiva coi compari verrà alla luce nel 2018, anno in cui i membri della band chi più che meno sono appena maggiorenni (alla stessa età io imparavo orgogliosamente a furia di bestemmie il barré, deludendo sia Sant’Antonio da Padova che il locale Beato Pacifico da Cerano): Prima stagione è un’autoproduzione che frulla testi di contorta introspezione a una musica che può essere riassunta, facendole un torto, nella formula psych pop; echi dei Tame Impala mai negati che si mischiano a una certa plastificazione ottantiana nostrana e ad inserti di funk, voci fuori campo e tante altre cose che si sposano efficacemente, restituendo l’immagine di una band che non stona in un panorama dove Tommaso Paradiso sta cercando di trasformarsi in Umberto Tozzi ma che ha qualcosa di più profondo da dire rispetto. La Tempesta e Dischi Sotterranei non per niente si interessano a loro, pubblicando insieme il successivo Canale paesaggi (2020), un disco che arriva dopo un lockdown autoimposto di Corbellini per scrivere i brani (il cantante e chitarrista della band è autore sia dei testi che della muisca, come spiega in questa intervista dove usa la metafora della “dittatura nazista” per spiegare che si fanno solo le sue cose, anche se lo stare insieme e lo sviluppo in studio delle idee influenza per forza di cose la sua scrittura) e uno imposto successivamente dal Covid, prove alle quali per fortuna il leader dei Post Nebbia sopravvive: il secondo disco della band gira intorno al mondo televisivo, quello dei tg regionali e delle pubblicità di auto il cui possesso dovrebbe regalarti la felicità, dicendolo con le loro parole “esplora l’esperienza emotiva e sensoriale dello spettatore televisivo, prendendo ispirazione dal flusso commerciale della televisione regionale, da alcuni scritti di David Foster Wallace e dalla nuova comicità americana dell’assurdo” e lo fa affinando ancora di più la penna di Corbellini e rendendo ancora più caleidoscopico il mondo sonoro che fa da quadro alle Televendite di quadri e alle altre storture indagate dal quartetto, non mancando di coinvolgere il concetto di bolla (“sto scegliendo i miei mezzi di informazione per confermare quello che so già” cantano in La mia bolla) e l’iperpervasività dell’ironia che pure loro stessi utilizzano (“con tutta questa ironia non capisco più cosa vuoi comunicarmi”, Vietnam).

Dischi sotterranei resta al fianco della band, che nel frattempo continua a farsi un nome girando tutta la penisola e partecipando a festival come il MiAmi, anche per il successivo Entropia Padrepio (2022), anticipato l’anno precedente dalla “hit estiva” Veneto d’estate che con Nico LaOnda rilegge ironicamente la canzone del duo Fabi-Gazzé. Il terzo disco dei Post Nebbia si sposta dal mondo televisivo a quello religioso, vorticandoci intorno a tutto tondo ed operando una sintesi fra l’assurdità della fede e il bisogno di credere: il mio primo timido approccio con la band è iniziato con questo disco, complice Matteo Bordone e questa puntata del suo podcast Tienimi Bordone (potete ascoltarla solo se siete abbonat* a Il Post, sorry), e riascoltato a nastro nelle ultime settimane non perde niente della sua carica, della profondità dei suoi testi e della musica, che si fa più weird piazzando bordate di synth nei punti giusti e piccoli dettagli qua e là che sembrano meravigliosamente fuori posto, allegria nell’inquietudine o inquietudine nell’allegria. Fra la morbidezza di Viale Santissima Trinità in cui pullman di calabresi arrivano in città perché “qualcuno ha visto Gesù dentro al parcheggio della pizzeria” e le asperità tenebrose di Voce fuori campo (“Sarò uno schiavo, un soldato, un burattino di legno/ Di un’entità che si rifiuta di mostrarsi a me” è una frase esplicativa di quanto Corbellini esplori attentamente tutto l’ambito che riguarda la fuga delle persone da sé stesse) trova spazio anche il citazionismo ermetico di un capolavoro come Neon Genesis Evangelion in Oltre la soglia, brano che chiude un album che nel “Padrepio” scritto tutto attaccato del titolo “controbilancia con leggerezza un disco che non è affatto leggero”, come racconta lo stesso Corbellini in un’intervista per La Repubblica. Prodotto da Fight Pausa dei 72-Hour Post Fight (che qui apprezziamo molto), Entropia Padrepio vede anche un cambio di formazione all’interno della band, con l’uscita di Chillin e Bosio e l’ingresso al loro posto di Giovanni Dodini alla batteria e Giulio Patarnello alle tastiere.

Nell’intervista linkata più in alto Corbellini ha modo di parlare di Momentum dei Calibro 35 (altra band che qui apprezziamo molto), disco che lo affascina molto perché “loro hanno rinunciato a definire un concept narrativo come avevano fatto in altri dischi in cui c’è una direzione precisa. Vorrei riuscire a fare qualcosa così”: uscito da poche settimane, Pista nera è forse il disco dei Post Nebbia che più si avvicina a questa libertà di spaziare. Più diretto e coeso rispetto ai dischi precedenti, l’ultimo lavoro della band è anche il meno ironico: scritto tenendo conto della resa sul palco, come afferma Corbellini in quest’altra intervista (quanti link oggi!), Pista nera è pervaso da un forte senso di pessimismo dovuto parzialmente al fatto che, utilizzando le sue stesse parole “il mio ideale di vita felice sembra legato a un’epoca che si è deteriorata, che non esiste più”. L’entropia del disco precedente comincia a mangiarsi tutto, a partire da Non lo so (“Io non lo so/ so solo che/ non rimarrà/ nulla di noi” recita Corbellini mentre sotto la sua voce il ritmo ti invoglia a danzare sul disastro) per arrivare alla solare e scanzonata Piramide, in cui l’arrivismo odierno viene espresso perfettamente nella frase “vedo i tuoi occhi scintillare/ mentre ti aggrappi con le mani/ alla catena alimentare”. Disilluso ma tutt’altro che arreso, nonostante quella disillusione abbia toccato profondamente Corbellini, l’ultimo disco in ordine cronologico dei Post Nebbia è un altro centro e la band lo sta già portando in giro in Italia e in Europa: da Milano passeranno a fine gennaio ai Magazzini Generali e io sono pronto a farmi come regali di Natale il biglietto per il loro live.

Freni inibitori è l’ottava traccia di Entropia Padrepio e una delle canzoni che ho ascoltato più ossessivamente in questo 2024: attraverso immagini di rara efficacia Corbellini restituisce nel testo tutta l’assurdità e la drammaticità della situazione di chi vorrebbe buttarsi e non riesce a farlo, con frasi come “cazzo ho dimenticato le chiavi/ qualcuno venga a rubare il timore da me” o “dammi la forza di pensare poco/ senza paura di farmi del male”, il tutto su una canzone che mescola leggiadria e tinte noir. Nel racconto che mi ha ispirato una sorta di venditore interiore cerca di svendere aggratis tutte queste catene, e visto che siamo quasi a Natale ed è ormai tradizione dedicare un racconto alla festa consumistica per eccellenza chi poteva mai essere l’acquirente? Scopritelo più in basso e ricordatevi che, in tempi in cui anche uno scrittore che ha vinto il Premio Strega viene sottoposto a TSO, la salute mentale è un tema su cui scherzare solo nel mondo della finzione: buon ascolto, buona lettura e buona nascita di Gesù.

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Fuori tutto UniNeuro

Venga venga, si accomodi! Mi fa piacere che sia riuscito a venire, so quant’è occupato in questo periodo. Pure per noi è un periodo difficile, sa? Eh, i ricordi felici… Chi li ha mai visti? Noi qui solo traumi a lenta macerazione ma si sa, le emozioni invecchiate sono più preziose.

Ma si figuri, mica è un modo di trattare sul prezzo! Le pare? Noi che facciamo una cosa del genere, a lei poi? Qui siamo alla frutta le dico, alla frutta! Non è mica una svendita, noi regaliamo tutto! Guardi qui e mi dica se non è un’occasione da portarsi via subito: freni inibitori oliati regolarmente. Il bambino vuole buttarsi dal balcone? Vuole iscriversi a calcio, con tutto il fango sui vestiti che comporta? Ma blocchiamolo subito, poi vediamo se si riesce a sbloccarglieli più avanti!

Qui abbiamo un po’ di sacro timore reverenziale, e se non lo sa lei quanto tira il sacro in questo periodo. È il tipo di cose che serve oggi per i bambini cattivi, il carbone ormai è obsoleto! Anche per una questione ambientale, lei che va in giro con le renne da una vita dovrebbe essere abbastanza sensibile all’argomento.

Questo blocco nero? Mah guardi, se sa a chi portarlo può anche essere utile, ma va maneggiato con attenzione. Rancore purissimo, covato per anni e mai rilasciato. Eh sì, ce n’è in abbondanza in quelle macchine schifose, ma di questa qualità è ben raro trovarne. Nel bambino giusto può anche funzionare da calmante: uno lo attiva, si fa le sue fantasie di vendetta e poi zac! Un bel complesso di inferiorità e tutto si ferma lì. A quanto lo faccio? Ma gliel’ho già detto che buttiamo via tutto!

Abbiamo il magazzino pieno di buone dosi di cautela, metta che vuole tenere un po’ a freno i manager del futuro… sì li vogliono spietati, poi quando però l’assicurazione medica non paga fanno il tifo per chi gli spara. Che mondo eh? Eh certo, oh oh oh, ridiamoci sopra e speriamo nel futuro. Ah, abbiamo anche questa bella zavorra per il cuore: se lo si nasconde abbastanza in basso come si fa a spezzarlo?

Il giro l’abbiamo finito, come vede non ci è rimasto molto: quando vivi di poche emozioni quelle finiscono per mangiarsi tutto. Davvero le interessa quello? Tutto intero? Ma è perfetto! Le faccio anche un bel pacchetto regalo! Solo… vede… c’è una piccola clausola. No ma si figuri, mica deve pagare niente! Per chi mi ha preso? È che abbiamo tutta questa paura di farci del male, in abbondanza, e pensavamo a tutti quei poveri masochisti in erba che potremmo salvare con le nostre scorte. A lei quanta ce ne starebbe in slitta? Mmm… facciamo un pochino di più? Le diamo anche una mano col trasporto, dai.

Ooooooh, lo sapevo che si poteva trovare un accordo! Tutti felici, lei ha i suoi regali per bambini buoni e cattivi e noi siamo un po’ più scarichi. E a Natale lo sa che facciamo per festeggiare? Un bel doppio carpiato dentro al tritacarne, non vediamo l’ora di iniziare così la giornata! Ma si figuri, grazie a lei! E a non rivederci!

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Racconto in musica 189: Qualcosa di cui parlare (English Teacher – Broken biscuits)

Uno dei ricordi più belli che ho sul fronte della musica dal vivo è il Mad Cool Festival di Madrid, edizione 2017. Io e un mio amico ci siamo fatti tre giorni in un’enorme area che conteneva cinque palchi diversi e un cartellone sterminato di nomi, dagli headliner Foo Fighters, Green Day e Kings of Leon a nomi più piccoli e misconosciuti, fra i quali ho pescato anche band che sono finite su queste pagine (le Deap Vally, per dirne una). Pur avendo quarantacinque anni sul groppone io una cosa del genere in Italia non l’ho mai vissuta, un po’ perché non mi sono mai cagato l’Heineken Jammin Festival che, coi suoi pro e contro (fra i contro c’è Vasco Rossi headliner un sacco di volte, ma sono di parte), è la cosa che più si avvicinava ai festival enormi che nel resto d’Europa continuano a svolgersi (anche se pare che il mercato sia in crisi), un po’ perché essendo per la causa della musica bella che fa la fame mi sono concentrato sempre più su festival minori, dal Balla coi cinghiali alla Repubblica Indipendente di Lu che ho più volte citato all’interno di questo blog. La situazione a oggi non è certo cambiata in meglio: i piccoli festival fanno fatica, quelli grossi non esistono (non considero gli I-Days et similia qualcosa di lontanamente paragonabile, visto che sono singole giornate scollegate e che non intrattengono da mattina a sera/notte come il dio dei festival comanderebbe: cosa diversa gli Indipendent Days che li originarono a fine anni 90, che frequentai ahimè solo sporadicamente), così per riprovare quella bella sensazione a luglio emigrerò nuovamente in Spagna, per la precisione a Bilbao per il BBK. Il festival basco è di quelli medio grossi e, come usanza spesso in questo tipo di eventi, mischia i generi come qui siamo poco abituati a vedere: quando ho scoperto che l’headliner principale sarebbe stata Kylie Minogue ammetto che ho avuto qualche ripensamento, ma ero sicuro che il cartellone mi avrebbe dato soddisfazione almeno nei nomi di cui ignoravo l’esistenza: gli English Teacher vengono proprio da quel calderone lì, e dopo svariati ascolti posso dire che spenderei i soldi di quel festival (che si svolge sulle colline fuori dalla città e ha anche un’area camping, giusto per tentarvi nel caso vogliate farci un salto pure voi) anche solo per vedere loro dal vivo.

