Racconto in musica 96: Eredità (Deap Vally – Billions)

Negli ultimi otto giorni ho visto tre concerti. Non è che dopo la fase più dura della pandemia possiamo dire “oh che bello, il mondo sta tornando come prima”, innanzitutto perché A) forse in un po’ ci siamo accorti che il mondo di prima non era esattamente il paradiso e poi perché B) ci sono tanti altri cazzi amari al mondo di cui io (sostituite con noi se vi riconoscete nella descrizione) subisco solo conseguenze riflesse, però autoflagellarci col cilicio ha ben poca utilità per le sofferenze del mondo e quindi pigliamoci le nostre piccole (grandi) gioie e cerchiamo di non voltarci dall’altra parte di fronte alle storture che ci troviamo di fronte (fine parentesi “dotto che dall’alto di niente spiega come bisognerebbe vivere”, scusate).

Tanti concerti in poco tempo, ma quanto mi mancava? Ricordo un’estate in particolare, quella del 2017, che è stata pessima per alcuni motivi ma ottima dal punto di vista musicale: un sacco di Festival, vicino a casa, in altre regioni, persino all’estero. Due di questi, il Mad Cool di Madrid e il già più volte citato A Night Like This di Chiaverano, sono stati per diverse ragioni fra le esperienze migliori: tre giorni con cinque palchi e gruppi del calibro di Foo Fighters, Green Day, Rancid, Dinosaur Jr., Royksopp (che però mi son perso) da una parte, un delirio di musica che iniziava al pomeriggio e finiva a notte fonda; due giorni e mezzo in campeggio vicino a un lago (dove a orario pranzo si svolgevano piccoli concerti acustici) con annessa (a poca distanza, navette gratuite) area feste con tre palchi e gruppi nazionali e internazionali ad alternarsi (Of Montreal, C+C=Maxigross e Julie’s Haircut fra i più famosi, con una costellazione di gruppi minori validissimi fra cui ricordo con piacere John Canoe, Campos e Shijo-X) dall’altra. C’è stato un filo conduttore che ha unito le due esperienze (no, non le canne e la birra), una band che a Madrid era fra gli eventi minori mentre a Chiaverano era headliner nella serata del venerdì: quella band è ovviamente il motivo per cui ho fatto tutto questo lunghissimo sproloquio e sono le Deap Vally.

La carriera in comune delle losangeline Lindsey Troy (chitarra e voce) e Julie Edwards (batteria) inizia in maniera non esattamente in linea con ciò che qui siamo abituati a chiamare “indipendente”. Dopo un primo singolo, Gonna make my own money, pubblicato per l’etichetta londinese Ark Recordings a luglio 2012, solo un anno dopo aver unito le forze, Troy e Edwards fanno il grande salto verso una major (la Island) ad appena un mese di distanza, con l’etichetta del gruppo Universal convinta dalle infuocate esibizioni a festival inglesi come il Latitude e quello storico di Reading. E ce n’è di che rimanere impressionati: distorsioni grosse da stoner e ritmo veloce e incazzato, testi centratissimi e corrosivi che in poche parole esprimono con una punta di sarcasmo il proprio pensiero sulla condizione femminile (e già il primo singolo è indicativo da questo punto di vista: “Daddy, don’t you understand?/ I’m gonna make my own money/ I’m gonna buy my own land”), sull’odio dilagante e sulla società in genere, un’energia che dal vivo si esprime senza freni e che le porta in pochissimo tempo ad aprire concerti per Muse, Red Hot Chili Peppers e Marylin Manson. Il primo disco, Sistrionix, esce nel 2013, poi qualcosa con la Island si rompe e il secondo album, Femejism (prodotto da Nick Zinner delle Yeah Yeah Yeahs’), esce per l’etichetta indipendente Nevado Music, senza per questo fermare la carriera lanciatissima del duo che infatti attira l’attenzione di uno di quei gruppi che magari non riempiono gli stadi, ma che hanno fatto di sicuro la storia a modo loro: i Flaming Lips.

Deap Lips è il nome del progetto in cui Troy ed Edwards si associano a Wayne Coyne e Steven Drozd della band di Oklahoma City, una collaborazione nata con semplicità disarmante: Coyne vede le Deap Vally dal vivo, rimane impressionato, dà il proprio numero a Troy dopo il concerto e alla fine ci si ritrova tutti a jammare. Deap lips (l’album) esce a maggio 2020 per l’etichetta londinese Cooking Vinyl, frutto di varie sessioni di registrazioni in Oklahoma, poi le due band tornano ai propri progetti personali e le Deap Vally non rimangono certo con le mani in mano. Nel 2021 escono ben due Ep (Digital dream a febbraio, American cockroach a giugno) in cui il duo collabora con svariat* artist* (ad esempio KT Tunstall, Jennie Vee degli Eagles of Death Metal e Jenny Lee Lindberg delle Warpaint ), poi non contente a novembre esce (sempre per la Cooking Vinyl) anche il nuovo disco Marriage, in cui confluiscono alcuni brani degli Ep e svariate nuove composizioni dove continuano a mostrare uno sguardo critico ed essenziale a ciò che succede attorno a loro, come il sistema di abusi sessuali organizzato da Harvey Weinstein nella canzone Better run.

Billions arriva proprio dall’ultimo disco e guarda al mondo dell’1%, quella piccolissima fetta di popolazione che ha tutto, lo ostenta e viene guardata da troppa gente con spirito di emulazione più che con ansia di giustizia sociale. Partendo dal testo, dalla carica della canzone e da un paio di fatti carpiti qua e là (tipo che per comprare una Ferrari rossa non bastano i soldi ma serve anche essere un cliente “premium” e averne già un tot in garage, o che la De Agostini a Novara ha chiuso le proprie officine grafiche grazie a una malagestione che ha portato in pochi anni dai premi produzione per il centenario al fallimento della sezione stampa) mi sono immaginato qualche dettaglio della vita di un rampollo di famiglia altolocata, costretto a confrontarsi con l’eredità del padre e coi suoi problemi. E che problemi. Trovate il racconto subito dopo la canzone che lo ha ispirato, buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Eredità

Riceve la chiamata a una festa in barca. Uno yatch al largo della costa, alcool, droga, belle donne e, all’improvviso, la notizia della morte del padre. La prima reazione: se l’è meritata. Sorriso scintillante, un altro sorso, il sole caldo sulla pelle. Poi arriva il senso di colpa, una sensazione di vuoto. La banale consapevolezza di non poter più dire al genitore tutto ciò che avrebbe voluto dirgli.

Piange, chiama il suo psicoterapeuta dall’altra parte del mondo. Fai qualcosa che ti piace, suggerisce l’esperto. Lui prende un elicottero, atterra alla concessionaria della Famosa Marca™ di macchine sportive. La vuole rossa, fiammante. Gliela negano. Scopre con indignazione che non bastano i soldi per quel colore, serve lo status. Esce al volante di un modello nero, cerca di lasciarsi alle spalle la delusione lungo le corsie di una strada che non conosce.

All’apertura del testamento, fasciato da un costoso completo d’alta sartoria, scopre di cosa è diventato erede. Proprietà, aziende, una montagna di soldi. Firma con stile impeccabile, ora è uno che conta, a dispetto di ciò che pensava il padre di lui. Piange ancora un po’, nel bagno dello studio notarile situato in un palazzo del centro.

Oggi inizia una nuova fase della sua vita.

Torna alla concessionaria della Famosa Marca™, chiede un modello verde acido, gliene concedono uno verde menta. Al volante, innestando la sesta, sente di essere salito di un gradino nella scala sociale.

Le riunioni aziendali sono noiose, annuisce senza capire niente. Delega il più possibile, prende decisioni solo sul colosso editoriale. La prima azienda del padre, quella da cui è stato sempre tenuto lontano. Ascolta il resoconto annuale, discute di tagli e ricollocazioni, approva l’assunzione di un nuovo amministratore delegato. Uno capace, lo dimostra il compenso che chiede. Esce dall’ufficio soddisfatto, il buon nome della famiglia difeso.

Questa volta la concessionaria della Famosa Marca™ gli suggerisce un modello giallo, lui si lascia blandire. Quando entra al Golf Club, dove tutti parlano di nuovi mercati e pacchetti azionari, gli sguardi si appoggiano su di lui con una delicatezza nuova. Diciotto buche e poi sfreccia via, verso il successo.

Non ha funzionato. L’amministratore delegato presenta il conto, spiega come ha salvato il salvabile. Le officine grafiche chiuse, la fase di stampa esternalizzata, un grosso risparmio e i mercati che reagiscono positivamente al riassestamento: un marchio storico che resiste alla sfida del digitale. Solo i vecchi dipendenti, gli esuberi, non la prendono bene. Fanno picchetti davanti ai cancelli, innalzano cartelli denigratori col suo nome.

Cosa avrebbe dovuto fare? Certa gente dal basso non ha idea delle responsabilità che un capitano d’azienda è costretto a sobbarcarsi. A bordo della sua nuova auto sportiva della Famosa Marca™, rossa, fiammante, li guarda scomparire alle sue spalle dallo specchietto retrovisore, proiettato verso un mare di opportunità che solo l’1% sa cogliere.

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Il supermercato come incubo neoliberale: Manodopera di Diamela Eltit

Ognuno di noi ha i suoi problemi col lavoro. Possono essere rapporti complicati coi colleghi, coi principali, anche semplicemente la consapevolezza che non facciamo quello che ci piacerebbe o che non riteniamo più sostenibili per il nostro equilibrio psichico certe condizioni (una consapevolezza resa più evidente dal boom di dimissioni volontarie post-Covid, che in Italia si concentra perlopiù fra i giovani impiegati del nord). Ci sono però contesti in cui l’oppressione di ciò che facciamo per vivere è più pervasiva e, fatto salvo il discorso per cui si vive meglio in una fabbrica italiana piuttosto che in una miniera d’argento in Bolivia, anche nel ricco occidente problematiche come precariato, sfruttamento, disparità di genere e chi più ne ha più ne metta rendono l’esperienza del lavoro un girone infernale che complica la vita anche al di fuori delle otto (per i più “fortunati”) ore.

