Racconto in musica 179: Panchina (Carl Brave – Professorè)

Settimana scorsa ho utilizzato un famoso meme per spiegare in parte un concetto che volevo esprimere, farò lo stesso oggi e lo faccio subito.

Quest’immagine di Steve Buscemi (che nella mia mente si confonde con un quasi sovrapponibile Steve Martin in una scena in cui per fare il giovane parla a dei ragazzi dicendo “ehi yo, che succede yo?”) rappresenta alla perfezione la sensazione di essere fuori dai tempi. Io ho quarantacinque anni e non sono rimasto bloccato ai dischi di quando ero un’adolescente, ma devo ammettere che buona parte dei miei ascolti sono influenzati dal mio percorso e che capire ciò che ascoltano l* giovani d’oggi (terminologia anch’essa anziana, contando che l* giovani non sono una singola entità e che quando ero giovane io ascoltavo ben poco di ciò che era considerato la “musica dell* giovani”) mi risulta complicato. Ho un nipote di diciotto anni e potrei farmi una cultura con lui, anche se sospetto che non ne ascolti molta, e qualche nome mi arriva da una collega con le figlie in piena adolescenza che ascoltano un sacco di trap (che pure a lei non dispiace affatto), mi sono pure sbilanciato a parlare di Lazza in tal senso ma è inutile dire che mi sento un pesce fuor d’acqua e non mi verrebbe in mente di scrivere un racconto partendo dalla canzone di un artista della scena rap/trap/hip hop odierna nostrana: dove non arrivo io arrivano però finalmente le nuove generazioni, così oggi ci troviamo a parlare di Carl Brave grazie alla quattordicenne Annie Cecchetti.

In verità è un’accoppiata scrittrice/editor quella che ha portato Annie su queste pagine, perché il mio invito a collaborare era inizialmente rivolto a suo padre Arjuna. Classe 1976, archeologo e scrittore, Arjuna nel 2021 ha pubblicato per Dalia Edizioni il romanzo Non pensarci due volte, storia del viaggio di una tredicenne attraverso l’Appennino che, oltre a essere stato segnalato dal Premio Calvino prima della sua pubblicazione, nel 2022 ha vinto anche il Premio Demetra per la narrativa ambientale all’interno di Elbabook. Con i successivi libri Tula a caccia di colori e Tula e i capelli di Madre Natura, sempre editi da Dalia e adatti a un pubblico dai sette anni in su, Arjuna conferma la sua capacità di guardare alle nuove generazioni con partecipazione e sensibilità: ne sono ulteriore conferma i suoi racconti, apparsi su Nazione Indiana (qui e qui gli altri due) e su In fuga dalla bocciofila, quest’ultimo primo capitolo di un nuovo romanzo che speriamo trovi presto un editore. Di sé aggiunge che abita in Umbria e ascolta Sinead O’ Connor, una passione che si nota bene dalla poesia Elegie dublinesi dedicata alla sua canzone Troy e che gli ha permesso di vincere la seconda edizione del concorso Note d’inchiostro, che è poi dove l’ho conosciuto: sua figlia Annie invece, che usando una figura abusatissima più del meme di cui sopra ha ancora “tutta la vita davanti”, di sé dice solo che ha quattordici anni, ascolta trap ed è un’atleta di scherma (e, aggiungiamo noi, dimostra già un certo talento per la scrittura).

È ascrivibile al genere trap la musica di Carlo Luigi Coraggio, in arte Carl Brave? Non lo so dire, ma da ascoltatore disattento delle nuove tendenze mi sembra più navigare su quella linea di confine fra un pop infarcito di tendenze anni 80 e il rap duro e puro, iniettando in questo mix la sua visione delle cose scevra perlopiù delle tendenze machiste e gangsta di gran parte della scena trap (a cui, da profano, potrei associarlo al massimo per l’uso saltuario dell’autotune). Più Coez che Sfera Ebbasta volendo fare paragoni azzardati, e come il Lazza di cui avevamo parlato mesi fa pericolosamente in bilico anche su un altro confine: quello fra la musica indipendente e la musica delle grandi major. Coraggio è uno di quelli che ha fatto il salto, tutti i suoi dischi solisti (Notti brave, 2018, Coraggio, 2020 e Migrazione, 2023) sono usciti per Universal e le collaborazioni che ha inanellato sono con nomi noti come Francesca Michielin, Fabri Fibra, Elodie e Gué Pequeno: è anche però uno che alla musica ci è arrivato con gavetta e forza di volontà, e che alla musica ha anche rischiato di non arrivarci proprio. Promettente cestista in quel di Roma, dove cresce nel settore giovanile della Fortitudo, Coraggio alterna rime e canestri fino alla stagione 2014/2015, anni in cui ha già iniziato a pubblicare musica: è del 2012 il mixtape con la Molto Peggio Crew Sempre peggio vol.1, seguito nel 2014 da Brave EP, l’esordio che non so se definire ufficioso o ufficiale. Gli anni immediatamente seguenti sono dedicati perlopiù a collaborazioni, la prima con il rapper Espanishi nel duo elettronico Wankers con cui pubblica l’EP Where’s Joe Wanker? (2015), la seconda con Franco126, membro della crew 126 e come lui all’interno del collettivo Guasconi: inizialmente i due lavorano a un disco solista di Coraggio che non uscirà mai, poi il tutto confluisce nel progetto Carl Brave x Franco126 che li porta alla sempre attenta Bomba Dischi, etichetta che è una porta girevole fra l’indie e il mainstream e che si conferma tale col duo.