Carriera breve quella del quartetto britannico formato da Lily Fontaine (voce, chitarra ritmica, synth), Lewis Whiting (chitarra solista, synth), Douglas Frost (batteria, piano, synth, cori) e Nicholas Eden (basso), conosciutisi frequentando il conservatorio di Leeds. Gli English Teacher nascono infatti ufficialmente nel 2020, anche se per due anni in precedenza hanno suonato insieme in una band dream-pop chiamata Frank: di quel dream pop, leggendo le dichiarazioni di Fontaine stessa sulla pagina wikipedia inglese, resta ben poco, forse una base da cui partire per poi far cadere su sé stesso il castello di carte della comfort zone sotto cui avete pensato di potervi riparare.

Il primo singolo della band sono sicuro di averlo intercettato, perché ricordo una delle decine di ricerche google aperte sullo smartphone riguardante una band che ha sfornato la canzone “R&B e Wallace”: peccato che poi si sono rivelati i titoli di due brani di cui il primo, R&B, già capace di far alzare le orecchie a molta gente nel 2021, con il suo andamento post punk e le liriche di Fontaine che parlano di sindrome dell’impostore e di stereotipi nel mondo della musica. Entrambi i brani finiranno sul disco d’esordio, ma prima di quel passo la band sforna l’Ep Polyawkward per l’etichetta Nice Swan, ampliando già il campo della propria musica che, in piena ondata post-punk, poteva restare relegata lì e invece no. Il ritmo catchy di Good grief stuprato da svisate chitarristiche nel breve tempo di manco tre minuti, l’incedere malaticcio e zoppicante di Mental maths su cui si appoggiano improvvise sfuriate di accordi trapananti, la tranquillità di A55 che sfocia in un finale synthaticamente apocalittico, in ogni brano gli English Teacher fanno tutto e il contrario di tutto e senza mai sembrare inutilmente fantasiosi: ognuno dei cinque brani va dove dovrebbe andare, solo che non sempre è dove ti aspetti che andrà.

Per il disco d’esordio la band si accasa alla Island, quindi più in territorio major che indipendente, ma il loro approccio resta deliziosamente anarchico e imprevedibile. This could be Texas esce nel 2024 e parte diretto con la melodia morbida e avvolgente di Albatross, tranquilla e “carezzevole” come direbbe Matteo Bordone ma comunque capace di farsi ossessiva nel finale: dire che il disco è tutto così è allo stesso tempo la cosa più sbagliata e quella perfetta da dire, perché non è che tutti i brani seguano questo schema, anzi, ma l’idea di corrodere dall’interno formule che sembrano apparentemente fatte per il grande pubblico è un gioco che gli riesce quasi sempre benissimo. In I’m not criyng, you’re crying ad esempio, dove il semplice gioco strofa-ritornello viene dilatato rispetto al post punk iniziale fino a farti dimenticare che la struttura è molto più semplice di quanto sembri, nella title track tutta placidezza (quasi natalizia visto il periodo) di synth, piano e fiati che a due terzi viene rapita da un ritmo di chitarra storto che entra lì come se fosse la cosa più normale del mondo lasciando poi agli archi il compito di chiudere in bellezza, un gioco che provano anche in Nearly daffodils senza che lo schema appaia come una ripetizione dato che in mezzo c’è tutto un altro mondo. Volete l’autotune? Nella struggente The best tears of your life Fontaine la piazza sulla sua voce nei ritornelli e invece che sembrare una scelta azzardata il risultato sono lacrime a pioggia. Volete gli Slint? Cazzo c’è pure la loro anima acciaccata, in Not everybody gets to go to space, perché gli English Teacher non si fanno mancare nemmeno lo spoken word e portano le atmosfere della band del Kentucky in territori pieni di synth e archi per poi concludere nella maniera più anticlimax possibile affermando che se tutti potessero andare nello spazio “nessuno vorrebbe più pulire”. Hanno anche dei difetti? Sì, perché il disco si chiude con una serie di brani troppo rilassati, ma lamentarsi della progressione continua di Albert Road è davvero fargli le pulci.

Broken biscuits è la terza traccia del disco, un brano che parte con una tastierina giocattolosa e riesce a mantenere quell’atmosfera sognante da ricordi d’infanzia nonostante le immagini evocate dalla voce di Fontaine mostrino le crepe evidenti di quel quadretto. Prendendo a prestito queste suggestioni ho improvvisato un colloquio paziente-psicolog* in cui solo la voce della prima è presente, stilando un elenco delle propria ossa (e non solo) rotte alla ricerca di una soluzione per ciò che davvero si è rotto in lei. Potete consultare i traumi fisici e mentali della protagonista del racconto appena più in basso, subito dopo la canzone che lo ha ispirato: buon ascolto e buona lettura.

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Qualcosa di cui parlare

Le spalle me le sono spaccate entrambe. No, non nello stesso momento. La prima cadendo dalla bicicletta. Ci crede? Mi ha tagliato la strada un coglione col monopattino elettrico, ha provato anche a scappare il bastardo. Ok, non sarei caduta se avessi bevuto meno, ma lui è passato col rosso e per come la vedo io aveva sicuramente più torto di quanto io avessi ragione.

Il cuore? Batte, che cazzo dovrebbe fare d’altro. Sì, ho capito cosa intende. Ero sarcastica ok? È per caso un delitto anche questo adesso? Sì, ho capito. Ok, ok, non ricominci un’altra volta. Mi hanno spezzato il cuore, per usare il suo termine vetusto, penso una volta sola in vita mia. O almeno, così su due piedi mi viene in mente solo quella, ma se mi fosse importato qualcosa me ne verrebbero in mente altre no? Il sepolto, come dice lei. Ah, non dice così? Va be’, tornando a bomba, aveva i capelli medio lunghi e il tipico ghigno di chi sai che sta per incularti. Non ho mai capito cosa facesse per tirare avanti. Sì, in effetti aveva quasi solo difetti, ma che voglia di vivere! Non pensavo di essere il tipo di persona che può divertirsi fino alle sei di mattina prima di conoscerlo, per cui suppongo di dovergli essere grata di qualcosa. Forse è il senso di colpa ad avermi spezzato il cuore più che lui come persona.

Vediamo, cos’altro. Il ginocchio, una tibia. Le dita del piede, il destro, tutte in una botta sola. Che ci vuol fare, certa gente non sa neanche entrare pulita su un pallone. Ah, il labbro, all’università. Me l’ha rotto il mio migliore amico quando mi ha vista baciare la sua fidanzata. Perché ex amico? Ex fidanzata al massimo, io e lui ci siamo conosciuti così.

Ne ho passate un bel po’, se è lì che voleva arrivare, eppure a questa cosa dei biscotti non riesco ancora a passarci sopra. E sì, lo so a cosa mi riporta quel rumore, alla mamma che li rompeva nel latte, al risucchio che faceva bevendolo che allora mi faceva ridere e oggi mi provoca lo schifo, ma non mi dà comunque ai nervi come il rumore di biscotti spezzati. Quel rumore mi ricorda l’ultimo periodo in cui le cose sono andate veramente bene, e anche se lo so non riesco comunque a farci pace. E lo so che lo sa anche lei, sono sei mesi che vengo qui proprio per questo, quindi non mi faccia le pulci sul sarcasmo e provi a rispondermi a questa semplice domanda: ce la fa ad aiutarmi o vuole che mi spezzi qualche altro osso per avere qualcosa di cui parlare?

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A Natale siamo tutt* più lettor*: i consigli narrativi di Tremila Battute

Se seguite la pagina Facebook di Tremila Battute (pare che Instagram sia più performante ma che ci volete fare, abbiamo scelto il social dei boomer e siamo troppo pigri per aprire un altro profilo) vi sarete accort* che ogni mese pubblichiamo le nostre letture. Di molti di quei libri avremmo voluto parlarvi, consigliarveli, ma ci manca pure il tempo per vivere (o per giocare a Batman: Arkham Knight con una decina d’anni di ritardo o giù di lì) e non sempre parliamo di tutto ciò che vorremmo: approfittiamo quindi delle feste in arrivo per consigliarvi brevemente un tot di libri che secondo noi potrebbero (e dovrebbero) allietare le vostre serate/mattinate/pomeriggi/qualunque periodo della giornata. Cominciamo da

Mario Levrero – A caccia di conigli (piédimosca)

Cos’hanno i conigli di tanto particolare e inquietante da convincere gli amanuensi a ritrarli come spietati assassini a margine delle pagine dei libri? Quale mistero hanno capito rispetto a noi per arrivare a suicidarsi in mille maniere creative nel libro di Andy Riley? Forse non lo sapremo mai, ma a fare da anello di congiunzione fra queste opere arriva la pubblicazione nella collana Glossa di piédimosca di A caccia di conigli di Mario Levrero.

Abbiamo impiegato un’infinità di estati per scoprire che i conigli, d’estate, emigrano dal bosco alla spiaggia. Usano costumi da bagno dai colori chiassosi, occhiali da sole e ombrelloni, e ci risulta quasi impossibile distinguerli dagli altri turisti. Oltretutto, noi del castello non siamo affezionati alla spiaggia, perciò alla fine abbiamo deciso di sospendere la caccia ai conigli d’estate, e invece giochiamo a tombola.

Uscita originariamente nel 1986, la raccolta di micronarrazioni di Levrero è un compendio anarchico ed affascinante di situazioni in cui cacciatori, conigli, guardaboschi e altri personaggi squinternati cambiano continuamente ruolo, da vittime ad aguzzini, fino a situazioni ancora più assurde come conigli usati come conchiglie, castelli da cui non si esce e il narratore stesso messo in mezzo. Non bastasse la fantasia delle situazioni, la qualità della scrittura di Levrero tocca vette sublimi.

Sergio Oricci – Materia prima (Transeuropa)

Un quarantenne in crisi sente il bisogno di avere un’esperienza spirituale. Il quarantenne si chiama Sergio e vive a Cluj-Napoca come Oricci stesso, che partendo da una finta autofiction e mischiando registri narrativi, dal flusso di coscienza in prima persona al teatro al diario, ci porta fra risate a denti stretti e riflessioni in un viaggio dai contorni sempre più onirici.

Lui «Vuoi un fazzoletto, tesoro?»
La figlia di lui «Chiedimelo di nuovo.»
Lui «Vuoi un fazzoletto, tesoro?»
La figlia di lui «Ancora una volta, papà.»
Lui «Vuoi un fazzoletto? Hai bisogno di un fazzoletto?»
La figlia di lui «Ancora, ti prego.»
Lui «Vuoi uno stramaledettissimo porcodio di fazzoletto, tesoro? Per asciugarti quello schifo che ti esce dal naso?»
La figlia di lui «Era la prima cosa normale che ti sentivo dire da settimane. Volevo solo sentirla ancora.»

Materia prima, uscito a maggio per Transeuropa (casa editrice che ha pubblicato di recente anche 20100 del nostro fido collaboratore Alex Roggero), è una lenta e ipnotica discesa in territori sempre più spersonalizzanti, dal flusso continuo di parole ad una condizione in cui le parole non servono più. Dai propri abissi interiori fino a bizzarre comunità spirituali, il viaggio di Sergio è un gorgo che risucchia il concetto stesso di personalità.