Mi è capitato di leggere, fra fine marzo e inizio aprile, due libri che analizzano bene questo senso di straniamento: uno di questi è Manodopera, romanzo del 2002 dell’autrice cilena Diamela Eltit tradotto in Italia nel 2020 da Alessandro Polidoro Editore.

Manodopera è un libro bizzarro e allucinante, diviso in due parti ben distinte ma immerse nella stessa realtà, quella di un supermercato visto dalla prospettiva di chi ci lavora. La prima metà del romanzo è la descrizione delle giornate lavorative illustrata in prima persona da un dipendente senza nome, compresso fra la paura di essere preso di mira dai supervisori, il rapporto di odio/amore/dipendenza coi clienti e la fascinazione per i prodotti, vera e propria anima pulsante del luogo.

Non cerco né, tantomeno, ho la presunzione di sopravvalutare le mie capacità, sarei inopportuno, arrogante e meschino. Mi azzardo però ad affermare che questo cliente che mi ronza intorno (come una cagna impazzita) sia disposto a tutto pur di lasciare il supermercato in modo illegale e restando impunito. Perché la sua aspirazione è quella di uscire dal supermercato senza pagare i prodotti (alle spalle della mia complicità) e dedicarsi poi – con gioiosa e scomposta frenesia – a godere delle merci. Un godimento che riesco a comprendere bene perché sono parte di quello stesso desiderio, della sua esigenza di espormi alla telecamera, per poi, in una vendetta radicale, moltiplicare l’estasi, in parte universale, del prodotto.

Nella visione del dipendente il supermercato appare sotto una luce quasi orrorifica, attraverso la sua viva voce facciamo esperienza della sofferenza fisica e psichica e della continua alternanza fra i sentimenti di devozione e disprezzo per la realtà a cui sembra essersi votato anima e corpo, tanto che della sua vita al di fuori delle porte scorrevoli non riceviamo nessuna notizia. Fra sfoggi di perfezionismo e autorità, ammissioni di debolezza, derive messianiche e sprofondamenti alcolici vediamo sempre più cedere la sua professionalità, compromessa dal sentirsi costantemente giudicato per le sue azioni e da condizioni di lavoro impossibili da sopportare a lungo termine. Ognuno degli otto capitoli reca come titolo una citazione delle principali voci della stampa cilena che hanno accompagnato le rivendicazioni dei lavoratori (come spiegato nell’interessante postfazione della traduttrice Laura Scarabelli), quasi a dimostrare a cosa siamo giunti nonostante le lotte del passato.

La mia salute, in uno spazio ancorato a una realtà inafferrabile ma contundente, è diventata pietosa, turbata dall’incremento ciclico delle merci. Sì, sono stato sconfitto da un grandioso attacco di debolezza che, come ho già detto, corrisponde a una malattia lavorativa, un male strettamente tecnico provocato da un eccesso (inutile, come vedete, totalmente inutile) di concentrazione mescolato alla mia ansia di perfezione.

La seconda parte, più corposa, si concentra invece su un gruppo di dipendenti, costrett* a una convivenza forzata in un appartamento a causa della retribuzione insufficiente. Fra problemi personali, litigi e riappacificazioni, il tessuto sociale del gruppo è soggetto a continui strappi dovuti al modo in cui ognuno di loro contribuisce all’economia domestica, al sostentamento finanziario e, soprattutto, al modo in cui si spende per mantenere il posto di lavoro, con l’incubo del licenziamento sempre dietro l’angolo. Man mano che la vicenda procede, senza una vera e propria trama ma più con l’affastellarsi di singoli momenti di crisi, le politiche aziendali aumentano la loro disumanità, cambiando ciclicamente il personale, riducendo gli stipendi con la scusa dell’orario di lavoro ridotto e variando mansioni senza una logica apparente.

Fu Gloria a prendere l’iniziativa. Non ci consultò nemmeno. Si vestì con cura. Indossò la sua minigonna elasticizzata, calze di cotone, il foulard semitrasparente al collo, i larghi orecchini a forma di cerchio, gli stivali, il gilè di lana. Si truccò le labbra di un rosso piuttosto acceso. Si mise il profumo dietro alle orecchie. Stava molto bene. Era quasi bella. Andò al supermercato e raccontò tutto al supervisore. Il supervisore era uno di quei capi che amavano rinchiudersi nel loro ufficio con il culo di Isabel. Gloria gli disse che Alberto voleva formare un sindacato. Il supervisore non la conosceva bene. La ascoltò con un’espressione spaventata sul volto. Se fosse saltata fuori la storia del sindacato era la prima testa che avrebbero fatto saltare. Quella stessa mattina, licenziarono Alberto. Senza compilare alcun documento perché la lettera di licenziamento dovevamo sottoscriverla all’assunzione. Firmavamo i fogli ogni trenta giorni. Sì. Ogni trenta giorni dovevamo apporre una firma. Dopo quello che era successo, Alberto aveva ormai le ore contate in casa. Noi non accoglievamo i disoccupati. Né i malati.

Se la prima parte del libro mostra l’incubo delle giornate passate all’interno del supermercato, la seconda evidenzia l’impatto che le condizioni lavorative hanno sui rapporti interpersonali. Gloria, Isabel, Enrique, Gabriel, Sonia, Andrés e Pedro (più la voce narrante, senza nome ma non direttamente associabile al dipendente anonimo della prima parte) convivono in un equilibrio precario dove ogni gesto può causare la cacciata di casa, ogni libertà è un affronto, le malelingue si sfogano alle spalle degli altri e solo tiepidi scampoli di umanità permettono al gruppo di resistere, stretto intorno alla missione di rimanere ancorati al proprio posto di lavoro.

Isabel era più brutta, si muoveva penosamente tra i pianti del bambino. Si lasciava andare Isabel. Sempre spettinata, vestita con una vestaglia dozzinale, senza i suoi orecchini, senza i suoi bracciali, con le occhiaie e dei peli orribili sotto le ascelle. Non capiva che se non metteva in fretta qualche chilo, se non ritornava a sorridere, se non si lavava, se non indossava quelle sue calze così belle che ci piacevano tanto, se non si truccava quella faccia di merda, sarebbe andato tutto a puttane, come le fece notare Enrique, con elegante serenità.

La prosa di Eltit è contraddistinta da frasi brevi e un uso costante di ripetizioni, un linguaggio che rende bene l’alienazione costante a cui sono soggetti i protagonisti. Soprattutto nella prima parte, quella più sperimentale, l’autrice porta all’eccesso le dinamiche visibili in un supermercato qualsiasi, trasformando bambin* in orde barbariche, anzian* in esseri che si trascinano penosamente fra gli scaffali, il periodo natalizio nell’occasione per un’illuminazione consumistica vagamente blasfema e le compere per il cenone di fine anno un martirio che dura un numero crescente di ore. Spesso Eltit incunea alcune parole o frasi all’interno di parentesi, forse pensieri abortiti, forse l’ennesimo segnale della schizofrenia del dipendente anonimo.

Gentile, avvolto nella mia abituale cortesia, devio (non ne posso più) verso il bagno e sento il getto. Piscio come un forsennato, sono 14 o 16 ore che la tengo. Corro il rischio. Lo so. Ma rispetterò l’accordo delle 24 ore.

24 ore. 24.

24 ore senza straordinari.

In un impulsivo atto di sincerità, dovrei confessare (ma a chi?) che ormai nulla riesce ad abbattermi. Sono forte, ben curato, gentile, sicuro di me, attento a ogni dettaglio, affidabile. Il supermercato è come una seconda casa. Gironzolo al suo interno, proprio così, come se si trattasse di casa mia. Mi rifugio nell’assoluto agio che ti regalano i luoghi familiari. Tuttavia non è la prima ma decisamente la seconda casa e mi perdo. Vacillo immerso nell’angoscia che mi provoca questa crescente instabilità.

Manodopera non è un libro semplice e non è un libro che offre risposte. Stimola piuttosto, attraverso una consapevole esagerazione, a porci domande su come evitare che realtà come questa diventino la norma, su come rapportarci agli altri in maniera altra rispetto a quella utilitaristica: vivere senza ferire nessuno è impossibile, soprattutto in un mondo dove anche l’acquisto di un prodotto può significare la sofferenza di qualcuno, ma girarsi dall’altra parte è una tattica che a lungo termine può solo rivoltarsi contro di noi.

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Racconto in musica 95: Quanto tempo puoi resistere prima di incazzarti (Cigarettes After Sex – Nothing’s gonna hurt you baby)

Che ci crediate o meno non ho una mezza idea su cosa dire in questo cappello introduttivo. Doveva capitare prima o poi, cioè sono quasi a cento racconti e ieri mi sono visto dal vivo insieme due band su cui ho pubblicato racconti qua, mi sa che il mio cervello comincia a perdere colpi e presto parlerò di tutt’altro facendo domande che non c’entrano niente, tipo Qualcun* di voi ha mai fumato dopo il sesso? Si fa davvero o è un’usanza che si è inventato il cinema per farci consumare sigarette in un periodo storico in cui era ancora possibile farlo? E il periodo storico in cui era possibile farlo coincideva oppure no con il periodo in cui al cinema non potevi permetterti di far vedere due persone a letto insieme?

Ecco era meglio se mi trovavo un tema, io poi manco fumo per cui che domande mi faccio? Il tutto comunque (lo avrete capito dal titolo, che io faccio sempre finta che voi non abbiate già visto ma è lì, bello grosso, e sicuramente è la prima cosa che leggete) serve a introdurre un racconto in cui c’entrano (rullo di tamburi) i Cigarettes After Sex, di cui sono debitore alle sapienti mani (e alla sapiente mente) di Alex Roggero.

Alex è uno di quegli esempi di scrittore-musicista che da queste parti accogliamo sempre come la manna dal cielo. Milanese doc classe 1987, diplomato in basso elettrico presso il CPM di Franco Mussida (PFM), Alex ha suonato (e in molti casi fondato) in svariate band dell’underground milanese come Stone Revolution, Solarya, Maela, La Sete e L’Etiope, oltre a spendersi come turnista per gente del calibro di Alberto Fortis, Movida, Rezophonic, Bernardo Lanzetti e pure (in questo caso non lo invidio) i Gemelli Diversi. Più di duecento concerti live per lui, che non contento si è pure buttato sulla scrittura sulla scia di autori come Chuck Palahniuk, Irvine Welsh e Charles Bukowski: il suo stile crudo e graffiante, oltre che in racconti sparsi per il web (il cui reperimento è reso difficile da un omonimo che scrive letteratura di viaggio, scherzi del caso), lo potrete presto gustare nel suo romanzo d’esordio Non farlo, in uscita a giugno per Ortica Editrice.

Carriera bizzarra quella dei Cigarettes After Sex, nati nel 2008 da un’idea del cantante e chitarrista Greg Gonzalez a El Paso, città natale di un’altra band un tantino influente nel panorama musicale mondiale, gli At The Drive-In. Gonzalez però nulla ha a che spartire con le atmosfere nervose e infuocate di Omar Rodriguez-Lopez e soci, lui ha in mente più una musica dalle atmosfere sensuali e vagamente oniriche: nasce così, registrato all’interno dell’Università del Texas, il primo Ep intitolato semplicemente I, in una forma ancora grezza ma che pone le basi per il futuro del progetto.

Trasferitosi a Brooklyn, Gonzalez unisce le forze con Philip Tubbs (tastiere), Randall Miller (basso) e Jacob Tomsky (batteria), continuando a fare le cose con caparbietà ma senza particolare fretta. L’Ep I esce in forma definitiva nel 2012, il gruppo comincia a crearsi un seguito anche grazie a YouTube e nel 2015, quando esce il singolo Affection, i tempi sono maturi per il successo internazionale. Messi sotto contratto dalla Partisan Records, i Cigarettes After Sex arrivano alla pubblicazione del loro primo album omonimo nel 2017, a otto anni di distanza dalla formazione, dimostrando una coesione d’intenti che ha una piccola incrinatura solo nella fuoriuscita dalla band di Tubbs, deciso a produrre musica propria. Il nuovo disco ci mette poco ad arrivare, a dispetto dell’attesa per il primo, e così nel 2019 fa la sua comparsa Cry, secondo capitolo di una storia musicale densa di soddisfazioni (Nothing’s gonna hurt you baby, prima canzone del primo Ep, è stata negli anni utilizzata in serie come The Handmaid’s Tale e Shameless) e improntata a un indie dream pop che trova nella voce androgina di Gonzalez la perfetta forma comunicativa. Solo il loro nome appare in qualche maniera fuorviante: più che da sigaretta post-sesso, quella che io non ho mai fumato, i Cigarettes After Sex appaiono più come la band perfetta per creare l’atmosfera, magari con la persona con cui vorresti davvero passare il resto della tua vita e non con un* qualsiasi, perché quella lieve malinconia creata da delay e riverberi lascia la sensazione di un dopo che non si esaurisce in una notte sola.

Nothing’s gonna hurt you baby risuona anche nella macchina del protagonista del racconto di Alex, ma l’atmosfera è completamente diversa da quella della band di Gonzalez. La sensualità dei Cigarettes After Sex rimane un miraggio verso cui tendere mentre, persi in un flusso di coscienza, osserviamo dall’interno della mente di un uomo gli atti finali di una delle peggiori giornate della sua vita, chiedendoci con lui quanto tempo si può resistere prima di incazzarsi: un modo sicuramente originale di sfruttare l’ispirazione musicale, ribaltandone il mood. Potete leggere il racconto subito dopo il brano, magari sovrapponendoli: io nel frattempo vi auguro al solito buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Quanto tempo puoi resistere prima di incazzarti, di Alex Roggero

Mi piacerebbe essere una di quelle persone che, quando sono in difficoltà, se ne escono urlando la frase “lei non sa chi sono io”, ma nemmeno io, in questo momento, saprei rispondermi. Chi sono io? Che poi, le persone che si trovano in questa situazione solitamente come reagiscono? Qualcuno ha mai veramente risposto qualcosa tipo “Be’, per me lei è un manager di mezza età, grassoccio, praticamente calvo, con una moglie insoddisfatta, due figli che la odiano e un certo numero di ragazzine compiacenti che la sfruttano per comprare droghe e abiti costosi”? No, le persone preferiscono sorvolare, stare in silenzio fino a quando la sceneggiata giunge al termine.

Quanti minuti di insulti si possono sopportare prima di esplodere?

Penso dipenda molto da quanto si è giovani e ricchi. Più si è giovani, meno minuti si riescono a sopportare, e lo stesso vale per la quantità di soldi a disposizione. Se sei un quarantasettenne squattrinato e il tuo capo ti sta insultando senza motivo, solo perché sua moglie lo ha tradito, be’, immagino che il tempo di sopportazione possa superare le otto ore. Quattrocentottanta minuti zitti a prendersi insulti. Se invece nella stessa situazione si trovasse un ventiduenne ricco, ma ricco davvero, be’, i minuti sarebbero forse due. Al massimo.

Cosa voglio dire con tutto questo discorso? Non lo so, forse che invidio la gente ricca e giovane. O forse che mi sta sul cazzo chi sta zitto, chi subisce e basta, per tutta la vita. Tipo me. Se nessuno stesse zitto oggi vivremmo in una società migliore. Tutti vogliono cambiare il mondo, ma quale rivoluzione è iniziata stando in silenzio? Qual è l’ultima volta in cui ho fatto qualcosa di utile per cambiare le cose? Ancora, chi sono io?

E lei, a cosa starà pensando ora?

Avrei dovuto reagire. Cazzo se avrei dovuto. Ci hanno trattato come due straccioni, starà pensando che sono uno sfigato. Da quanto tempo sto guidando in silenzio? Ho paura di girarmi, di guardarla. Se stesse dormendo sarebbe ok, ma se fosse sveglia mi chiederebbe sicuramente perché la sto fissando. E a quel punto cosa dovrei rispondere?

Metto su una canzone. “Cigarettes After Sex – Nothing’s gonna hurt you baby”. Perché non ho detto niente quando ci hanno cacciato dal locale? Dovrei tornare indietro, sembrerei totalmente pazzo ma forse si innamorerebbe di me. Perché penso così tanto? Faccio finta di mettere a posto lo specchietto retrovisore, non faccio in tempo a voltarmi che incrocio il suo sguardo. Non dice niente.

Cazzo che situazione di merda. Cosa dovrei dire io ora? Rimango in silenzio. Quando arriviamo sotto casa sua scende in fretta dalla macchina, non mi saluta nemmeno.

Oggi è davvero una giornata storta. Questa mattina sono stato licenziato, ho speso gli ultimi cento euro per la cena. Cosa farò domattina? Di sicuro questa è l’ultima volta in cui sono stato zitto. No, non è vero, continuerò a farlo per sempre. Sono davvero questo?

Quanto tempo riuscirò a resistere prima di incazzarmi la prossima volta?

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Chiamare le cose col nome giusto: alla scoperta del Black Pop dei Push Button Gently

C’è chi sa dare i titoli alle proprie opere e chi no: io sono fra i secondi. Quando devo dare il nome a un mio racconto non ho la liricità di un Houellebecq, che piazza con nonchalance titoli come Estensione del dominio della lotta o La possibilità di un’isola (ho partecipato di recente a un aperitivo letterario in cui si è parlato dell’ultimo libro dello scrittore francese, il che mi ha influenzato anche se il nuovo tomo si chiama semplicemente Annientare), e non ho neppure una formula semplice ma efficace come Carver, che prendeva una frase all’interno del racconto ed era qualcosa di comunque azzeccato tipo Di cosa parliamo quando parliamo d’amore o, per citarne uno meno abusato, Loro non sono tuo marito. Io no, io vado sull’inutilmente logorroico o su qualcosa che vorrebbe essere d’effetto e probabilmente sembra inutilmente enfatico ma chissà, forse la storia mi darà ragione.

Intanto la storia dà ragione ai Push Button Gently (Giulio Speziali voce e chitarra, Timothy Van Der Gen alla batteria, Gabriele Fazzini al basso, Natale De Leo al synth e Nicolò Bordoli alla chitarra), che con il loro primo album in italiano riescono ad azzeccare in pieno il titolo nonostante non sia né propriamente pop né ascrivibile a qualunque corrente della musica black.

Di pop il disco ha la capacità dei brani di entrare velocemente in testa, sia quando sono i synth a prendersi la scena che quando esce l’anima rock di una band che in quindici anni di attività ha consolidato la capacità di fare musica fuori dagli schemi consueti. Perché è facile far battere il piedino con motivetti che si adattano sul classico “verse-chorus-verse”, per citare l’autoironico titolo di una b-side dei Nirvana, lo è molto meno farlo con l’ansiogeno battito elettronico di Cannone o con le suggestioni spaziali dell’iniziale Satellite, che a metà strada in una delle varie digressioni mostra un magma sonoro oscuro e vagamente noise.

L’oscurità, eccola l’altra anima del disco, quella preminente in realtà. Il “black” di Black pop è soprattutto nelle parole di Speziali, voce eclettica della band che negli undici brani del disco esplora il concetto di identità, proponendolo quasi come una contrapposizione di buio (la parte falsa e “istituzionale” di sé, plasmata sulle aspettative degli altri) e luce (lo svelamento, non per forza ben accolto). Ecco così che quando “esplode il giorno/ non riesci più a dire chi sei” (Io ti inganno), i tempi bui, bizzarra fonte di quiete evocata in Ripeti, ripeti, vengono sorpresi dal giorno: la crisi dell’io arriva al punto che “nudo e sincero non sembri più vero”, come suggerisce la parabola cantautorale di Attore, tanto che l’iniziale Satellite sembra quasi un’idilliaca fuga verso un’altra oscurità, quella dell’universo sconosciuto, ancora più emblematica se contrapposta alla Terra della sepoltura con cui si conclude il disco.