Benjamín Labatut – Maniac (Adelphi)

John Von Neumann è una delle figure più geniali ed enigmatiche dell’intero ventesimo secolo. Padre dei moderni calcolatori e della deterrenza attraverso l’accumulo di testate nucleari, genio tormentato e alcolizzato vanitoso, il fisico ungherese ha attraversato il secolo lasciando un segno permanente sulla storia. Labatut lo racconta attraverso le voci di chi lo ha conosciuto, rese in forma narrativa come se fossero delle interviste fuori tempo massimo, per poi arrivare a mostrarci le derive più affascinanti ed inquietanti della creatura cibernetica che Von Neumann ha contribuito a creare.

Anche se in seguito avrei dedicato tutta la mia vita alla fisica, a scuola ero un aspirante matematico, quindi sapevo quanto bastava per cogliere l’incredibile talento di Jancsi: mi spiegò la teoria degli insiemi – la base della matematica moderna – in un modo così semplice e ingegnoso che ancora ho difficoltà a capire come potesse averne una comprensione tanto profonda a un’età in cui non aveva neanche cominciato a radersi. Nei pochissimi momenti in cui lasciava cadere la sua maschera e parlava con sincerità, si capiva quanto fosse motivato. Era roso dalla passione per la logica, e per tutta la vita quel suo strano dono gli consentì di vedere le cose con straordinaria chiarezza, concedendogli una visione così acuta che le altre persone, la cui prospettiva è offuscata da pregiudizi e considerazioni emotive, trovavano il suo punto di vista del tutto incomprensibile. Jancsi tentava di dare un senso al mondo.

Labatut è un abile artigiano delle parole, conosce i trucchi del mestiere e sa alla perfezione come costruire una narrazione incalzante: saprebbe rendere interessante la storia di una pera, figuriamoci la vita del membro più geniale e pericolo del Progetto Manhattan.

David Valentini – Tutto ciò che poteva rompersi (Accento)

“Romanzo di racconti” è il termine che viene spesso usato per descrivere quei libri a cui si vuol dare il valore del romanzo, sminuendo al contempo la dignità dei racconti in sé e per sé. Tutto ciò che poteva rompersi di Valentini è un perfetto esponente della categoria (anche se nella seconda di copertina viene definito “romanzo scomposto”), ma gli intrecci fra le vite dell* protagonist* sono meno importanti della capacità dell’autore di sviscerarne l’interiorità.

Più avanti, la chiesa si erge solitaria e incompiuta. Dal campanile non è mai partito alcun rintocco. Il prete è venuto un paio di volte, ha espletato le sue funzioni in tono dimesso, dispensando brevi consigli e qualche ostia stantia, e se n’è andato. Si è fatto trasferire in un paese più abitato, da qualche parte in Umbria. Dicono che stare qui non aiutasse la sua malattia. Per come la vedo io, il concetto stesso di un prete depresso è contraddittorio, una crepa nel muro invalicabile della fede. Se Dio non riesce nemmeno a dare senso alla vita di un uomo, come può pensare di darlo a questo mondo? È una domanda che dovrei rivolgere a Filippo. Lui avrebbe di certo una risposta complicata da rifilarmi, qualcosa riassumibile con È per questo che Dio non esiste e i preti sono dei parassiti inutili.

Alla ricerca del proprio posto nel mondo, i personaggi di Valentini si schiantano contro problemi famigliari, lavorativi, sentimentali. Si rialzano, come fa chi è protagonista di una storia di finzione, ma con tutte le imperfezioni e le cicatrici addosso, come succede alle persone che avete attorno nella vita di tutti i giorni.

Federico Filippo Fagotto – Flaesh (Rossini)

Cosa accomuna un sessuomane che tira a campare vendendo cimeli di famiglia in un mercato rionale, una donna trascinata suo malgrado nella lotta ambientalista e una figura misteriosa che vaga per il Sudamerica alla ricerca di visioni? È quello che si scopre arrivando alla fine di Flaesh, secondo libro di Fagotto, un libro che parte come un giallo per poi dimenticarsi della sua natura con lo scorrere delle pagine, trascinato dalle peregrinazioni lungo la Storia di un’anima immortale.

«[…] vivere significa cercare di capire perché si è scelto di nascere. Non tutti capiscono di essere stati loro a scegliere di vivere e cercano quindi di scegliere ciò che ancora non è successo, mettendosi a progettare ogni cosa. Ma i progetti guardano alla morte e non alla nascita, peccato che la morte sia incomprensibile da questo lato.»
«Lato?»
«Al di qua del suo compimento. Capire la morte è compito della nostra prossima esistenza. Prima dobbiamo capire perché abbiamo scelto di nascere, una vita è degna di essere vissuta solo se ci porta a rispondere a questa domanda».

Denso e sfaccettato come nei migliori esempi di postmodernismo, il libro di Fagotto riesce a trasportare il lettore in un caleidoscopio di situazioni rendendole tutte reali, che siano la visita al mercato di Senigallia, il soggiorno presso un ecovillaggio sardo o le scorribande di Edward “Barbanera” Teach: e come un meccanismo perfettamente tarato, quando meno te lo aspetti, porta risposte a domande che ti eri dimenticato di aver fatto.

Ling Ma – La donna che scompare (Codice Edizioni)

“È nelle situazioni più surreali che una persona si sente più presente, più vicina alla realtà”, recita una frase nella seconda di copertina, e di certo La donna che scompare non lesina su questi tipo di situazioni. Fra droghe che rendono invisibili, donne con cento amanti, passaggi segreti nel proprio studio che portano in mondi alternativi e feti che impongono la propria presenza ancora prima di nascere Ling Ma dà fondo a tutta la sua fantasia, mostrandoci attraverso una lente distorta la solitudine che ci attanaglia, le nostre difficoltà di comunicazione e gli stereotipi che continuano ad affliggere la nostra visione.

L’ultima pagina dell’opuscolo, che si chiamava L’atto sessuale con uno yeti, spiegava le differenze tra il corpo umano e quello degli yeti, talmente notevoli che, prima di poter procedere con quell’atto innaturale, si dovevano stipulare rigidi compromessi. Lo yeti aveva l’epidermide rivestita da minuscoli incisivi ed era così da millenni. Nel frattempo, il corpo umano si era evoluto. Il corpo umano aveva imparato. Si era adattato. Il corpo dello yeti era sopravvissuto grazie al principio opposto: non si era evoluto. Il corpo dello yeti non cede. Non è affatto cedevole.

Fa specie che, all’interno di una raccolta di racconti così sfaccettata, a brillare particolarmente sia il racconto più realistico, Arance: raccontando il confronto fra una ragazza e l’ex fidanzato violento l’autrice riesce a mostrare, al contempo, che non ha bisogno del surreale per dire qualcosa di importante e che il surreale non sminuisce la portata di ciò che ha da dire.

Patrick Winn – Narcotopia (Adelphi)

Ogni tanto capita che la Birmania (o Myanmar, come ha deciso di rinominarla il regime militare che ancora cerca di governarla) balzi all’attenzione internazionale. È capitato con il Nobel per la pace assegnato ad Aung San Suu Kyi, è successo nuovamente con le accuse alla stessa leader del primo governo democraticamente eletto di persecuzione delle minoranze (quella Rohingya nello specifico), e per finire con l’ennesimo colpo di stato che nel 2020 ha portato la nazione sull’orlo di una guerra civile. Mai avrei però pensato, prima di leggere Narcotopia di Patrick Winn, che il paese asiatico potesse essere il centro nevralgico di una guerra fra CIA e DEA che ha aiutato una tribù di ex cacciatori di teste, gli Wu, a formare un narcostato ormai indipendente dal resto del territorio.

Da quel pasticcio si ricavava una lezione sola: la crociata americana contro la droga non avrebbe mai colpito gli eserciti di narcotrafficanti protetti dalla CIA, a prescindere dalla quantità di oppio ed eroina che avessero prodotto. Il presidente Bao non poté nascondere la sua frustrazione. «Ci trattate come terroristi, ma non sappiamo nemmeno come fabbricare un petardo» sbottò. «Cosa volete da noi? Volete venire qui a piantare altri campi di papaveri?».
Già. Che cosa voleva davvero l’America?

Winn, con le sue capacità investigative e il fortunato incontro (ma si sa, la fortuna aiuta gli audaci) con alcune fonti di prima mano, riassume in Narcotopia l’incredibile vicenda della nazione Wu, da congrega di tribù armate in chiave anticinese negli anni cinquanta a territorio vassallo della Cina moderna, capace di portare ai massimi fasti il commercio d’oppio del Triangolo d’oro per poi passare al mercato delle metanfetamine. Dalla granata facente funzione di batacchio nella chiesa del rivoluzionario cristiano Saw Lu alla villa impenetrabile di Wei Xuegang, il più grande e misconosciuto narcotrafficante del pianeta, si dipana una spy story che nessuno sceneggiatore sarebbe riuscito a ideare: nessuno sceneggiatore, ma non gli altamente fallibili servizi segreti statunitensi.

Questi alcuni nostri consigli di lettura, ma prima di congedarci un ultimo consiglio: fate un dispetto a Jeff Bezos e, se qualcuno di questi libri vi incuriosisce, compratelo in una libreria indipendente, Tremila Battute ve ne sarà grata.

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Racconto in musica 188: Stop, basta, fine, addio (Sorelle Gemelle Lasciate In Castigo – Stop, basta, fine, addio)

Cosa vuol dire vivere in provincia se ti piace la musica che non va per la maggiore? Mi ritengo una persona fortunata, perché sono nato a quaranta chilometri da Milano e, una volta fatta la patente ed essermi arreso all’evidenza che se i concerti non venivano a me dovevo andare io da loro, lo sbattimento per alimentare la mia passione è stato relativo (vivere sul Monte Amiata, traslando alla fruizione passiva quello che mi raccontavano i purtroppo disciolti Dondolaluva sulla difficoltà di trovare luoghi dove suonare, è tutta un’altra storia): detto ciò vivere in un paese di quasi settemila abitanti, dove l’apice dell’esperienza musicale è la scuola dei Cantori del paese (dove ho fatto il corso di chitarra classica, imparando a suonare con le dita e dimenticando tutto non appena messe le mani su un’elettrica), non dà ottime prospettive sulla qualità e sulla varietà della musica che potrai sentire, e il punto più alto o più basso a seconda dei gusti veniva (e viene tuttora) raggiunto durante la festa del paese, a settembre. Giuro di aver visto Mal cantare sul proprio playback in un’imbarazzante lunedì sera (contando che abitavo a uno sputo dalla piazza dove si esibiva riuscivo a sentirlo anche dentro casa), e non so se era meglio o peggio delle cover e tribute band che passano di lì o dalle feste rionali imballate di gente meno esigente di me, ma devo dire che negli anni una manciata di soddisfazioni me le sono riuscite a togliere. La prima è stata da adolescente, quando senza un motivo spiegabile sul palco della piazza è apparsa una band che faceva cover del gotha del grunge (che stava già andando a deperire), e il me di allora non sapeva di poter chiedere addirittura della musica originale e ringraziava commosso; la seconda è stata la chiamata clamorosa dei Perturbazione, non ricordo se reduci da Sanremo ma comunque una band indie in carne ed ossa, che ha riempito la piazza ma non ha evidentemente convinto la giunta comunale, che simili esperimenti non mi sembra li abbia più fatti; la terza è stata un concerto a cui io in realtà non ho partecipato, perché avevo altro da fare o perché sono stupido (o entrambe le cose), organizzato come parte della premiazione di un concorso letterario e che ha visto sul palco Albedo (già ospiti di queste pagine, e parte di questa storia l’ho raccontata proprio lì), Daniele Celona e Umberto Maria Giardini (pure lui già apparso su queste schermate). Quel concerto, lo scoprii in seguito, era organizzato dall’associazione ASAP – As Simple As Passion, di cui entrai a far parte nei mesi seguenti e che aiutai in alcune edizioni del concorso Provincia Cronica, quello di cui si stava svolgendo la premiazione: deus ex machina del tutto il presidente dell’associazione, Roberto Conti, che è stato il primo collaboratore esterno del blog e oggi ritorna, da grande fan di UMG, con un racconto ispirato al nuovo progetto del cantautore ovvero la band Sorelle Gemelle Lasciate In Castigo.