Sul fronte sonoro i Push Button Gently spaziano dovunque con maestria, fra il rock catchy di Ulisse e i saliscendi ritmici di Ripeti, ripeti, caratterizzata da un maelstrom centrale in cui si sommano inquietudini ad ogni strumento che entra in gioco, passando per la cantautorale Attore e l’alternative rock di Io ti inganno, un brano che per energia e e cupa sensualità ricorda un po’ i Marlene Kuntz. L’abilità della band è esplicitata dal modo in cui ogni strumento si mette al servizio delle composizioni, facendo un passo indietro quando serve e lasciando ad altri il centro della scena, una caratteristica che rende Black pop un disco omogeneo nella sua disomogeneità, superiore nel complesso alla somma dei singoli brani, perché gli album migliori non sono quelli che cercano di apparire coesi ma quelli che ci riescono rischiando di apparire strambi, tipo mettendo dei coretti da simil-cheerleader nei ritornelli strumentali di Una follia.

Per Black pop vale un discorso simile a quello fatto per l’ultimo album dei Kick: quando c’è personalità anche le cose che convincono meno (l’eccessiva limpidezza sonora di Irriconoscibile, le tracce di passaggio Sicomoro e Tillandsia) vengono elevate, e i Push Button Gently dimostrano di averne tanta. Sono curioso di vedere la resa di questi brani dal vivo: me li sono persi il 26 marzo al Tambourine di Seregno, ma spero di poter recuperare presto.

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Racconto in musica 94: Parole fluide (Ottone Pesante – Tentacles)

L’ho già detto che ho un debole per i fiati? Non so esattamente com’è nata questa passione, ma c’è sicuramente stato un momento della mia vita in cui avrei messo volentieri un sax (o in alternativa tromba, trombone…) in qualunque brano musicale, convinto che il risultato sarebbe stato buono e giusto come diceva qualcuno. Sarà che per un bel po’ di anni ho ascoltato ska (e quanto ci son rimasto male quando, la prima volta che ho visto gli Ska-P dal vivo, ho scoperto che era il tastierista a fare le veci dei fiati), sarà che magari da piccolo c’ero rimasto sotto con Baker Street, ma ancora oggi quando sento la sezione fiati degli Hoobastank (eh sì, facevano anche bella musica mica solo The reason) penso “vedi, stanno da dio anche sul crossover”, figurati quando mi mettono il sassofono nello stoner psichedelico come fanno i Sabbia. Quando ho scoperto che qualcuno faceva metal con tromba e trombone ammetto di aver nicchiato un pochettino, poi ho visto gli Ottone Pesante dal vivo e ho avuto l’ennesima riprova: mettete dei fiati nei vostri cannoni, e il mondo sarà un luogo migliore.

Tromba, trombone e batteria, questo basta agli Ottone Pesante per fare quello che dalle mie parti si definisce (con intenzioni meno positive delle mie) un “ciadel d’lostia”: Francesco Bucci (trombone), Paolo Raineri (tromba) e Beppe Mondini (batteria) in un periodo in cui si sente spesso dire che non ci si può più inventare niente in musica, hanno alzato dall’Emilia per primi il vessillo del brass metal, mettendo ritmo indiavolato, headbanging e un pizzico d’atmosfera tzigana al servizio dio metallo. Si formano nel 2015 da un’idea di Bucci e Raineri, musicisti laureati in conservatorio desiderosi di dare nuovo lustro ai loro strumenti coniugando al contempo il loro amore per la musica estrema: il primo Ep, omonimo e autoprodotto sotto il logo della B.R.ASS, esce nel novembre dello stesso anno con Simone Cavina alle pelli, poi già l’anno seguente arriva anche il primo disco con la formazione ufficiale (prendetela con le pinze ma l’incontro con Mondini, mi pare di ricordare dalla loro viva voce dopo un concerto al Big Lebowski di Novara, è avvenuto durante le registrazioni di un album di Nada), Brassphemy set in stone, dove in mezzo a una sventagliata di nuove mitragliate sonore si permettono di inserire anche un brano che sa di polvere del vecchio west, Trombstone.

Come in un continuo aggancio a quanto fatto in precedenza gli Ottone Pesante pescano i titoli dei dischi dall’ultimo brano dell’album precedente: ecco così che nel 2018 è la volta di Apocalips, dieci nuovi brani a tema apocalittico (non mancano nemmeno le piaghe, evocate in Locust’s army) che si fregiano del contributo, in The fifth trumpet, di Travis Ryan, cantante della death metal band californiana Cattle Decapitation. Passano altri due anni, conditi da continui tour anche all’estero (dove, si sa, la sperimentazione ottiene sempre consensi più entusiastici), e arriva il momento di lasciare l’autoproduzione per affidarsi a un’etichetta dal respiro internazionale, la Aural Music di Imola: come ben sapete però arriva una pandemia, il disco si rimanda un po’ finché, a settembre 2020, esce DoomooD (fun fact: lo stesso titolo venne scelto per l’unico album degli Udus, side project di un altro sperimentatore ai fiati, Luca Mai degli ZU). Come da titolo è la componente più dilatata del metal a fornire l’ispirazione per il disco, oppressivo e cupo come non mai, ennesima derivazione di una band che continua a sperimentare e lo fa nella forma e nel concept (oltre al titolo è palindromo anche l’approccio alla composizione, come spiegano Bucci e Raineri in questa intervista). Il nuovo capitolo della loro carriera, l’Ep …and the Black Bells rang, è uscito solo da pochi giorni ed è pronto per essere suonato dovunque: l’Europa ha già avuto la sua fetta di brass metal, ora arriva il tour italiano che il 2 aprile farà tappa al Circolo Gagarin di Busto Arsizio, dove se volete farmi compagnia mi troverete davanti al palco a fare su e giù con la testa.

Tentacles è il terzo brano di DoomooD, una delle eccezioni in cui agli strumenti si accompagna la voce, in questo caso quella di Sara dei compagni di etichetta Messa. Sia il testo che l’andamento lento e progressivo della musica mi hanno ispirato un racconto dalle tinte cupe, il monito di un nonno morente al giovane nipote su un pericolo strisciante quanto i tentacoli evocati nel titolo del brano: se il ragazzino riuscirà a salvarsi o meno potrete scoprirlo solo leggendolo, non prima di aver ascoltato la canzone che trovate qui sotto, per quel che mi riguarda vi aspetto a Busto e vi auguro buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Parole fluide

Nonno mi dice, con quella sua voce secca che fa spavento, Stai attento figliolo, stai attento alle lusinghe del mostro. I suoi tentacoli, mi dice, Svuotano tutto ciò che hai dentro e lasciano solo segatura, come ai fantocci del teatrino che ti piace tanto.

Ti piacerebbe essere un fantoccio, un burattino?, mi chiede, e io faccio di no con la testa perché mi fa più paura del mostro che va descrivendo. I suoi occhi sono di fuoco, gli bruciano le orbite come la febbre che se lo consuma tutto.

Ci sta mangiando il futuro, dice il nonno, Questa creatura degli abissi che non si ferma di fronte a niente. Niente!, grida, e poi comincia a tossire, con quel rumore d’acciottolio nella gola che mi fa temere possa vomitarmi la terra addosso. S’è incancrenita dappertutto, continua, È fluita nella mente della gente succhiandogli i pensieri con le ventose.

Mi arpiona un braccio con una stretta che sembra fatta d’aria, sta tirando le ultime e non c’ha più forza neanche per raccomandarsi al Signore. Ce le ha solo per ammonirmi, spiegarmi ciò che dovrò fare se non voglio essere divorato. Quanto è morbido l’abbraccio di quei tentacoli!, mi sibila in un orecchio, Ma tu non devi fidarti. Il mostro prometterà ogni ricompensa, ma quel che vuole è il tuo tempo su questa terra, la tua carne per saziarsi, le tue ossa per disfarsi dello schifo fra le zanne.

Papà bussa piano alla porta, mette dentro la testa e mi fa un cenno, come a chiedermi se va tutto bene. Nonno esplode in una bestemmia e ricomincia a tossire, maledice con parole di sabbia la carne della sua carne che lo ha tradito. Papà ha un sorriso dolce mentre se ne va, vorrei andare da lui ma il mio braccio è ancora avvinghiato a quello del nonno che non molla, non ancora.

Mi devi fare una promessa, dice, Una promessa solenne. Mi avvicina a forza con le poche energie rimaste, la sua barba a questa distanza mi fa l’effetto degli aculei di un cactus: punge e mi ripugna, ma resisto alla voglia di scappare via.

Non accettare mai le lusinghe del mostro, mi intima il nonno, Ti s’insinuerà dentro appena accetterai e non ci sarà più una vita a cui tornare, solo la morte tua e del mondo, la putrefazione che sommergerà tutto come un’onda cavalcata dal mostro. Prometti!, mi urla nelle orecchie, ma non basta un cenno della testa a placarlo. Dillo!, urla, e lo ripete così tante volte che vorrei piangere, ma le mie lacrime ora per lui sarebbero solo veleno.

Quando s’accascia e mi lascia libero me ne vado senza guardarmi indietro.

Sei stato bravo, mi dice papà quando lo raggiungo. Ci vuole pazienza col nonno, lui non può capire. È troppo vecchio per accettare i cambiamenti.

Mi chiede di cosa abbiamo parlato e io racconto, parole che gorgogliano dalla mia bocca in una lingua fluida che chi appartiene al vecchio mondo non sa udire ma solo maledire.

Nonno, avrei voluto dirgli se avesse avuto orecchie per ascoltare, Il futuro è laggiù. Vieni con noi negli abissi, non stare a seccarti sotto il sole che muore.

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Sicuramente meglio di Batman & Robin: The Batman

Partiamo già col piede sbagliato: io in realtà Batman & Robin non l’ho visto, perché Joel Schumacher già aveva marcato male col film precedente (al netto di una carriera piena di filmoni, è proprio coi supereroi che non ce la faceva) e vederlo programmato in prima visione alla domenica pomeriggio su Italia Uno, cioè nella fascia in cui venivano infilati i film per famiglie scadenti, non è che mi abbia proprio fatto pensare “ah però, dev’essere un capolavoro”. Non ho visto neanche Batman Vs Superman e Justice League, gli ultimi film in cui il vendicatore mascherato di Gotham City si è mostrato, perché la delusione per aver sperato inutilmente, col primo, in una trasposizione de Il ritorno del cavaliere oscuro di Frank Miller è stata dura da digerire, ma per il resto l’alter ego notturno di Bruce Wayne me lo sono beccato in tutte le salse, pure in quella provvista di pancera degli anni 60.