Novarese classe 1982, Roberto è un altro figlio della provincia che non solo non si è fatto ingabbiare ma si è pure adoperato per cambiarla dall’interno. Giornalista professionista, ha collaborato e collabora tuttora con festival letterari e musicali, come lo storico Balla Coi Cinghiali che speriamo tutt* di veder resuscitare dalle proprie ceneri. Il premio letterario Provincia Cronica, di cui si parlava sopra, lo inaugura nel 2008, mentre dieci anni dopo co-fonda il progetto NO – Racconti per un nuovo immaginario novarese, attraverso il quale pubblica fra il 2018 e il 2019 due antologie, una di autori e un’altra di autrici novaresi, con la collaborazione della casa editrice Effedì: per Tremila Battute, rimanendo sui racconti, ha invece scritto questo basandosi su una canzone dei Baustelle, aiutando per primo questo blog a diventare aspirante rivista letteraria.

1, il disco d’esordio dei Sorelle Gemelle Lasciate In Castigo pubblicato da BaoBab Music & Ethics, è uscito a luglio di quest’anno, eppure trovare informazioni al riguardo è tutt’altro che semplice. Post sui social di chi ci ha lavorato, striminziti comunicati stampa, una dichiarazione dello stesso Giardini in cui esprime tutto il suo entusiasmo per l’uscita (“Ci sono momenti nella vita in cui l’unica cosa importante è stare bene e fare quello che si vuole. “1” delle Sorelle Gemelle Lasciate In Castigo per me è tutto questo. […] questo album vi spiazzerà rendendovi partecipi della teoria che la buona musica vive anche di semplici presupposti non solo e necessariamente legati al business.”). Roberto mi ha aiutato a rimpolpare le informazioni coi nomi dei musicisti coinvolti, ovvero Davide Canalini, Filippo Della Magnana, Marco Marzo Maracas e Floriano Bocchino, mentre una voce a parte la merita Salvatore Russo co-autore dei brani (e a tutti gli effetti quindi la seconda sorella gemella) nonché ex componente di un pezzo di storia della musica “alternativa” in Italia, i Santo Niente di Umberto Palazzo, con i quali ha registrato l’anarchico ‘sei na ru mo’no wa na ‘i, disco prodotto da Giorgio Canali che, ritrovatosi ad ascoltare i brani prima delle registrazioni, disse qualcosa tipo “ragazzi, non è il caso di fare una demo, perché se si accorgono di quello che stiamo facendo questo disco non si farà mai”.

Ma cosa fanno i/le Sorelle Gemelle Lasciate In Castigo? La formula “UMG che fa stoner” è allo stesso tempo calzante e fuorviante, perché i suoni sono sì più grossi e roboanti di quanto normalmente non si trovi nella discografia di Giardini ma il mix li ammorbidisce, lasciando spazio alla poetica e al modo di cantare unico del cantautore: all’interno del disco si trovano però anche brani come Il lago delle vergini, strumentale in bilico fra il deserto roccioso del sud ovest statunitense e e quello sabbioso della fascia sahariana, o la Dai! Dai! Dai! su cui si sfoga il sempre magistrale Edda, l’elemento più diretto e grezzo dell’intero album. Fra echi dei Queens Of The Stone Age (Questo caos) cavalcate esaltanti (Profumo nucleare) il disco si conclude mostrando i lati più estremi delle sue due anime, distorta e sensibile: la strumentale Attrezzo, bassa e cavernosa nel suo incedere schiacciasassi, e I fiori neri dell’amore, una quasi-ballad in cui basta iniziare l’ascolto in punti a caso per trovarsi di fronte a frasi come “la vendetta fa tappa in ognuno di noi”. A livello personale avrei preferito un mix con la voce un poco più indietro, lasciando sfogo alle distorsioni che, soprattutto nel caso della chitarra solista nei ritornelli di Diana, faticano a mostrare i muscoli quanto vorrebbero, ma per quello chissà, magari ci sarà un “2” all’orizzonte.

Stop, basta, fine, addio è la terza traccia del disco, uno dei brani più delicati in cui Giardini pennella con poche ed efficaci immagini un amore sfiorito. “Mi rendo conto che il momento può accadere quando accade”, recita il testo, ed è su come Carla arriva al momento in cui dire basta che Roberto costruisce la sua narrazione, utilizzando i frammenti del testo come tappe di “un lento processo di disillusione” che si svolge lungo le strade di una Bologna notturna e malinconica. Potete cogliere questo efficace gioco di rimandi leggendo il racconto con la canzone in sottofondo, come consiglio di fare sempre e comunque: buon ascolto e buona lettura quindi.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero l* artist* accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Stop, basta, fine, addio, di Roberto Conti

Le braccia tatuate di Luca erano state la sua prima distrazione. Un fascino che parlava di ribellione, di storie nascoste e pericolose. Carla ricordava ancora come quella pelle piena di segni l’avesse attirata una sera in piazza Verdi, tra i gruppi di studenti che si mescolavano sotto i portici. Lei si sentiva incompleta, e con Luca tutto sembrava più vivido, estremo, come se il mondo potesse finire da un momento all’altro.

Poi il fascino si era trasformato in finzione. Dietro quei tatuaggi e le frasi sussurrate a metà c’era solo la superficialità di chi pensa che il mondo esista per piegarsi al proprio desiderio. Era iniziato un lento processo di disillusione, una marea che si ritira lasciando sulla spiaggia i resti di ciò che Carla pensava fosse amore.

Le lezioni all’università, le serate in strada, i pomeriggi trascorsi sui colli a parlare di progetti e sogni… tutto aveva iniziato a perdere colore. Poi c’era stato il ritratto di Valerio, trovato per caso in un cassetto. Non era il suo coinquilino, Carla ne era sicura: forse un’altra conquista, un altro volto di cui Luca si era dimenticato, lasciato lì per distrazione o per ricordarle quanto fosse insignificante nel suo mondo egoriferito.

Le notti ‘fortunate’ di Luca erano un segreto a malapena nascosto. Carla lo aveva sempre saputo, ma ogni volta Luca diceva che quelle erano solo fantasie, paranoie infondate. “Mi fido di te”, ripeteva, ma quelle parole sapevano di plastica: vuote, come la loro storia.

La notte dell’undici novembre Carla camminava per le strade semivuote del centro storico, con i pensieri che la logoravano in silenzio. Bologna dormiva sotto una coperta di nebbia leggera, i lampioni proiettavano ombre lunghe e l’eco dei suoi passi rimbombava sotto i portici di via Zamboni. Era passata davanti alla finestra illuminata di Luca, per un istante aveva avuto la tentazione di salire e chiedergli per l’ennesima volta delle sue bugie, mettendolo davanti alla verità. Si era fermata, guardando la finestra da lontano, respirando la stessa nebbia che ammantava il loro amore.

“Abbiamo un metro differente, io e te.” Questa frase risuonava nella mente di Carla come un mantra. Luca viveva senza mai fermarsi, in una sorta di bulimia, lei si sforzava di stargli dietro e di adattarsi a una vita che non era la sua, piena di menzogne e maschere. Ma per quanto tempo si può ingannare se stessi?

Rientrata nel suo appartamento, Carla si guardò allo specchio e vide il volto di qualcuno che non riconosceva.

Il momento di lasciare accade quando accade. Non ha una spiegazione. È solo una porta che si apre e, se hai il coraggio, ci passi attraverso. Così Carla decise di andarsene. Di dire basta.

Non era un addio rabbioso, non c’erano più passione né dolore, solo stanchezza. Quando Luca la chiamò l’ultima volta guardò il telefono squillare sulla scrivania della sua camera e sentì che lasciarlo suonare a vuoto era un gesto più potente di qualsiasi parola. Non c’era più nulla da dire.

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Il peso del nome: i nuovi dischi di Ottone Pesante, Huge Molasses Tank Explodes e GodzillaSexBike

Per certi versi sono una persona semplice, e questa semplicità di fondo si è rivelata già anni fa quando dovevo scegliere cosa recensire nel mazzo dei dischi arrivati a Indie-Zone, basandomi solo su tre fattori: la cover, il comunicato stampa (se presente) e il nome della band/artista. Secondo voi, fra un cantautore e i primi dischi di Gazebo Penguins e Tiger! Shit! Tiger! Tiger! io cosa potevo scegliere? Sono una persona semplice, e i nomi strambi mi hanno fatto sempre venire voglia di approfondire la questione.

Questa semplicità si riflette anche nel modo in cui è stato concepito questo articolo, che invece di mettere insieme i migliori dischi che ho sentito nell’ultimo periodo o quelli che hanno un’impronta musicale simile si concentra sul nome: quando mi ricapita di unire una banda armata che risponde al nome di Ottone Pesante, Huge Molosses Tank Explodes e GodzillaSexBike? Non lo so, quindi pronti all’infornata di musica dai nomi grossi.

La guerra degli ottoni

Dopo un disco dai toni doom e un Ep che evoca il black metal (salvo confermarlo solo nella poltiglia sonora della title track) la brass metal band Ottone Pesante (che qui a Tremila Battute conosciamo bene) si getta nuovamente sul campo di battaglia, seguendo stavolta non un filone estetico ma concettuale. I sette brani di Scrolls of war (Aural Music) evocano infatti sia dai titoli che dalla musica immagini di battaglia, soprattutto nei brani più atmosferici. È impossibile non evocare lo scempio che rimane al termine di un conflitto nei contrappunti epici che costellano il magma tenebroso nella prima metà di Men kill, children die, ma da lì il trio tenta di risollevarci con tutta la drammaticità del caso aprendosi ad un’alba impietosa a furia di inserti di tromba e trombone processati fino a farli sembrare un grido angelico che, prendendo a prestito le parole di Sam Rockwell in un punto di Sette psicopatici, ci lasciano credere che “il cielo è abbastanza blu da far capire che potremo vivere in pace, prima o poi”.

Brani come Teruwah o Sons of darkness against sons of shit (titolo che spiace non vedere tradotto) scatenano la verve più veloce e tecnica della band, e sono episodi efficaci e necessari all’interno di un disco vario, che alterna sul finale l’enfasi di Battle of Qadesh, inizio d’ispirazione jazz che lascia poi sfogare la splendida voce di Lili Refrain, e le sferzate diaboliche di Slaughter of the slains, dove impazzano invece le urla di Shane Embury dei Napalm Death. Il finale con Seven è un anticlimax, uno scivolare trattenuto che rende bene l’idea di cos’è la guerra: una consuetudine umana la cui epica si fonda sul nulla.

È quello che mi aspettavo dagli Ottone Pesante? Sì e no, perché li conosco abbastanza bene da non stupirmi di fronte alla loro formula ma allo stesso tempo riesco ancora a sorprendermi di fronte ai mille modi in cui riescono a variare il canovaccio: Scrolls of war è allo stesso tempo una conferma e un gioco al rialzo, perché di enfasi qui il trio ne profonde a piene mani.

Dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo

Gli Huge Molasses Tank Explodes hanno un nome così grosso che pensi subito a qualcosa di distorto e pesante, almeno fino a quando non scopri che deriva da un’alluvione avvenuta a San Francisco a inizio 900 o non ti metti ad ascoltarli, scoprendo che le suggestioni stoner che ti (mi) eri (ero) immaginato sono mitigate a furia di riverberi a livello sonoro, rimanendo però dense dell’effetto psicotropo tipico del genere. Vola più in direzioni cosmiche la band milanese, giunta con III (Tidal Wave Records) in maniera molto didascalica al terzo disco, con un approccio fra lo space rock e lo shoegaze che riesce a far apparire i brani più lunghi di quanto non lo siano realmente: niente lunghe cavalcate, tutto entro il limite dei sei minuti ma con un mood ripetitivo che incanta e una fantasia nei dettagli sotterranei che rende l’ascolto una scoperta continua.