“Ci sono giorni in cui non riesci proprio a liberarti di una bomba”

Al netto delle mancanze la notizia che c’era un nuovo Batman all’orizzonte l’ho accolta con curiosità, il fatto che lo avrebbe interpretato Robert Pattinson l’ha alimentata: poi, siccome ho la memoria di un pesce rosso e c’è pure stata una pandemia di mezzo, me ne sono dimenticato e all’improvviso ho scoperto che nei cinema c’era il Batman migliore di sempre. Di sempre? Addirittura? Sono anche io una vittima dell’hype, e nonostante delle voci contrarie (di cui pure mi fido molto) ho deciso di andare a tastare con mano se era davvero così.

Molto bella la fotografia

The Batman inizia bene, con una presentazione dell’uomo pipistrello perfetta nelle intenzioni: dalla sua viva voce lo sentiamo parlare del suo ruolo e del crimine che dilaga, mostrando come ha trasformato l’impossibilità di essere dappertutto nel timore (per i criminali) che possa essere ovunque, in ogni angolo buio. Poi però incontra una banda di teppisti che vuole sfogarsi su un innocente come “rito d’iniziazione” per un membro riluttante, e quando Batman si palesa quelli gli ridono dietro, secondo il classico stereotipo del Cattivo Strafottente Che Poi Ne Prenderà Un Sacco, ed infatti è così che va.

È un film dalle due anime quello di Matt Reeves, pieno di contrasti. Non tanto fra la ricerca di realismo in un mondo in cui viene accettato il fatto che un vendicatore mascherato (già di suo poco credibile) vada in giro con uno scomodissimo mantello, perché questo lo aveva già fatto Christopher Nolan nella sua trilogia: i contrasti in The Batman sono di coerenza e intenzione, disseminati lungo tutta la pellicola come una caccia al tesoro alternativa all’indagine che vede l’uomo pipistrello, coadiuvato dal fido tenente Jim Gordon (Jeffrey Wright), seguire le orme lasciate in bella vista dall’Enigmista di Paul Dano, mattatore nonostante lo si veda in volto solo per poche scene concentrate perlopiù nel finale.

Dal fotoromanzo di Batman e Catwoman

Da dove iniziare? Dai poliziotti che irridono Batman ma poi gli lasciano violare le scene del crimine senza troppi problemi? Dagli stessi poliziotti che, sempre su una scena del crimine, allertati da una colluttazione fra Batman e Catwoman (Zoe Kravitz) si limitano a illuminare un angolo a caso con la torcia invece di controllare tutto l’appartamento? Questi sono problemi minori rispetto alla love story forzata che unisce pipistrello e gatta, portata avanti perché così vuole il canone ma senza un briciolo di chimica che vada oltre il “tu sei un maschio alpha e quindi finirò per sbavarti dietro anche se sono una donna indipendente”, o al fatto che l’integerrimo difensore della città (Vendetta, per gli amici) non si faccia problemi, in nome di non si sa bene quale bisogno di informazioni, a voltare lo sguardo dall’altra parte mentre vede il Pinguino di un’irriconoscibile Colin Farrell (a metà fra Al Capone e Scarface, giusto per esplicitare i suoi legami con la mafia) svolgere traffici illeciti davanti a lui.

C’è troppa roba in questo The Batman. Troppi personaggi, una trama resa più complicata di quello che è e l’impressione costante che manchi approfondimento, nonostante le quasi tre ore di durata. L’emblema di tutta questa fretta di dire un sacco di cose senza prendersi il tempo di dirle bene è (minimo SPOILER) il momento in cui viene adombrata la possibilità che Thomas Wayne, il padre perfetto dalla cui morte è nata la vocazione a combattere il crimine di Bruce, fosse pure lui legato al sottobosco mafioso in cui sguazza Carmine Falcone (un John Turturro che, per essere a capo dell’impero criminale di Gotham, non intimorisce mai davvero): dieci minuti di film e la tesi è già smontata, resa molto più soft e digeribile, ammazzando in tempo zero un climax che, a quel punto, viene da chiedersi perché sia stato messo. È come se a Reeves fossero state legate le mani: riporta pure l’uomo pipistrello alla sua componente investigativa (effettivamente mai sfruttata al cinema), ma metti a lui e agli altri personaggi frasi fatte in bocca ogni due per tre; instilla il dubbio nello spettatore che la sua famiglia non sia integerrima come siamo abituati a credere, ma fai marcia indietro subito mica che i fan si lamentano; dai pure un background a Selina Kyle, ma sia mai che questo le dia uno spessore maggiore di “sono una ladra e sono qui per limonare con Batman”.

Non il mafioso di cui avevamo bisogno, ma forse quello che meritavamo

L’incoerenza permea persino le sequenze d’azione, spettacolari ma a volte controproducenti. Parlo della scena di inseguimento che vede Batman e *personaggio occultato per evitare spoiler* lanciarsi in mezzo al traffico cittadino in un profluvio di danni collaterali, roba che Hancock al confronto si meritava le chiavi della città: possiamo anche valutare le attenuanti riguardo a una errata valutazione del pericolo, perché il Batman di Pattinson è ancora lungi dall’essere l’eroe navigato che siamo abituati a vedere, ma il modo in cui l’uomo pipistrello reagisce a quel casino (praticamente un’alzata di spalle e via) stride con l’immagine dell’eroe che non vuole uccidere nessuno, esplicitata da scene in cui perde tempo del tempo per mettere in sicurezza malviventi che ha appena riempito di mazzate (mazzate fra parentesi molto realistiche, sullo stile della trilogia di Nolan e, se vogliamo fare un paragone extracinematografico, della saga videoludica sviluppata da Rocksteady).

Sorvolando sul fatto che nel 2022 si possano ancora inserire una scena in cui qualcuno potrebbe uccidere Batman se solo non ci mettesse due ore a prendere la mira (ma poi perché, una volta fatti i conti col fatto che il suo costume è antiproiettile, nessuno pensa di sparargli in faccia?) e una in cui qualcun altro potrebbe togliergli la maschera, ma si decide a farlo solo nel momento in cui l’eroe si sta svegliando, che rimane? Un film dall’impianto noir, pieno di pioggia e sporcizia, caratterizzato da un buon ritmo (nonostante la durata e i difetti non ci si annoia, il che non è il più grande dei pregi ma è pur sempre qualcosa) e da qualche momento meno scontato di quanto poteva essere visto il tono generale (il confronto fra Batman e l’Enigmista in cui per una volta è il secondo, dopo aver adombrato la possibilità che i due siano più simili di quanto si pensi, a rifiutare il paragone). The Batman è intrattenimento, alto in alcuni punti ma pur sempre con l’occhio puntato verso il grande pubblico e i luoghi comuni che quel grande pubblico pretende (o si è abituata a pretendere): nemmeno Nolan ne è stato esente, particolarmente in quel momento sui traghetti imbottiti di esplosivo che finisce con un improbabile “volemose bene” collettivo, ma qui c’è ancora di più l’impressione che tutti i dubbi morali, le difficoltà e i drammi che l’uomo pipistrello è costretto ad affrontare non servono a stimolare ragionamenti ma semplicemente a farlo elevare, alla fine, al ruolo di amichevole Batman di quartiere… O era qualcun altro?

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Racconto in musica 93: Una strada illuminata (Vanishing Twin – Telescope)

Vi ricordate come andavano le cose a settembre 2020? Avevamo appena cominciato a mettere il naso in contesti in cui si suonava (prevalentemente in acustico), di lì a poco avremmo avuto un’altra forma di lockdown che li avrebbe stoppati di nuovo e ci chiedevamo “quand’è che la musica dal vivo riprenderà sul serio?” (forse ci siamo, fanculo la scaramanzia). In quel periodo lessi un articolo su RockIt, l’intervista a una batterista barese emigrata a Londra, dove aveva trovato finalmente le condizioni giuste per costruirsi una carriera: in Italia le proteste dei professionisti della musica arrivavano in Piazza Duomo a Milano (senza che si siano mai visti effetti stratosferici sulla loro situazione) e leggere quelle parole era una conferma di quanto nel nostro paese suonare (o fare il fonico, il roadie…) non sia esattamente considerato un mestiere. Valentina Magaletti parlava anche di tanto altro, ad esempio di quanto la batteria sia considerata uno strumento da uomini rudi (stereotipo che lei ha cercato di smontare suonando una batteria di porcellana) e, ovviamente, dei progetti musicali che la vedono coinvolta: complice anche una puntata del podcast Tienimi Bordone a lei dedicata, questa volta quasi a fine 2021 quando anche da noi si potevano vedere i concerti elettrici (salvo poi rifermarci di lì a poco), ho approfondito la conoscenza di Vanishing Twin, la resident band di questa settimana su Tremila Battute.

Formata da Magaletti alla batteria, Cathy Lucas alla voce, Susumu Mukai aka Zongamin al basso, Philip Baerwalde aka Phil M.F.U. (Man From Uranus) alla chitarra e tastiera e Elliot Arndt (autore anche di alcuni video della band) al flauto e alle percussioni, Vanishing Twin è un progetto musicale che colpisce fin dalla genesi del nome, che fa riferimento al gemello riassorbito da Lucas prima della sua nascita. Caratterizzati da un’estetica particolarissima che pesca dal Dada e dal Bauhaus quanto dall’esoterismo di Jodorowski (nell’intervista linkata in alto Magaletti parla anche dell’idea di inserire nel merchandise un mazzo di tarocchi), la musica di Vanishing Twin è quanto di più incatalogabile ci possa essere: morbida ma destabilizzante, esotica e psichedelica mantenendo comunque elementi pop, un viaggio che comincia e non sai mai esattamente dove ti porterà influenzato tanto dallo spiritual jazz quanto dal kraut rock e dalle composizioni di Ennio Morricone. Lucas (autrice anche dei testi) e Magaletti uniscono le forze nel 2015, coinvolgendo in poco tempo tutti gli altri visto che già l’anno dopo esce il loro esordio, Choose your own adventure, pubblicato dall’etichetta londinese Soundway Records. La traccia iniziale, Vanishing twin syndrome, è una dichiarazione d’intenti, otto minuti in cui la voce armoniosa di Lucas si mischia a suggestioni orientaleggianti prima che una lunga divagazione porti direttamente verso lo spazio profondo (interiore o esteriore poco importa), ma non è un effetto respingente quello ricercato quanto un modo di settare il tono, far capire all’ascoltatore che anche i brani dalle durate più radiofoniche saranno comunque esplorazioni sonore verso un altrove di placida lisergia.