Ho ascoltato troppa musica storta nella mia vita per dire che gli HMTE sono una di quelle band che colora fuori dai bordi, perché basta ascoltare una Tenous form a caso per accorgersi che, seppur mascherato molto bene, lo schema verse-chorus-verse è preponderante: all’interno della stessa canzone ci si accorge però di come sia facile rendere fresca la formula buttandoci dentro un’apertura di ritornello a base di feedback chitarristici sparati nell’aere fino allo spazio, dove portano in fondo la maggior parte delle suggestioni sonore della band. Ancorate al suolo da un lavoro della parte ritmica eccellente (i giri di basso in particolare entrano in testa senza uscirne più), lasciando libere chitarre e tastiera di colorare sì entro i bordi, ma ovunque e con tutti i colori possibili, la band milanese lascia l’infinitamente grande solo per gettarsi a capofitto nell’infinitamente piccolo, esplorando bucoliche e micotiche (nel senso dei funghetti allucinogeni) ambientazioni nella fantastica Distant gloves ed evocando spettri della Summer of love anche nell’andamento narcotico di Eerie light, che nel finale gioca la carta dell’accumulo e sovrasta le orecchie con un’assommarsi di distorsioni e riverberi.

Lungo gli otto brani di III gli HMTE si divertono anche a gettarsi in esperimenti riusciti come Indeterminate, voce e tastiera robotiche che accompagnate da una batteria drittissima fanno pensare per qualche secondo agli Air prima che arrivino le chitarre a far ascendere nuovamente fino all’assolo stellare che conclude il brano. Era quello che mi aspettavo dal loro nome? No, ma quanto vorrei essere sorpreso ogni giorno così.

Il lato discreto della bizzarria

Leggo GodzillaSexBike e nella mia testa si aprono connessioni col cinema più che con la musica. Mi viene in mente Faster! Pussycat! Kill! Kill!, il cinema exploitaion degli anni 70, senza un vero ragionamento logico ma che ci volete fare, la mia testa è quella che è. L’idea di una band che si diverte a grufolare nel confine fra esagerazione e trash si sfalda però già alla seconda canzone, attraverso una chitarra arpeggiata che fa da ottimo collegamento con l’intro di musica da camera (opera della European Recording Orchestra di Sofia, che collabora anche in altri brani), Sophia è un brano rock ben scritto, con le cose giuste al posto giusto, capace di farsi morbido quando serve e di graffiare con suoni abbastanza grossi quando vuole dare una sferzata alle orecchie dell’ascoltatore, con il plus delle due voci, una maschile e una femminile, che trovano un modo efficacissimo di armonizzarsi fra loro: è anche una dichiarazione d’intenti la seconda canzone del disco, che chiarisce fin da subito che i riferimenti musicali sono generici e non specifici, l’obiettivo puntato verso un modo di fare musica più che verso un suono.

Hoobastank, Creed, Evanescense, Nickelback, questi i primi nomi che mi sono venuti in mente ascoltando gli undici brani di Right/wrong/place/time, disco d’esordio dei GodzillaSexBike dopo un paio di Ep e un recente cambio di formazione: band dal suono diverso e dal modo di scrivere diverso, che a un certo punto della loro carriera si sono però trovate a scrivere musica che sembrava pop coi chitarroni e che quando funzionava era una formula efficacissima ma ci voleva un niente perché sembrasse senz’anima. Purtroppo la stessa sensazione si avverte spesso negli undici brani del disco, troppo ancorato a un modo di fare musica che si basa sul binario strofa leggera/ritornello distorto: seguono questo canovaccio alla lettera ad esempio Signs of life e Borderline, rivitalizzate da un’ottima esecuzione tecnica e da armonie vocali (la cosa migliore del disco) efficaci finché le voci di Tommaso Benedetti e Gloria Crudo lavorano insieme, meno quando il primo resta da solo e si adagia sullo stereotipo del rocker dalla voce grezza anche quando non serve. Ci sono anche tentativi di variare il tiro, ma né l’indie ballabile di Love me so né il connubio col country da classifica di Wishes (The birthday song) riescono a dire qualcosa di originale.

Era quello che mi aspettavo? Ovviamente no, ma qua e là ci sono sprazzi di personalità: le strofe piacevolmente storte di Lullaby, il modo in cui Jenny da brano indie adatto a scatenarsi senza troppi pensieri rallenta e porta la festa verso atmosfere sognanti in cui l’orchestra torna a farsi sentire prepotente, momenti che lasciano pensare che poteva esserci molta più carne al fuoco in Right/wrong/place/time. È evidente che la concezione di musica mia e del sestetto brianzolo diverge in molti punti, e può essere che la loro formula li porti anche al successo: GodzillaSexBike mi pare però un nome più adatto ad attirare gli strambi come me che non le major ma ehi, se i Måneskin hanno insegnato al mondo come si pronuncia quella A col circoletto sopra chi sono io per porre limiti alla provvidenza?

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Racconto in musica 187: Un fatto di vergogna (Savana Funk feat. Willie Peyote – Wa zina)

Ognuno ha la sua idea sui generi letterari (conosco almeno una persona che ritiene obsoleto ragionare in termini di generi, e se estendo il discorso al fronte musicale devo ammettere che sono una comoda gabbia per i critici musicali, o i dilettanti come me, per spiegare meglio un disco. Spero che a nessun fratello d’Italia sia venuto un infarto con questo discorso, so che per loro la fluidità è difficile da accettare. Lo spero?), così come ognuno ha i suoi generi preferiti. Più difficile è riuscire a spiegare perché prediligiamo un certo genere rispetto agli altri. Cosa ci appassiona di un giallo? Perché ci sentiamo attratt* dai mondi altri di un fantasy? Di per me, mi sono dato qualche risposta riguardo alla mia fascinazione per la fantascienza, o almeno per una certa parte della fantascienza (detto che ogni buon* autor* declina i generi nella propria forma particolare, rendendo più fluido il panorama letterario. Oh no dottore, ora è venuto un infarto a un* leghista! Sì, lo so che l’asterisco non l* aiuta, ma è più forte di me!). Ne apprezzo il lato di puro intrattenimento (tipo Star Wars, il che non vuol dire che la saga di Lucas non abbia contenuti eh. Quant* appassionat* della saga ho perso con questa frase? Niente, oggi solo nemic* mi faccio), ancora di più quello distopico (raramente utopico) che immagina i pericoli che affronteremo in futuro, adoro quella “filosofica” che ragiona su situazioni ed entità completamente estranee al nostro modo di pensare (due ovvi titoli su tutti: Solaris e Picnic sul ciglio della strada) ma soprattutto, da lettore che si è formato con Philip K. Dick e si è poi scimmiato con Black Mirror, ciò che mi appassiona di più della fantascienza è quando ci fa comprendere l’oggi attraverso il futuro, o prefigura le conseguenze future delle storture di oggi. Anche qui, come per il discorso utopia/distopia, il pessimismo va per la maggiore (se avete visto Strange days immaginate la tecnologia che permette di vivere i ricordi delle altre persone utilizzata per far capire cosa si prova nei loro panni, invece che come droga. Lo avete fatto? Bene, ora non fregatemi l’idea che è lì in un cassetto del mio cervello da un po’, o se ve la fregate utilizzatela bene almeno), ma ci sono sprazzi di luce o, se non altro, scale di grigio in cui le modifiche alla nostra società possono apparire più complesse e stratificate di un semplice discorso bene/male. Tutta questa lunghissima introduzione, piena di parentesi e possibile decimazione del governo eletto, per introdurre Maria Rosaria De Santis e il suo racconto, che racchiude alcune caratteristiche della fantascienza che prediligo ed è ispirato a una canzone dei Savana Funk.

Ventiseienne di Torre annunziata, Maria Rosaria scrive da quando era bambina e nel corso degli anni ha già ricevuto parecchie soddisfazioni. La sua passione si è canalizzata principalmente verso la poesia, pubblicando nel 2022 la sua prima raccolta L’amore immaginario (L’Erudita) e apparendo con i propri componimenti su La Repubblica, L’Altrove e sulla rivista di poesia e traduzione The Polyglot Magazine. Appena Maria Rosaria comincia a sperimentare coi racconti la stessa rivista canadese la ospita nuovamente, così come CrunchEd e Medusa Racconti. Laureata in legge nel 2021, si sta specializzando nel campo della protezione dei diritti umani e a breve uscirà la sua seconda raccolta di poesie.

Esistono band che non esistono, parafrasando uno degli storici trailer di Maccio Capatonda, e all’inizio per i Savana Funk è proprio così. Musica analoga (2016), quello che diventerà ufficialmente il primo disco della band formata da Aldo Betto (chitarra), Blake Franchetto (basso) e Youssef Ait Buozza (batteria), esce a nome del primo con il featuring degli altri due musicisti (e la collaborazione di svariati altri, fra cui il membro non ufficiale Nicola Peruch che li accompagnerà in quasi tutti i dischi sia come musicista che come compositore) ma può già essere considerato parte del “canone” della band visto che da lì in avanti i tre non smetteranno di fare musica insieme. Conosciutisi a Bologna nel 2015, i Savana Funk non ancora Savana Funk cominciano subito a sperimentare il loro travolgente mix di jazz, blues, funk e afrobeat, capace di farsi morbido (ascoltate Strada maggiore nel primo disco) ma più efficace quando si tratta di far scatenare la platea (o anche semplicemente l’ascoltatore contro le pareti di casa sua). Anche Savana Funk, uscito nel 2017 per l’etichetta Brutture Moderne, utilizza la formula Aldo Betto feat. Blake Franchetto e Youssef Ait Buozza, ma basta un anno perché il trio si dia definitivamente lo stesso nome del disco e del primo singolo estratto (possono essere considerati omonimi?) pubblicando sempre per Brutture Moderne Bring in the new, al contempo il primo disco ufficiale e il terzo ufficioso. La formula? Sempre la stessa e sempre diversa, un mix che muta di brano in brano sia a livello di ritmo che di atmosfera, scatenato o riflessivo a seconda dei casi e dell’estro, a volte tutto in una sola canzone (gli otto minuti di Zahra, all’interno di Bring in the new, sono un comodo breviario ovviamente non esaustivo delle capacità del trio), una formula che li porta all’attenzione di un nome piuttosto noto della musica italiana, Jovanotti. I Savana Funk si guadagnano con merito il palco del primo Jova Beach Party, allargando a dismisura il loro pubblico e proiettandoli anche in tv a Propaganda live, il tutto senza snaturare il loro sound.

Nel dicembre 2020 la band pubblica un paio di brani col percussionista Kalifa Kone e con la cantante Kadi Coulibaly, succulento antipasto di ciò che sarà di lì a poco Tindouf, il disco che nel 2021 sancisce l’inizio della collaborazione con Garrincha GoGo, emanazione dedicata alla world music dell’etichetta bolognese. Il disco prende il nome dall’omonima città algerina che è sede di uno dei maggiori campi profughi dello stato, situato in una zona inospitale soprannominata “Devil’s Garden” a causa delle frequenti tempeste di sabbia e delle generali condizioni climatiche estreme: a dispetto della descrizione appena fatta la canzone che da quella città prende il nome, aperta da una lunga intro a base di voci e percussioni, trasmette più gioia che dramma, rispettando l’intento di descrivere attraverso la musica “the journey, the dream, the palpitation, the fear, the hope, and the madness that dwells inside these nomadic human beings”. Riprendendo dalla loro pagina Bandcamp la descrizione che loro stessi fanno del disco

With this new release, Savana Funk is asking their audiences not to look the other away, but to become aware of the historical significance of these migrations, to keep in focus what it means to be human and the consequent right that we all have, to search for a better future. To open our hearts and feel close to other human beings from all parts of the world as our brothers and sisters.

Instancabile dal vivo, il trio/quartetto si dimostra altrettanto pieno di energie (e di idee) in studio. Basta un anno perché venga alla luce, a ottobre 2022, Ghibli, quinto album pubblicato in pochissimo tempo ma non per questo stanco e mancante di inventiva: dalle loro menti e dalle loro chitarre, bassi (e contrabbassi), batterie e tastiere Betto, Franchetto, Buozza e Peruch tirano fuori sempre ritmi trascinanti e melodie evocative, parzialmente riproposte in versioni remixate nel 2023, anno in cui per festeggiare i sette anni della band viene anche rilasciato l’Ep di due brani Live! Raw & naked, che se siete fan della prima ora vi siete probabilmente accattat* aggratis visto che per i primi sette giorni è stato reso liberamente scaricabile. Fra i remix di Ghibli appare anche il nome del produttore e musicista Gaudi, col quale la band a marzo di quest’anno, sentendosi con le mani libere da troppo tempo, ha prodotto attraverso l’etichetta Record Kicks l’Ep di quattro brani Raha (termine marocchino che indica tranquillità e pace mentale, paradigmatico del messaggio che la band vuole portare al proprio pubblico), influenzando la propria musica già di suo ormai piena di suggestioni con il sound della Cosmic-Disco dei tardi anni 70, un mix portato anche dal vivo fra la fine del 2023 e l’inizio del 2024 in un club tour chiamata Savana Sound System articolato in jam session con dj e producer internazionali: da ottobre sono invece in giro con il Samsara Tour che si concluderà a Milano il 22 gennaio, io vi aspetto in Santeria ma seguiteli sui social (o guardate qui) per trovare tutte le date.