Ogni nuova uscita della band è un passo ulteriore verso la sperimentazione, a partire dall’Ep Dream by numbers del 2017, rilasciato per il Record Store Day del 2017 e costruito attorno a una serie di improvvisazioni, e passando per il secondo disco The age of immunology, che sancisce il passaggio alla Fire Records e fissa in maniera più concreta la suggestioni nate in Music and machines, una sessione d’improvvisazione registrata nell’arco di una sola notte nel 2018 pubblicata da Blank Editions. Il multiculturalismo della band si riflette nei titoli delle successive uscite, l’Ep In piscina uscito a marzo 2020 e Ookii gekkou, fresco fresco di release a ottobre 2021: impegnat* in un tour negli Stati Uniti, in estate Vanishing Twin tornerà anche a girare l’Europa e chissà che non salti fuori una data anche in Italia…

Telescope è la seconda traccia di Choose your own adventure, un brano delicato condito da tocchi psichedelici che ne ampliano gli orizzonti. La stessa band lo definisce come “un brano su come spieghiamo a noi stessi la nostra esistenza”, attraverso convinzioni contrastanti che si uniscono a formare la nostra visione delle cose: influenzato più dal mood della canzone che dalle parole mi sono immaginato due persone in mezzo alla neve con un telescopio, la ricerca di un senso nella vita e il passato che ritorna, anche solo per dirci che dovremmo fare tesoro di ogni momento e accorgerci di quanto è importante nel momento in cui accade. Lo so, fa molto new age, ma oggi va così: trovate il racconto subito dopo il brano che lo ha ispirato, a me non resta che augurarvi come al solito buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Una strada illuminata

Ci siamo allontanati nella neve, lasciandoci dietro le impronte e portando con noi solo un paio di coperte e un telescopio. Mi chiedevo perché proprio in quel momento, col freddo fuori anche dopo che le nuvole se n’erano andate, ma mi fidavo di te e sapevo che c’era un motivo per tutto.

La vita allora era fatta di cose comode. Il caldo del mio letto, la televisione fino a tarda notte, le risate e gli amici. Sarebbe rimasto tutto così se avessi fatto scelte diverse nella vita? Allora mi auguravo che tutto cambiasse, oggi non saprei cosa rispondere.

Hai steso una coperta per terra e con l’altra mi hai avvolto stretta. Mentre io aspettavo sbuffando vapore dalle labbra tu montavi il cavalletto, hai fissato con gesti precisi il telescopio e poi sei ritornato, chiedendo spazio nel tepore relativo che avevi improvvisato. Mi hai detto che dopo una tempesta il cielo è più limpido ed è allora, a qualunque costo, che bisogna mettersi a guardare le stelle. Hai trafficato col telescopio, con le mani rosse mentre le mie stavano calde fra i guanti, poi mi hai detto eccitato di guardare, così entusiasta che ti sei scordato di spiegarmi cosa avrei dovuto vedere.

Ci ho messo del tempo per lasciare libera la mia immaginazione. Sono stata una bambina seria che faceva quel che le si diceva, poi una ragazza che guardava invidiosa i successi degli altri. Quando mi sono liberata pensavo fosse ormai troppo tardi per recuperare le esperienze che avevo perso, ma ho imparato che il tempo porta sempre dei doni e l’importante è accettarli con gioia, anche quando ti feriscono e ti fanno piangere. Ogni giorno è una scoperta, mi ha detto qualcuno lungo il percorso: sembra stupido, ma per me è così.

Non so che costellazione vidi quel giorno, ma ricordo la tua faccia quando mi hai guardato e mi hai chiesto se non era bellissimo tutto questo. Avrei detto di sì a qualsiasi tua domanda, anche a quelle sbagliate, con la fiducia di chi sa di affidarsi a un potere superiore. Per un po’ ho continuato a cercarlo lì, in cielo, un potere superiore che mi potesse aiutare, soprattutto dopo che te ne sei andato e il mondo mi è sembrato perdere l’unica luce che aveva.

Non me ne sono accorta, mentre lo vivevo, di quanto fosse importante un momento del genere. Non mi accorgevo di molte cose ad occhi aperti, una volta, ma oggi nella memoria i gesti si ricompongono e acquisiscono un senso. Ero felice come forse non sarò mai più, e nemmeno me ne rendevo conto.

Oggi quel ricordo mi scalda più di una coperta, più di un fuoco acceso con mezzi di fortuna. Mi riporta a un tempo in cui il sangue scorreva placido nelle vene, le decisioni sembravano definitive e non capivo, nella mia innocenza, che stavo già tracciando la mia strada e che ad illuminarla c’era un mare di stelle.

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Post-post punk: il nuovo album dei Kick

Per quanto abbia aperto un blog che parla tanto di musica, ma davvero tanto, e qualcuno (magari) si aspetta che io sia piuttosto esperto di come vanno le mode del momento, devo ammettere che in realtà no, brancolo nel buio. La mia scoperta di nuov* artist* deriva principalmente dai concerti (percentuale scesa di molto da quando Tremila Battute esiste), da suggerimenti colti per caso e da dischi che mi arrivano, in pratica zero logica. A voler cercare di vedere un sacco di serie e film, leggere un sacco di libri, star dietro alle riviste e cercare ogni tanto anche di scrivere il massimo che posso permettermi è di conoscere un po’ di tutto e non essere esperto di nulla: per fortuna faccio l’operaio e non il giornalista, e se tanto mi dà tanto mi sa che la situazione non cambierà in futuro.

Però, ed è un grosso però, mi sembra di aver capito che negli ultimi anni si è rinnovato l’interesse per il post punk.

Due atteggiamenti, un genere

Ho provato ad ascoltarli, gli IDLES e i Fontaines D.C.. Ci ho provato più volte, ma ne ho ricavato poche emozioni. I primi, al netto di un album davvero ottimo come Ultra mono, mi sembra abbiano il potenziale per spaccare tutto e vadano avanti col freno a mano tirato: sarà che la prima volta che ho provato ad ascoltarli avevo appena recuperato un album dei The Birthday Party e insomma, sono paragoni scomodi, ma la furia di Joe Talbot esplode raramente a livelli del Nick Cave pre carriera solista. I secondi invece proprio non li capisco, avranno anche (così sento dire) dei bellissimi testi ma mi sembrano smorti, un incrocio fra il post punk dei tempi che furono e, che so, Cloud Nothings. Sono vecchio io o si sta davvero cercando di riciclare un genere senza innovare niente? Non chiedo chissà che, ma almeno che le canzoni non si assomiglino tutte (e sì, questo è proprio un commento da vecchio).

Se quello che chiedevo non me l’hanno dato né gli Idles né i Fontaines D.C., a portarmelo sono stati i Kick.

Non si definiscono post punk i Kick, ovvero Chiara Amalia Bernardini (voce, basso e autrice dei testi) e Nicola Mora (chitarre, piano elettrico, synth e campionatori), ma è innegabile che c’è anche quello all’interno della loro musica. Basta ascoltare i ritmi ossessivi di basso e batteria (suonata in tutto il disco da Giovanni Caniato) dei primi due brani di Light Figures, Rubberlover e Sirens never sleep, per avere un assaggio di quel mondo lì, di quell’atmosfera vagamente claustrofobica che la voce di Bernardini, prima armoniosa e poi ironicamente tagliente, alimenta per contrasto. Ma la cosa bella di questo disco, uscito ieri per la Anomic Records di Berlino, la Dischi Sotterranei di Padova e la Sour Grapes di Manchester, è che non si ferma lì, non cerca di riciclare lo stesso canovaccio e lo si intuisce già dallo sfogo noise che chiude Sirens never sleep, anche se da lì in avanti si va in almeno tre direzioni contemporaneamente e non per forza quelle che ci si aspetta.

Light figures è tutto tranne che perfetto, va detto subito. Se tutti i brani fossero stati come Viole, una sorta di versione blandamente trip hop di una canzone dei Kings of Convenience (nonché l’unico brano cantato in italiano, stranamente con un’inflessione atona che sembra suggerire che a cantarla non sia una madrelingua), non mi sarei messo certo ad ascoltarlo così tanto, ma all’interno di un disco che sperimenta e osa si finisce per apprezzare tutto, anche le sbavature. Il secondo disco dei Kick è come quelle raccolte di racconti disomogenee, in cui trovi così tanta fantasia che alla fine scendi a patti anche coi testi che ti sono piaciuti meno perché poi ti si stampano in testa gli stridenti incubi meccanici di 24-hour delivery club e l’algida inquietudine di Atlantide, un brano per cui sembra esser stata creato il termine “perturbante”: in queste canzoni Bernardini e Mora dimostrano di avere un’estetica riconoscibile e anche un’etica, perché sono solo alcuni dei testi in cui il duo mette l’accento su temi come il materialismo, il cambiamento climatico e, più in generale, lo straniamento provocato dal capitalismo. Asperità come queste vengono alternate a brani più morbidi come Eleven, dolce e malinconica a seconda dei momenti, e Sparks, il brano forse più pop e per cui non stonerebbe il suffisso “dream” se non fosse per quella batteria che continua a tirare dritta come un treno.

Se la musica brilla per varietà la voce di Bernardini non è da meno. Robotica e a tratti isterica in 24-hour delivery club, melodiosa nell’incalzante Benvegnuda (dove alterna almeno tre lingue), il meglio di sé lo sfodera in Setting Tina, dove fra le ruvidezze di chitarra e basso (suonato nientemeno che da Scott Reeder, bassista dei Kyuss in due dei loro capolavori) lei si appoggia provocante fra sussurri e vocalizzi. È grazie a una personalità forte e l’idea di una direzione precisa, per quanto varia, che Light figures è così affascinante: sorprende, diverte, inquieta, delude anche a tratti ma non lascia mai che la noia prevalga e, soprattutto, non lascia mai l’impressione che quanto di buono c’è dentro sia frutto del caso, solo che Bernardini e Mora si siano divertiti un sacco ad andare musicalmente dove gli pareva e piaceva.