La canzone che ha influenzato Maria Rosaria è stata Wa zina, il primo brano in italiano (e in generale uno dei pochi cantati) della band che vede la collaborazione di Willie Peyote, uno che da queste parti apprezziamo fin da quando lo abbiamo sentito duettare con gli Eugenio In Via Di Gioia (due esempi del fatto che Sanremo ha fatto anche cose buone). Brano dedicato alla lotta delle donne persiane contro l’oscurantismo della teocrazia iraniana, a Maria Rosaria la musica dei Savana Funk e le parole di Willie Peyote hanno ispirato un racconto che, per usare le sue parole, parla del “desiderio di liberarsi da un senso di oppressione che potrebbe derivare sia da un momento di vita personale che da una più ampia insoddisfazione politica”. Come il brano che le ha fornito l’ispirazione anche il racconto di Maria Rosaria vuole essere un augurio di libertà, e alla vigilia della Giornata internazionale contro la violenza contro le donne sono felice che il caso e non una pianificazione deliberata abbiano portato questo testo sulle nostre pagine: viene veicolato da musicisti uomini su un blog fondato da un uomo, ma in fondo se ho imparato qualcosa negli ultimi anni è che il 25 novembre dovrebbe servire a educare proprio noi piuttosto che a far sentire in colpa le donne che non vogliono o non riescono a denunciare abusi che non dovrebbero subire. Buon ascolto, buona lettura e buone riflessioni.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero l* artist* accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Un fatto di vergogna, di Maria Rosaria De Santis

A Flora

Il terzo giorno finalmente mi tocco le braccia con le dita tutte sporche di terreno e sento il legno scontrarsi con il legno, il rumore della corteccia graffiata. Per la gioia vorrei gridare, ma già la mia voce umana scompare, affonda nel mio corpo giù per la gola e si spegne sul fondo della pancia, dove prima c’erano gli organi interni.

Al centro mi hanno assicurato che l’effetto della cura sarà immediato e irreversibile. Ho dovuto firmare molti moduli e superare alcuni esami. La direzione, mi hanno spiegato, intende assicurarsi che accedano alla procedura solo le persone davvero motivate. Voler morire non è sufficiente. – Lei comprenderà -, mi hanno detto, – per quello c’è la Svizzera. Il servizio che offriamo qui è diverso, una finezza se vogliamo dirla tutta, niente a che vedere con le porcherie che ci sono in giro. Un’invenzione del nostro fondatore che attualmente vive nascosto in una località segreta, nell’eventualità che succeda quello che la concorrenza si augura da tempo. Capirà che si tratta di illazioni infondate: noi operiamo alla luce del sole, è tutto perfettamente legale. Abbiamo clienti da ogni parte del mondo -.

Ho firmato tutto quello che mi hanno chiesto di firmare, per pagare ho venduto la casa e la macchina, ma ancora non bastava. Allora ho chiesto ai miei genitori un prestito, ho detto loro la verità solo quando sono tornata dalla clinica il giorno dell’inizio della cura, dopo aver ingerito la prima pillola. Mia madre si è messa le mani in faccia, ha gridato: – Pure tu? Ma quanti sono gli infelici, in questo mondo? –

Adesso non ho più una casa, finché avrò ancora le gambe continuerò a vivere dai miei. – E dopo? – ha chiesto mia madre. – Per dopo dovrai comprarmi un vaso – ho risposto.

Il secondo giorno ho preso la pillola contrassegnata dal numero due. L’ho fatto al mattino, appena sveglia, sperando di vederne gli effetti già a sera. Mio padre mi ha chiesto il permesso di sedersi accanto a me, quando la cura sarà finita, di farmi ascoltare la musica o di leggermi il giornale. Immediatamente ho chiamato in clinica per sapere quante probabilità ci sono che io conservi il senso dell’udito. Nessuna, mi hanno assicurato, il nostro trattamento è altamente efficace e fa ciò che promette, non ci sono mai state lamentele. Ho detto a mio padre che mi avrebbe fatto piacere, lui ha pianto un po’. L’ho consolato, ho sentito le sue lacrime cadermi addosso, ma già pensavo ad oggi, che è il giorno finale della cura.

Stamattina mi sono svegliata e finalmente non ho più pelle morbida sul corpo. La mia pelle troppo docile finora è stata al mondo con pienezza, ha sentito tutti i tagli e le umiliazioni che le sono capitati. Presto, invece, non avrò più nemmeno una voce per pregare, e senza preghiera e senza desiderio tutto finalmente smetterà di girarmi forte attorno e di scuotermi e di farmi sentire come brucia il mondo quando si è fatti di carne. Rimarrà solo la vita senza la vergogna: rimarrà la vita, senza tutti voi.

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Racconto in musica 186: Deliri carnali (Papa Ricky – Ratatila)

Come stiamo messi a legame fra musica e politica? Non so se ci avete fatto caso durante qualche manifestazione, ma mi pare (libero di sbagliarmi, e anzi nel caso cazziatemi pure) che ci siamo adattat* a ritenere quel legame ormai spento o perlomeno ridotto a fiammella, il che non è poi così distante dalla verità: per una Odia gli indifferenti di Dj FastCut infatti è facile sentire in corteo (non che io partecipi a mille manifestazioni, il mio attivismo politico si limita al 25 aprile, al Pride e poco altro) mille altre canzoni che arrivano dagli anni 60 agli anni 90, magari qualcosa dai primi anni 2000 e poi… Silenzio. Non c’è più quindi politica nella musica di oggi, e magari addirittura degli ultimi vent’anni? Certo che no, di band e artist* che affrontano temi rilevanti ce ne sono ancora oggi e alcune le abbiamo ospitate pure qua, ma se oggi Paura dell’Islam dei Vintage Violence me la devo andare a cercare su YouTube trent’anni fa Curre curre guagliò dei 99 Posse finiva nella colonna sonora di un film di Gabriele Salvatores. La musica che fa politica è insomma uscita dai radar del pubblico di massa ma continua a venir scritta, suonata, agita ancora gli animi e chissà che un giorno non ci ritroveremo di nuovo con una colonna sonora che rivaleggi con quella di Sud o di altre pellicole del periodo: intanto questo cappello introduttivo attaccato con lo scotch mi serve a introdurre Papa Ricky, che di quella colonna sonora era parte integrante ed è stato ispiratore del nuovo racconto che ci ha donato Cristina Nori.

Cristina è stata una delle prime collaboratrici di Tremila Battute, essendoci passata a trovare già nel 2020 con questo racconto per poi tornare un annetto fa, in occasione del compleanno di Gesù, con quest’altro racconto. Negli anni ha scritto poesie, raccolte di racconti (Diario di una molecola psicoattiva, edito nel 2018 dalla casa editrice torinese SuiGeneris), ha partecipato ad antologie e collabora a tutt’oggi con Read And Play, realtà a noi affine che pubblicizziamo sempre volentieri: in attesa di nuove avventure letterarie siamo lieti di ospitarla ancora su queste pagine (o schermate che dir si voglia).

Indagare sulla carriera di Riccardo Povero, ovvero l’artista salentino che si cela dietro al moniker Papa Ricky, è più complicato. Poche informazioni frammentarie che partono dalla fine degli anni ’80, periodo in cui è attivo a Bologna e fa parte del collettivo Isola Posse All Stars, fondamentale per la scena hip hop nazionale e non solo: nata all’interno del centro sociale Isola nel Kantiere, la crew anima la campagna Stop al panico che porterà nel 1991 alla pubblicazione di un singolo omonimo, cercando di resistere allo sgombero del centro sociale (e di altri in giro per la città) in un clima teso con le forze dell’ordine anche a seguito della Strage del Pilastro da parte della banda della Uno Bianca. Della crew fanno inizialmente parte, oltre a Papa Ricky, anche Speaker Dee Mò, Deda, Gopher D e Treble, quest’ultimo già attivo con una band che sarà fondamentale per tutta la scena salentina, i Sud Sound System. Mentre la Isola Posse All Stars muta con gli anni fino a portare, con numerosi cambi interni, ai Sangue Misto, Papa Ricky inizia in proprio a giocare con reggae, hip hop, ragamuffin e musica elettronica, il tutto usando il dialetto salentino: il suo primo singolo, Lu sole mio, viene pubblicato nel 1992 dalla Century Vox, mentre l’anno dopo la sua A nnatu lu sole, grazie al già citato film di Salvatores, gli dà una visibilità ancora maggiore, tanto che il disco d’esordio Lu Papa Ricky glielo pubblica una major come Virgin. Successo e fama assicurati quindi? Non proprio, perché proprio da qui le informazioni su di lui cominciano a diventare più lacunose.

Servono infatti sette anni perché veda la luce un nuovo disco di Povero, che fa comunella con la band I Cauti (Evy Arnesano, Franco “Jamaica” Barletta e Gianluca “Pecos” Grazioli) per cucinare 13 semplici ricette, uscito per Giungla Records nel 2002. Sono anni in cui il trip hop risuona ancora in parecchie produzioni italiane e Papa Ricky, ben contento di sperimentare coi suoni e con le parole, miscela anche quell’influenza nel suo già denso sugo di influenze salentino-caraibiche: le strumentali Latte in polvere e Friggione denotano benissimo il legame con la climaticamente lontanissima Bristol, ancora più distante se ci si lascia scaldare dalla solarità contagiosa di brani come Imprevedibile, ma laddove le due anime si mescolano (in Bellu bellu ad esempio) l’ideale ponte con il Regno Unito non sembra affatto instabile, anzi. Nel 2012 Povero torna sulle scene con un nuovo disco, Villa Barca, pubblicato dall’etichetta Elianto e prodotto, fra gli altri, dall’ex compagno di posse Treble, ma è un disco di cui so dirvi molto poco se non attingendo a un comunicato stampa scovato su Internet (che mi è stato molto utile anche per fornirvi le informazioni di cui sopra): l’unica canzone di cui sono riuscito a trovare traccia è infatti il singolo Libero, meno sperimentale rispetto alle canzoni del disco precedente ma non so quanto identificativo di Villa Barca in toto. Da lì in avanti il buio, ma Povero non ha smesso di fare musica e di far muovere il culo alla gente che si presenta ai suoi concerti: l’ultima canzone di Papa Ricky, Ye ye c’è indica, è datata 2022, il che significa che con alti e bassi continua a lottare insieme a noi a più di trent’anni dal 1993 in cui Cristina lo vide esibirsi ai Murazzi di Torino, un concerto che lei stessa descrive come “pieno d’energia, ricordo un ragazzo solare e vitale come lo spirito delle sue canzoni”.

Ratatila, penultima traccia di 13 semplici ricette, è la canzone preferita di Cristina all’interno di un album che le è risuonato per intero in testa mentre scriveva il suo racconto. “Il ritmo da taranta sottolineato da voci e orchestrazione” del brano si è guadagnato il posto d’onore anche per l’accenno veloce nel testo a un ferragosto passato a ballare, completamente diverso da quello che passa a sudare sotto le lenzuola la protagonista del racconto: di quale natura siano i deliri carnali che la febbre le porta alla mente sta a voi scoprirlo, andando a leggerlo più in basso dopo i miei consueti auguri di buon ascolto e buona lettura.

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Deliri carnali, di Cristina Nori

Fa caldo, d’altra parte è ferragosto.

Che bella coincidenza ammalarsi con questa temperatura e trovarsi sudati fra le lenzuola umidicce. Mi sento un gigantesco involtino primavera che non ha sopportato la frittura.

Gli altri sono in spiaggia a festeggiare – come biasimarli – e io mi crogiolo per il secondo giorno nel dormiveglia.

Non sento bisogno di cibo, solo acqua e penombra.

Veglia, sonno, tutto è alterato e mescolato in una strana dimensione. L’unico rumore è il ticchettio sul pavimento delle unghie del mio cane, che ogni tanto viene a vedermi: non credo sia premura, penso voglia accertarsi della mia capacità di portarlo a spasso.

Mi spiace, Ubu, dovrai attendere il ritorno del resto della famiglia per una passeggiata.

Nel sonno vengo colta da mille sensazioni. Non sono semplici sogni, sono vie che attraversano tutti i miei sensi. E sono parecchio bizzarre.

Ritorno con la mente a quando ero bambina e, a casa di mia nonna, si preparavano gli agnolotti per Natale o per Pasqua. Essendo piemontesi, gli agnolotti prescrivono come dogma un ripieno di carne, di arrosto di vitello per la precisione, e chi osa parlare di ricotta e spinaci rischia la scomunica.

Preparare gli agnolotti era un rito collettivo. Ci impegnava in quattro: nonna, prozia, mamma quando non lavorava e io. Preparavamo la sfoglia, che veniva tirata con la Imperia a manovella, l’arrosto e le biete, che venivano tritati e mescolati con uova e pangrattato per il ripieno.

Poi veniva la parte più divertente, ovvero riempire la sfoglia vuota col suo contenuto e chiuderla. Né troppo poco, per non far venire fuori un agnolotto misero, né troppo, per non farlo esplodere in cottura. In genere venivo cacciata via poco dopo l’inizio di questa operazione, perché era più il ripieno che mangiavo crudo rispetto a quello che mettevo nella sfoglia.

Succede che, in questo letto ferragostano, a me sembra di vedere il piatto di portata della nonna, di ceramica spessa, bianca, con dentro gli agnolotti al sugo di carne. Non solo lo vedo, ne sento il profumo. Sento nell’aria la noce moscata e il pepe nero.

Sarà il covid, ma mi sembra anche di sentire il rumore del cucchiaio del servizio buono – ché alle feste grandi si tirava fuori l’argenteria – battere contro il bordo del piatto e tirar su gli agnolotti fumanti.

Mi sveglio, in tempo per vedere il mio cagnone che mi scruta e mi fiuta col suo naso umidiccio. Non devo profumare dopo due giorni a letto, perché si volta e vedo allontanarsi il suo codone e i suoi succulenti quarti posteriori…

Mi ricordo all’improvviso perché sono vegetariana da anni.

Non mangerei il mio cane Ubuntu, anche se ogni tanto se lo meriterebbe, perché morde le mani e distrugge le ciabatte. Quindi perché mangiare un vitellino o un porcello?

Sono felice così, nonostante i ricordi mi abbiano riportato ad un periodo pieno d’amore. I miei deliri carnali sono diversi da ciò che si aspetta la gente, ma in fondo l’importante è che Ubu stia lontano dal ripieno degli agnolotti.

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Distruggere i personaggi per plasmare delle icone: No Big Deal, l’esordio rockettaro di Rachele Salvini

di Ilaria Petrarca

Leggere questo romanzo è stato come assistere a un’esibizione degli Who perché No Big Deal (edito da Nottetempo) ha un’anima rock ma si atteggia da punk, ma soprattutto perché si arriva alla fine mediante un atto distruttivo.

Ma partiamo dall’attacco. Da subito, a orecchio, si riconoscono le note di una catabasi giovanile.

Se quella sera Lena Marchi avesse deciso di rimanere chiusa nella sua camera di tre metri per quattro in un appartamento muffoso dell’Est End di Londra, non avrebbe mai visto i (No Big Deal), non si sarebbe mai innamorata di Alexander Green, e non avrebbe mai conosciuto Dixon Hein.

(p. 9)

L’anticipazione contenuta nelle prime righe rivela l’ambientazione e i protagonisti per ammiccare alle domande che trascineranno il lettore in un pogo incontrollato: qual è stata la conseguenza di quella scelta? Perché è andata così male? Perché – e questo lo sappiamo tutti – un’apertura di questo calibro non può di certo illanguidirsi in un lieto fine da romance su Wattpad.

Eccoci, dunque, a saltellare su una scaletta fatta per una buona metà dei tormenti di Lena e delle sfighe di Dixon. Le due linee narrative corrono tese come le corde di una chitarra. Entrambi i protagonisti sono figli unici con padri abusanti, madri che non sanno difenderli, amici che non chiedono mai come va e rapporti inesistenti o a dir poco complicati con l’altro sesso. È un bordone destinato a non tenere, e infatti ben presto la musica cambia tono.

Rachele Salvini inserisce una sequenza di spallate che distorce le trame parallele. Il ritmo incalza tra la prima persona ora di Lena ora di Dixon, resa credibile da una scrittura semplice che trova la sua caratterizzazione non nella manipolazione della lingua (come si esprimono), bensì nell’interiorità dei personaggi (cosa provano). I corpi dei protagonisti, in particolare, sono le casse di risonanza di una sofferenza che non si piange mai addosso, anzi, fa sfoggio della propria resistenza fisica. Sulla pelle di Dixon il mediocre “fioriscono lividi come mazzi di fiori”; Lena, complessata dal suo aspetto fisico, si strappa le pellicine, le accumula e le mangia. Entrambi sguazzano in uno squallore subito o ricercato allo scopo di annullarsi tra una birretta prima di essere picchiato o una cannetta dopo essere stata scopata, fraseggiando con scioltezza i loro vent’anni di merda fino a quella sera a Stratford, Londra, in un localaccio come tanti.

Dixon ci va perché suona la chitarra nei (No Big Deal), Lena perché intende recensire la band. Il loro incontro avviene per caso mentre entrambi rincorrono un terzo, ossia la musica, vero mentore di questo viaggio dell’anti-eroe che li attrae come un rabbit hole verso il loro paese delle meraviglie. Le aspettative di riscatto dei due ragazzi si concentrano sull’indie rock, un genere che nasce lontano dalle convenzioni mainstream e ha una voce intimista che risuona le loro inquietudini personali.

Dixon impara a suonare per entrare nel giro giusto, Lena studia critica musicale ispirata da Patti Smith; lui vuole produrre riff di chitarra, lei ne vuole scrivere. Tuttavia, nel momento in cui stanno per evolvere, si incontrano e si specchiano uno nell’altra.

Lena aveva la stessa forza che avevo io: si rialzava e continuava.

(p.298)

Lui era uno fra i tanti per me e io per lui. Avevamo lo stesso bisogno

(p.328).

I limiti comunicativi e la scarsa autostima sono la mestica che li tiene sulla stessa scena, il parquet appiccicoso di un pub sul quale sono sgocciolate troppe birre. Lì Lena scopre la vita sesso droga e rock’n’roll grazie al bassista Ale, presentato con un “sorriso sghembo” (noi che abbiamo letto la saga di Twilight sappiamo quanto quell’aggettivo possa essere insidioso) che si tramuta in un sardonico “sorriso punk”. La relazione con Ale la riscatta, da “cesso” di provincia assurge a “fiery”, cioè una donna focosa, e nella city di London! Dixon invece, guadagnata un’improvvisa popolarità come musicista e orecchiata la prospettiva di una produzione discografica, crede di potersi staccare di dosso l’etichetta di sfigato e la divisa del fast food dove lavora su turni. La musica offre possibilità a entrambi, ma loro non sanno accogliere i cambiamenti, pensano troppo a chi sono e a chi stanno diventando, non seguono il consiglio di Pete Townshend quando dice che “il rock non eliminerà i tuoi problemi, ma ti permetterà di ballarci sopra”. Restano coi piedi appiccicati e la trama procede tra episodi già visti e sentiti, hit antemiche che attraversano le generazioni da decenni: le corna, la dipendenza dalle droghe, il sesso in cambio di autostima, i lavori di merda e la puzza di fritto sui vestiti.

L’elemento che poteva essere sfruttato meglio in questo romanzo per me è proprio la musica. C’è un salto di punto di vista al posto dell’esibizione dei NBD e se Lena li definisce “i nuovi Arctic Monkeys”, non si sente la musica che suonano. Si dice che sono dei “calciamerda”, ossia dei tipi dai modi ruvidi, che però abbozzano testi che parlano di Oblio e Amore – sì, con la maiuscola. I NBD si muovono in una bolla tutta loro, una scena che non dividono con nessuno e dove sembrano essere finiti per caso. Non hanno la passione artistica dei protagonisti de I Commitments, né la carriera dei Way out di David Mitchell, né la chiara fama del Bucky Wunderlick di De Lillo.

Tuttavia, “Bada al senso, e i suoni baderanno a se stessi” dice la Duchessa Brutta di Lewis Carroll, e ha perfettamente ragione. Il romanzo di Rachele Salvini poggia su un senso profondo che fa da solido tappeto armonico alla trama, per questo l’autrice riesce a sviluppare una narrazione avvincente, intima ma mai lamentosa, a suscitare empatia verso i personaggi mentre vengono battuti col vigore che Pete Townshend riservava alle sue chitarre.

Ora, il musicista dei The Who ha confessato che non amava i suoi strumenti e li distruggeva unicamente per manifestare estro artistico: “It’s a performance, it’s an act, it’s an instant and it really is meaningless”. Jimi Hendrix, al contrario, ha incendiato la sua Gibson per sacralizzarla: “you sacrifice the things you love. I love my guitar”. Non importa il motivo, il risultato è lo stesso: si distrugge per mandare un messaggio e credo che la stessa cosa avvenga in questo romanzo. L’autrice infierisce sui protagonisti demolendone speranze e buoni propositi, li spoglia dell’integrità giovanile e ci restituisce delle perfette icone generazionali. Il meccanismo della narrazione alternata, le anticipazioni e le figure retoriche appaiono studiati e funzionali alla costruzione di due sopravvissuti al mosh pit selvaggio che segna l’entrata nella vita adulta, quella che ci si sceglie da sé – gomitate e fregature incluse nel pacchetto.

If you can’t defend yourself, you’ll be everyone’s bitch

(p. 67)

Questa perla di saggezza viene messa in bocca al padre di Dixon, personaggio abusante per antonomasia. Estende le parole di Jennifer Egan: “Il tempo è un bastardo, giusto? E tu vuoi farti mettere i piedi in testa da quel bastardo?“ Il confronto ovviamente è improprio, ma scrivere un romanzo sul disagio giovanile mettendoci dentro la musica significa andarsi a conquistare un angolo di una strada già battuta.

Questo romanzo mi anche ha ricordato un altro esordio recente, che non tratta di musica, Tangerinn di Emanuela Achenbaumm (2024, Edizioni e/o). In entrambe le opere la prosa è paratattica, composta da frasi brevi, pochissime subordinate, un italiano talmente semplice da sembrare una traduzione. Ci sono però parole straniere che accompagnano le protagoniste verso una vita diversa, suoni esotici che aprono la coscienza a nuove consapevolezze. L’arabo di “Tangerinn” viene dal passato della protagonista, una ragazza emigrata a Berlino che torna in Marocco per questioni familiari, là dove recupera identità e pace interiore. L’inglese di “No Big Deal” – usato soprattutto nei dialoghi – è invece una formula magica che cambia la vita di Lena, la allontana dal passato e dalle radici intrise di ipocrisia borghese e bugie (non a caso nella prima parte ricorre Rebellion-Lies degli Arcade Fire nella sua forma mediatica di sigla di un programma in prima serata). La delusione, che ve lo dico a fare, è dietro l’angolo.

Io non facevo parte di quel mondo. Non importava quanto volessi leggere e sapere del rock’n’roll. Non ero io.

(p. 309)

E dunque, chi è Lena? È la donna che nell’incipit ha preso una decisione, il “là” che ha avviato il resto della sua vita, segnato dalla consapevolezza di non voler essere più vittima degli altri e dei loro (pre)giudizi. “La fine di un abuso non è mai netta”, a pagina 166, è una frase che sembra riassumere questo percorso. E nemmeno la fine di questo romanzo è netta, perché la vicenda si smorza in una scena in dissolvenza che lascia il dubbio su come continuerà. Pete Townshend aggiustava alcune sei corde dopo averle fatte in pezzi; Rachele Salvini lascia Lena e Dixon su un palcoscenico muto, circondati dai loro stessi cocci.