Hanno quindi innovato il post punk, i Kick? Possiamo chiamarlo post punk, questo incrocio di influenze che da un motore ossessivo tira fuori tutt’altro? Non lo so, ma di certo preferisco mille volte queste ibridazioni a una vecchia lezione portata avanti con verve altalenante: continuate così!

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Racconto in musica 92: Spaesamenti (Steve Reich – Mallet quartet 1: fast)

Let’s go to the classic! A parte un caso non mi sono finora mai avventurato nel mondo dei compositori, e c’è un buon motivo: non me ne intendo. Per quanto uno possa cercare di ampliare i propri orizzonti musicali esiste sempre un territorio che rimane inesplorato, e in generale ho sempre fatto un’associazione molto settaria che più o meno fa così: compositori = musica classica = noia. Perdonatemi per la mia imperdonabile approssimazione e ringraziate insieme a me Elena Soprano, che con il suo racconto mi ha permesso di addentrarmi nella musica di Steve Reich.

Elena ha uno di quei curriculum che possono solo suscitare ammirazione. Vanta infatti una carriera letteraria ultraventennale, iniziata con la pubblicazione del romanzo La maschera nel 1994 (vincitore l’anno seguente del Premio Lerici Opera Prima e tradotto in cinque paesi) e proseguita con vari editori (fra gli altri Archinto, Baldini & Castoldi, La Tartaruga e Topipittori) alternandosi fra letteratura per adulti e per ragazzi, e a tutto questo vanno aggiunti racconti apparsi su quotidiani, periodici e riviste (Il Giornale, Il Piccolo, D – La repubblica delle donne, Gulliver, Nuovi Argomenti, Tutte Storie, L’immaginazione, Ventiquattro). Ha lavorato anche in radio, scrivendo testi radiofonici per la Rai e per la Radio Svizzera Italiana, e sta concludendo un master in musicoterapia, segno di un amore per la musica che si accompagna a quello per la letteratura. Di origini greche, il suo libro preferito è La fortezza della solitudine di Jonathan Lethem e ha una collezione di bottoni trovati per terra, passione che coltiva da sempre: sarà un caso che è arrivata qui, nel blog creato da uno che i bottoni li produce?

Che dire di Steve Reich, dopo aver professato la mia ignoranza sui compositori? Classe 1936, dopo aver studiato composizione alla celeberrima Juilliard School di New York (sua città di origine) e al Mills College di Oakland nel 1966 ritorna nella Grande Mela, dove inizia il suo percorso musicale. Qui collabora con ex compagni di studi come Philip Glass e Jon Gibson, con cui si esibisce all’interno delle gallerie d’arte prima di formare col secondo il gruppo Steve Reich and Musicians, di cui facevano parte anche i pianisti Steve Chambers e Arthur Murphy: è in quegli anni che si crea, sull’onda delle sperimentazioni di La Monte Young, il cosiddetto movimento minimalista, caratterizzato da soluzioni semplici e una costante ripetizione in luogo dell’astrattismo d’avanguardia dei primi anni ’60. Nel 1970 Reich va in Ghana a studiare tecniche percussive con un maestro della tribù degli Ewe, esperienza che segnerà profondamente la sua musica donandole una sorta di movimento circolare. In una carriera che lo vede tuttora in attività ha realizzato un numero enorme di composizioni, collaborato con musicisti di mondi differenti come il chitarrista Pat Metheny, inserito nelle proprie opere testi del poeta William Carlos Williams e di Ludwig Wittgenstein (sancendo un amore di gioventù, quello con la filosofia, di cui era stato studente presso la Cornell University). Il mondo della musica lo ha celebrato con il Premio Pulitzer nel 2009 (per il brano Double Sextet) e con il premio alla carriera alla Biennale di Venezia nel 2014, sancendo con notevole ritardo (alla consegna del premio alla Biennale disse “doveva arrivare prima, ma meglio tardi che mai”, in relazione soprattutto al fatto che nessun compositore minimalista avesse ottenuto prima quel tipo di riconoscimento) la sua importanza: potete avere un assaggio della sua influenza ascoltando le colonne sonore per i film di Hayao Miyazaki e soprattutto di Takeshi Kitano realizzate da Joe Hisaishi, ispirato nella sua musica proprio dal compositore newyorkese (oltre che da Quincy Jones, a cui è ispirato anche il nome d’arte).

“Veloce nel ritmo percussivo, ma leggero nel timbro, quasi diafano”: così descrive Elena il primo movimento del Mallet Quartet per due marimbe e due vibrafoni, associandovi un racconto che cita esplicitamente, oltre che lo stesso Reich, opere di compositori storici come Mussorgsky e Saint Saens. Vi invito allora a seguire la protagonista Taila nel suo percorso verso il raggiungimento di quella stessa diafanicità, attraverso incontri e momenti di meditazione che hanno lo stesso ritmo e la stessa leggerezza del brano a cui sono associati: buon ascolto, quindi, e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Spaesamenti, di Elena Soprano

«Mamma, un fantasma scozzese» dice la voce di un bambino. Poi, più vicino: «Tu non puoi mica meditare qui. Che ti credi?»

Taila abbassa il telo tartan che si è messa in testa per creare un effetto a capanna indiana. Davanti a lei due ragazzine, molto simili, forse sorelle. Sorelle matrioska.

«C’eravamo noi. È il nostro spazio».

«E cosa ci dovete fare con tutto questo spazio?»

«Niente. Ma se c’è qualcuno dentro, non è spazio. Anche la nostra è una meditazione».

Taila le fissa. Se non fosse che quanto hanno detto le suona familiare, le avrebbe già prese a calci. Si avvia al molo, svolta nel vicolo del vecchio teatro. La porta è socchiusa, entra. Sul palcoscenico scene dipinte su fondali di carta. Nello spazio tra palco e poltrone, alcuni bambini. Esce dalla quinta un contrabbassista, poi sbuca la proboscide di un enorme elefante di cartapesta.

Il Carnevale degli animali” pensa Taila “È una vita che non lo sento”. Invece, partono le note di Promenade di Mussorgsky. Il contrabbassista finge di suonare, la musica è in playback. Sono le prove generali di Spaesamento, divertimento in atto unico per animali e strumenti sbagliati, un patchwork musicale in cui hanno mescolato Quadri di una esposizione e il Carnevale di Saint Saens. La seconda scena rappresenta un bosco. Parte la musica dolcissima di Acquario e sul palco balza un mimo vestito da gnomo. La luce sul viso gli dà un’espressione da film horror. È il personaggio del primo brano dei Quadri. I bambini non fiatano.

La rappresentazione non dura più di mezz’ora, Taila esce dal teatro con un lieve mal di testa, ma estasiata. Segna il nome del regista su uno scontrino, lo mette in tasca. Probabilmente lo perderà prima di sera, ma vorrebbe approfondire la cosa, per lo meno sapere chi è che ha messo in scena e dato un senso al suo modo di sentirsi perennemente avatar.

Chiama sua madre perché è domenica. La donna non capisce neanche con chi stia parlando. «Ora la devo lasciare, sto aspettando che mi chiami mia figlia» ripete. E la figlia sorride, rassicurata. Nessuno come sua madre la riporta alla bellezza dell’asincronicità. Esserci, ma non esserci.

Si siede sul molo. Dopo due ore arriva Paula, i soliti capelli a chioma di salice piangente, il basso a tracolla. Suonerà con una nuova band, ma non sa se accetterà l’incarico. Il funky non è il suo genere. È per un minimalismo pop di sperimentazione e ha fatto di Steve Reich il suo guru.

«Andiamo, è tardi» esclama Paula. «Che si fa dopo? Cinema?»

«No, non vengo».

«Scema. Allora cosa mi hai aspettato a fare?»

«È bello aspettare. Non ho fatto altro che aspettarti da quando ci conosciamo».

«Mi aspetti qui allora?»

Arriverà il giorno in cui dirà di no, ma ora dice di sì. Saluta Paula, si rimette sotto al suo telo a gambe incrociate. Respira una, due, tre e più volte. Nessun corpo, nessun luogo, nessun tempo. Sente il verso di un gabbiano. Avverte un senso di dissolvenza. Poi, finalmente, l’aria tra le piume e le zampe.

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Scissione, o di come la Apple mi ha rubato un’idea grazie all’inconscio collettivo

Antefatto

Qualche anno fa mi è venuta l’idea per un racconto. Non ricordo esattamente come arrivò, perciò romanzerò il contesto associandolo al germe iniziale della trama: ero moderatamente brillo in quel della Cooperativa Portalupi di Vigevano, e qualcuno che non conosco mi ha chiesto cosa faccio di lavoro. Da lì sono partito con la fantasia immaginandomi un impiego in cui non è possibile sapere cosa si fa esattamente, perché appena entrati in azienda la mente viene come messa in standby e ricollegata solo all’uscita: una giornata di lavoro che passa alla velocità di un battito di ciglia, una situazione che gli amici del protagonista definiscono ideale. Sarà che non ho mai fatto lavori così stimolanti dal punto di vista creativo (e a volte, fortunatamente per brevissimi periodi, veramente di merda), ma l’idea di bypassare l’intera giornata lavorativa, ritrovandosi all’uscita subito dopo aver iniziato, l’ho sempre associata alla felicità.

Quel germe di idea è rimasto lì buono buono per anni, non riuscivo a (o non avevo abbastanza voglia di) trovare uno sviluppo. Poi è venuta la pandemia, la fabbrica dove lavoro ha chiuso per un paio di mesi come tutte le aziende non strettamente necessarie e io, con un sacco di tempo a disposizione, ho deciso che era venuto il momento di completare una raccolta di racconti: era venuto il momento di affrontare quel germe di idea e dargli una forma concreta. Siccome vengo da anni di letture di Philip Dick e ho introiettato il concetto per cui la tecnologia, come i djinn con cui devi stare bene attento a come esprimi i desideri, finisce sempre per incularti, ho aggiunto un’ulteriore livello a quello semplicistico del “che figata, anche se è inquietante, fare un lavoro dove bypassi tutto lo stress del lavoro”: la questione sociale e morale, riassumibile nel “sei disposto a non fare domande su cosa fai, se quel che fai ti dà sicurezza economica e zero sbattimenti?” Ne è venuto fuori il racconto più lungo che abbia mai scritto, una trentina di pagine buttate giù in due-tre giorni (lo stesso lasso di tempo in cui Dick ha scritto alcuni suoi romanzi sotto anfetamine, o in cui Stephen King alcolizzato e cocainomane ha buttato giù Cujo senza ricordarsene: io sono meno un fulmine di guerra, ma almeno non ho ancora sviluppato delle dipendenze): Un antidoto alla precarietà, scritto nella primavera 2020, è ancora oggi inedito, perché l’ho proposto a una rivista che non mi ha ancora risposto (dopo sei mesi penso di poter tradurre il silenzio in “ci dispiace ma non ci interessa”: ci sta) e la mia raccolta non ha ancora trovato un editore (ho giusto ieri ricevuto un rifiuto: parliamo dei nostri fallimenti, esistono anche quelli). La mia fidanzata e alcuni amici l’hanno letto, ma non ha mai viaggiato al di fuori di Milano.

Siri però ci è arrivata lo stesso.

Apple TV l’ha già fatto

Me = Butters

Io e la mia fidanzata ci siamo abbonat* a Il Post, e voi starete dicendo “e sticazzi!”, ma seguitemi un attimo. L’abbonamento dà modo di ascoltare alcuni podcast fra cui Tienimi Bordone, una breve striscia giornaliera (si potrà usare striscia per un contenuto audio? Facciamo di sì) in cui il giornalista Matteo Bordone parla di svariate cose connesse o meno con l’attualità, tipo parlare di Mark Lanegan a qualche giorno della morte (sigh), di una balena spiaggiatasi in Olanda qualche secolo fa o di qualche film/serie Tv. Qualche settimana fa la mia fidanzata mi consiglia l’ascolto di una specifica puntata, dicendomi che mi piacerà, io l’ascolto e scopro che mi hanno inculato l’idea.

Ben Stiller alla regia: non compreso col mio racconto

Scissione (Severance in lingua originale) è una serie tv iniziata da poco su Apple TV, basata sull’idea dell’esordiente Dan Erickson. Il suo germe di idea, come ha affermato in questa intervista, è molto simile al mio: anche lui, piagato da alcuni lavori d’ufficio ad alto livello di stress, si è ritrovato a pensare a quanto sarebbe stato bello poter passare direttamente alla fine della giornata lavorativa; anche lui si è posto domande su questo desiderio (tipo “non dovremmo volere più ore a disposizione, invece che sperare di farcele sottrarre?”); anche lui, a un certo punto, ha affrontato quel germe e lo ha ampliato.

Ne è venuta fuori la storia di Mark Scout (Adam Scott), un dipendente della Lumon Industries che non sprizza esattamente gioia da tutti i pori: lo incontriamo nelle prime scene mentre piange in macchina prima di recarsi a lavoro, e nella prima puntata scopriamo già che ha perso la moglie e sembra avere qualche problema con l’alcol. Mark però si trasforma quando entra alla Lumon: non è che diventi l’anima della festa, ma le interazioni nel suo ufficio non sono caratterizzate dalla tristezza che lo affligge al di fuori. Non è che Mark riesca a lasciare i problemi fuori dal lavoro, è il sé stesso della vita di tutti i giorni a rimanere fuori.

Qui è dove la tua vita entra in standby

In Un antidoto alla precarietà immagino che l’azienda in cui il protagonista inizia a lavorare abbia una originale politica sulla privacy: per non far uscire informazioni su ciò che viene fatto all’interno, i dipendenti non possono conservare ricordi delle azioni che compiono durante le otto ore lavorative. Nel racconto non spiego la tecnologia che rende possibile tutto questo, Erickson invece lo ha fatto: alla Lumon Industries ogni nuov* dipendente deve sottoporsi a un intervento chirurgico chiamato, guarda un po’, Scissione, che consiste nell’inserimento all’interno del cervello di un dispositivo che impedisce di sapere ciò che si fa in azienda una volta usciti (e viceversa: una volta dentro, non ci si ricorda nemmeno il proprio nome). È una situazione potenzialmente alienante, ma ci si fa l’abitudine, o almeno così sembra dimostrare la flemma con cui Mark e i suoi colleghi Dylan (Zach Cherry) e Irving (John Turturro) accolgono la sconvolta Helly (Britt Lower), nuova assunta alla Lumon e decisamente incline a fuggirsene via il più presto possibile… Se non fosse che la sua personalità esterna non è d’accordo.

“Ecco è semplice: i ricordi vengono biforcati, così quando non si è al lavoro non si ha memoria di cosa si sia fatto lì. Ho ragione, Mark?”

Scissione

«Quindi come funziona esattamente? Tu entri lì e?»

«E subito dopo sono fuori. Otto ore passate, nove contando la pausa pranzo».

Un antidoto alla precarietà

Affinanze/ divergenze fra il compagno Dan Erickson e me

Ci sono altre similitudini fra come Erickson ed io abbiamo sviluppato quel germe di idea nato dallo stress lavorativo. In entrambe le nostre storie ci sono delle proteste, nate da comitati spontanei nel caso della serie e sorte fra i dipendenti nel mio caso, Mark e il mio protagonista sono ben contenti di poter cedere all’oblio le ore lavorative (anche se, nel caso di Mark, è più una fuga di otto ore dal ricordo della moglie morta) e il modo in cui Helly si ritrova spaesata al di fuori della Lumon dopo il primo giorno di lavoro ha analogie inquietanti con la reazione del protagonista senza nome (eh sì, ho questa fissa di non mettere i nomi ai personaggi) di Un antidoto alla precarietà, quando visita per la prima volta l’azienda in seguito al colloquio.

“Vogliamo un provvedimento che impedisca alle corporation, come la Lumon, di imporre la scissione legalizzata nel nostro stato”.

Scissione

Iniziarono i primi assembramenti davanti ai cancelli. Non ci furono scioperi, ma alla fine dell’orario di lavoro si formarono cortei spontanei di dipendenti che esigevano informazioni, spalleggiati da esponenti dei sindacati e di alcune associazioni no profit.

Un antidoto alla precarietà

Va da sé, però, che il mio è un racconto di trenta pagine, mentre Scissione è una serie Tv con episodi di un’ora, ed è dunque inevitabile che ci siano anche molte differenze. Erickson infatti analizza in maniera originale il luogo di lavoro, un dedalo di corridoi e uffici dove i dipendenti sembrano quasi dei prigionieri e dove la loro vita è caratterizzata solo dalla loro mansione (uno strano processo di catalogazione di gruppi di numeri basato sulle sensazioni) e dai rapporti interpersonali fra collegh* e superiori, perché così come gli “esterni” non hanno ricordi della vita lavorativa anche gli “interni” non sanno cosa siano il weekend e le serate fuori: inoltre alimenta il mistero riguardo ciò che effettivamente fanno i dipendenti della Lumon, principalmente attraverso i personaggi di Petey (Yul Vazquez), ex collega di Mark che è riuscito a bypassare l’intervento di scissione, e di Harmony Cobel (Patricia Arquette), diretta superiore di Mark a lavoro e sua vicina di casa nella vita reale, con funzioni che lasciano supporre un controllo attivo anche al di fuori della Lumon.

Fino a qui tutto male

La differenza principale è però nelle intenzioni: se entrambe le nostre storie puntano il dito contro la spersonalizzazione sul luogo di lavoro, Erickson propende per una trama in cui un dipendente ligio al dovere apre gli occhi e cerca di cambiare le cose (o così lasciano supporre i primi due episodi), io invece ho preferito concentrarmi su un uomo comune più interessato a conservare il proprio stipendio in una congiunzione lavorativa sfavorevole (pur avendo un contratto a tempo indeterminato da vent’anni, al netto di crisi e casse integrazione, se mi guardo attorno vedo un esercito di lavoratori precari) che a salvare il mondo dai capitalisti brutti e cattivi. Nell’amarezza, insomma, io penso di aver fatto il passo più lungo rispetto a Scissione: sarà per questo che il mio racconto è ancora inedito mentre la sua idea è stata finanziata dal colosso di Cupertino?

Conclusione

Per quanto ci siano delle differenze, per quanto tecnologia alla base del mio racconto assomigli più a un reset che a una biforcazione di personalità, l’idea di fondo in Scissione e Un antidoto alla precarietà resta comunque la stessa: se ne so abbastanza di “vendibilità” di un progetto, il fatto che Erickson sia arrivato a realizzarlo prima di me indica che la mia idea ormai è bruciata. Non è che faccia i balzi di gioia, ma metabolizzando la sorpresa iniziale mi sono ritrovato a pensare a una scena di quel piccolo capolavoro di Richard Linklater che risponde al nome di Waking Life: in quella scena del film Julie Delpy e Ethan Hawke discutono di reincarnazione e inconscio collettivo, e rimuginando su quei concetti sono sceso a patti col fatto che quella era evidentemente un’idea che “girava” e che ha trovato casa in più di una mente. Ulteriore casualità vuole che la serie sia uscita con la prima puntata (almeno in Italia) proprio il giorno del mio compleanno, come a sancire un’affinità ulteriore fra me e Dan Erickson, che non per questo immagino mi regalerà un po’ dei soldi che si è fatto.

“Siamo con te fratello”

È sempre meglio che pensare a Siri, nell’Iphone della mia fidanzata, che ascolta tutto quel che diciamo e ruba le idee migliori per farle scrivere a sceneggiatori ombra conniventi col sistema, ma anche in quel caso il mio naturale ottimismo mi fa pensare che poteva andare peggio: potevo firmare un contratto vincolante con la Apple che, in cambio della mia idea, mi avrebbe fatto diventare una cavia umana per lo sviluppo dello HumancentIpad.

(Comunque guardatela, questa serie sembra veramente una figata. E c’è pure Christopher Walken!)

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