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Esco dal mio corpo e ho molta paura: The substance e It’s what’s inside

Da che David Cronenberg si è messo a fare cinema, sdoganando forse non per primo ma almeno per più influente un rapporto disturbante fra corpo umano e settima arte, di mutazioni ne sono passate parecchie davanti alla cinepresa. L’horror è ovviamente il genere che più ha esplorato il modo in cui un corpo poteva essere piegato alle leggi della cinepresa, motivo per cui è stata appropriatamente coniata l’etichetta body horror, anche se parecchie pellicole si sono poste a margine fra i generi nel loro tentativo di dire qualcosa al riguardo. La fantascienza in particolare, in maniera connaturata alla sua aspirazione a prefigurarsi il futuro dell’umanità (o, nei casi più estremi, oltre l’umano) è un terreno altrettanto fertile per le riflessioni corporee: La mosca dello stesso Cronenberg viaggia sulla linea di confine dove la scienza porta all’orrore, ma possiamo infilarci senza grossi problemi anche La cosa di John Carpenter o Stati di allucinazione di Ken Russell.

Su quel confine viaggiano anche due film recenti, uno spostato più verso il lato horror e l’altro più verso il lato fantascientifico. Il primo l’avete probabilmente visto arrivare, spinto da un battage pubblicitario abbastanza corposo (che non gli ha comunque fruttato una presenza in sala delle grandi occasioni, almeno per la mia limitata esperienza milanese) ovvero The substance, opera seconda della regista francese Coralie Fargeat; l’altro è un originale Netflix uscito direttamente su piattaforma, It’s what’s inside, che oltre a sembrare uno scioglilingua è l’esordio sulla lunga distanza del regista Greg Jardin.

Femminismo splatter?

Elisabeth Sparkle (Demi Moore) ha un grosso problema: sta compiendo cinquant’anni, e il network per cui conduce un programma di fitness ha deciso come regalo di recapitarle un bel licenziamento. Troppo vecchia per quel ruolo, per qualsiasi ruolo in realtà, questa l’amara verità che scopre nella maniera peggiore, origliando involontariamente la conversazione telefonica in cui il produttore dello show Harvey (Dennis Quaid) prefigura con commenti umilianti la sua sostituzione. Dato che la fortuna è cieca ma una sceneggiatura impietosa ci vede benissimo la nostra eroina sul viale del tramonto riesce a infilare nel conto delle sfighe anche un bell’incidente automobilistico sulla via di casa, per fortuna senza conseguenze come le evidenzia il dottore all’ospedale: peccato che lei, comprensibilmente, non sia dell’umore per godersi l’unica buona notizia della giornata. A tirarle su il morale ci prova allora un medico più giovane, che trattenendola per un ulteriore esame la giudica idonea a un trattamento che, come scoprirà successivamente contattando un numero misterioso, le darà una seconda possibilità… Attraverso un’altra versione di sé. Con una semplice procedura in tre fasi dal corpo violato di Elisabeth spunta Sue (Margaret Qualley), giovane, bella e intraprendente, pronta a prendersi tutto ciò che la vecchia star non può più avere. C’è una sola regola da non infrangere: le due donne sono una, e devono scrupolosamente dividersi il tempo una settimana ciascuna. Cosa può andare storto?

Sarà mica così difficile ricordarsi un unico concetto

Il mondo dello spettacolo è una merda, sfrutta i corpi delle donne e li butta via quando non sono più all’altezza degli standard che vecchi maschi bianchi hanno decretato. È una verità assodata che Fargeat urla alle orecchie e agli occhi del pubblico, senza problematizzare granché perché in fondo ormai lo sappiamo tutt*, come sappiamo che saperlo non impedisce al sistema di funzionare (quasi) alla stessa maniera ancora oggi. Sbarcando a Hollywood la regista dimostra poco interesse per un’accurata analisi del mondo dello spettacolo, tantomeno per una edificante storia di riscatto: presi gli elementi di cui sopra, l’unico interesse di Fargeat è alzare il volume al massimo. Ne esce fuori un film esteticamente eccessivo, pieno di primi piani esasperati e di scelte stilistiche aggressive, condito da una trama che lascia le sfumature e la plausibilità a qualche chilometro di distanza (nel pacchetto “versione migliore di te” pare siano compresi anche gli upgrade “ingegnere” e “muratore”) e si allontana velocemente anche da ogni pretesa di vedere Sue nei panni di chi cambierà le cose dall’interno o Elisabeth in quelli del personaggio per cui provare empatia: The substance è un film di gente terribile, invischiata nel patriarcato e nelle sue lusinghe di successo senza alcuna possibilità di distaccarsene.

In pensione però si sta peggio

La cosa strana è che, nella sua totale mancanza di approfondimento a livello di trama (Fargeat fa dire chiaramente le cose ai personaggi, con tutti i puntini sulle i, in maniera così didascalica che viene da chiedersi se abbia paura che i tre concetti in croce possano sfuggire o se sia una bizzarra scelta volontaria: a Cannes le hanno dato il premio alla miglior sceneggiatura, presumo propendendo per la seconda opzione), il film riesce ad essere tematicamente efficace proprio grazie alle immagini. The substance butta in faccia all* spettator* culi e tette talmente spesso e in maniera talmente ravvicinata che provoca nausea piuttosto che eccitazione, giocando con gli zoom e il ritmo al punto da far sembrare anche il consumare un cocktail di gamberi qualcosa di disgustoso. L’assalto sensoriale non impedisce di annoiarsi in alcuni punti, nonostante lo sviluppo della storia fughi subito qualunque dubbio sul fatto che le cose andranno male (dopo quante settimane secondo voi Sue violerà la sacra regola?) e nonostante l* attor* facciano del loro meglio per dare il peggio (Quaid si diverte un sacco a farsi odiare, e vederlo a un certo punto in mezzo a un board dirigenziale di soli maschi bianchi anziani strappa una grossa risata): poi però si arriva alla fine.

Approvato dalla direzione!

The substance è il classico film pubblicizzato tramite gli svenimenti avvenuti in sala. Quante ne avete sentite di storie del genere? Tante. E quante volte siete rimast* delus* una volta arrivat* in sala? Troppe. Il film di Fargeat, al netto di una componente di body horror piuttosto corposa e debitamente disturbante, sembra andare sulla stessa china fino a quando la regista non decide che il volume  a dieci su dieci non sia abbastanza e prova ad arrivare a quindici: più mutazione, più sangue, più TUTTO. Ho sentito spendere paragoni con un sacco di film, e di questi probabilmente quello più azzeccato (e per intenditori) è con Society di Brian Yuzna, analogamente apocalittico nel finale ma forse ancora un passo indietro: il finale di The substance sembra più un liberatorio scontro fra il film di Yuzna e (riferimento ancora più di nicchia) Tokyo Gore Police, qualcosa di talmente oltre che, per la prima volta in vita mia, ho capito almeno in parte il punto di vista di chi è uscito dalla sala in posizione orizzontale. Avrei preferito un film più profondo? Sì. Sarei disposto a sacrificare questo finale per averlo? Non lo so, ma il dubbio è già un mezzo consiglio per fiondarvi al cinema.

Cambia il tuo corpo con un click

Avete presente quella specie di screen saver che parte quando lasciate una serie o un film in standby su Netflix per troppo tempo? La grande N comincia a proporre altri contenuti, la maggior parte dei quali è pubblicizzata tramite immagini statiche in cui tutt* l* membr* del cast guardano in camera in maniera palesemente artificiosa. Non so a voi, ma a me fa venire voglia di tenermi il più possibile alla larga da quei film/serie: per lo stesso motivo, quando ho visto l* protagonist* di It’s what’s inside nella stessa posa, ancora più estremizzata, ho pensato “questo non lo guardo neanche morto”. Poi però ho letto questa recensione che mi ha convinto a dargli una chance, e con mia grande sorpresa ho scoperto che quello era uno screenshot del film e che aveva il suo senso, anche se non mi toglie la convinzione che sia la scelta sbagliata: fa infatti sembrare stupido un film che non lo è per niente.

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Il punto di partenza di It’s what’s inside è la classica riunione di gruppo fra ex compagni di scuola, quella che nei casi migliori (cinematograficamente) porta a Il grande freddo e nei casi peggiori (sempre cinematograficamente) al terzo American Pie. Analogamente a quest’ultimo è il matrimonio di un componente della vecchia banda a fungere da collante, mentre come nel primo basta poco per mettere sotto i riflettori problematiche irrisolte: quel poco però assume le sembianze di uno strano macchinario analogico, portato alla festa dal classico elemento “genio e sregolatezza” Forbes (David W. Thompson), che promette di far vedere a tutt* le cose dal punto di vista dell* altr*. E mantiene quella promessa.

Vuoi non fidarti di una faccia così?

Fin dai primi minuti si capisce che Jardin, al pari di Fargeat, ci tiene a fare del suo film una lezione di stile. Laddove però Fargeat si affida a una messinscena solida e stabile, almeno fino a quando non decide di sbroccare diabolicamente, Jardin applica il pericoloso metodo del “guarda mamma senza mani” che Foster Wallace ha magnificamente delineato (pur non riuscendo a tenersene lontano), ovvero la tendenza a mettersi in mostra facendo vedere quante cose si sanno fare: fermo immagine, telecamera rotante attorno ai personaggi, utilizzo artistico dei colori, didascalie, cani e gatti che dormono insieme, tutto mischiato in una maniera che nel 99% dei casi porta alla noia. It’s what’s inside ha però al suo arco una freccia che lo fa ricadere in quel misero e meritevole 1%, cioè un’ottima sceneggiatura, scritta anche in questo caso dal regista stesso e arzigogolata abbastanza da giustificarne i vezzi stilistici. Gran parte del fascino della pellicola è data proprio dalla trama, dalla curiosità di vedere come reagiranno l* presenti all’esperienza sulle prime scioccante di trovarsi nei panni di qualcun* altr*. Quale sarà il loro primo pensiero?

SCOPARE!

Scusate ma non sono riuscito a trattenermi dal mettere un Maccio Capatonda d’annata, anche perché in fondo è proprio l’attrazione fisica il motore degli eventi. Il promesso sposo Reuben (Devon Terrel) è attratto dalla spirituale Maya (Nina Bloomgarden) la coppia composta da Shelby (Brittany O’Grady) e Cyrus (James Morosini) ha grossi problemi relazionali acuiti dalla fascinazione di quest’ultimo per l’ex compagna e ora influencer di successo Nikki (Alycia Debnam-Carey), le smanie giovanili del figlio di papà Dennis (Gavin Leatherwood) per Beatrice (Madison Davenport), la sorella di Forbes, hanno portato a incomprensioni che si riverberano nel presente e anche Brooke (Reina Hardesty), più interessata allo sballo che al sesso, sembra mutare d’opinioni una volta che la propria mente si ritrova in un corpo diverso. O forse è la propria anima? In questa situazione esplosiva la valigetta che contiene il misterioso macchinario di Forbes fa da detonatore, ma i veri problemi devono ancora arrivare e spoilerarli significherebbe togliere gran parte del piacere della visione.

“Ma va, starà esagerando!”

C’è poco horror in It’s what’s inside, ma i “body” rivestono un ruolo fondamentale. Il cast, composto completamente da sconosciut* (almeno a me) di belle speranze, riesce in maniera perlopiù credibile a restituire il diverso modo di abitare un corpo da parte di una diversa persona, un elemento fondamentale per sorreggere la sceneggiatura di Jardin che, efficaci e spesso giustificati trucchi registici a parte, vince la propria scommessa proprio grazie all* attor*. Il film non ha la carica sovversiva e divisiva di The substance, ma è un congegno ad orologeria ben interpretato, ben diretto, ottimamente scritto (alcuni spunti non approfonditi, tipo l’utilizzo della parola con la N da parte di chi si potrebbe trovare nel corpo di Reuben, fanno ragionare anche una volta finita la visione) e capace nel finale di spiazzare anche senza bisogno di alzare il volume oltre scala: bravo Jardin, speriamo che la prossima volta non cerchino di segarti le gambe in sede di promozione.

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