Polaroid esce nel 2017 ed è un successo, vengo sfiorato anche io dalla sua notorietà grazie alle classifiche di fine anno di Rockit ma non approfondisco, non come ho fatto negli ultimi giorni perdendomi fra le rime e le note della musica di Coraggio, che subito dopo divide pacificamente le strade con Franco126 (ma non con la crew 126 in toto, viste le plurime collaborazioni con Ketama126) che porterà entrambi ad una carriera solista densa di soddisfazioni. E io, ne ho ricevute di soddisfazioni da questa immersione? Solo in parte, perché il mondo che descrive non è il mio ma non è neanche così lontano come può esserlo quello della trap infarcito di machismo, droga e successo: è più a portata di mano, denso della sua Roma e di storie d’amore finite male, malinconico a tratti, arrabbiato raramente e ironico molto spesso, che l’ironia è sempre un ottima arma per non farsi abbattere dalle sfighe della vita. Il Carl Brave che riesco ad apprezzare di più arriva da un disco (a sensazione) meno cagato, Sotto cassa (2021), più tamarro e ritmato, sei brani riproposti anche in breve versione acustica che lo vedono duettare con gente tipo M¥SS KETA e Gemitaiz che esplorano un lato di Coraggio che nei dischi resta più confinato, soprattutto nell’ultimo Migrazione: ai Rimpianti cantati con Rose Villain e Nayt preferisco l’Odio espresso con l’aiuto di Jake La Furia, anche se magari fa più brutto e non è esattamente il sentimento che mi contraddistingue.

La canzone che ha ispirato Annie è Professorè, la prima traccia di Notti brave. Fra ricordi di un amore adolescenziale e scene di vita in classe Coraggio riesce a riportarci un po’ tutt* sui banchi di scuola, trovando la giusta alchimia fra personale e generico (a proposito della sua musica e di quella di Franco126 Arjuna dice che “raggiungono una pulizia e una sorta di verità poetica molto rara nella scrittura di canzoni non solo italiana, ma anche anglosassone, ovviamente rimanendo nel contemporaneo e nel giovanile. Intendo dire che il mondo perfettamente riprodotto di questa Roma di pischelli è quasi impeccabile”): Annie a suo modo fà lo stesso, portandoci nella vita di un pischello romano che fra una rima e un kebab, un allenamento di calcio e le chiacchiere con un’amica, si ritrova a scuola proprio Carl Brave e decide di sfruttare l’occasione. Qualunque errore nel gergo romano, sul quale mi sono avventurato in un rischioso editing da piemontese trapiantato in Lombardia, è da imputarsi a me, qualunque pregio al duo dei Cecchetti che si è occupato della scrittura e del (marginale) editing: non mi resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero l* artist* accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Panchina, di Annie Cecchetti

La mattina arriva sempre in ritardo
passo il mio tempo pensando
latino prima ora
vorrei parlare con quella mora
ma è pariola
non è della mia zona

Carina però non centra con “Panchina”, vorrei parlà di abitudini, non vojo tirà in ballo le femmine.

La notizia arriva alla terza ora quando la prof annuncia che Carl Brave verrà a parlare a scuola. Isa è contentissima, io non ce posso crede. Torno a casa con la musica nelle cuffie, crollo in camera, la sveglia suona alle cinque, preparo il borsone e dico a mamma che so’ pronto, mamma si acchitta n’attimo e pija le chiavi della mini. Al campo saluto il mister, il mister dice ‘na cosa a mamma, lei sorride. Oggi c’è rifinitura e domenica la partita col San Lollo FC, me mette a marcare Fabio, quello è un colosso e io sto preso male. Mamma ha il turno di notte, me toccano i sofficini e Amadues che me fà un TSO, mangio zitto e bono che domani è il grande giorno, devo assolutamente presentarmi a Carletto.
La mattina prendo posto accanto a Isa e al prof de sostegno, appena entra Carl ce spiega in rima che sta a scuola pe’ parlà de educazione sessuale, ce fa il discorso e tira fori lo scatolone coi preservativi, quando me passa i durex gli dico che ho una cosa da dirgli in privato. Lui capisce e dice che il pomeriggio sta in studio a via Gallipoli, “Te aspetto piskè” e passa al prossimo. Non torno a casa, finisco le winston e me sfondo di kebab sulla metro B. Iphone al tre percento, me la faccio a tentoni per l’EUR, arrivo a ‘na palazzina tutta nova, suono il citofono, me risponde una tipa, entro, la sala è divisa in due da un vetro, da una parte il mixer, dall’altra due poltrone, Carl esce da ‘na porticina scartando un kitkat e dice “T’ho fatto venì qua perché c’hai la faccia simpatica, ma spicciate che c’ho il treno per Bologna.”

Respiro e dico “So’ venuto perché te vojo fa sentì ‘n pezzo!”

Me fa cenno de sedemme. “Allora, te farò ‘n paio de domande, poi il pezzo lo mandi a Laura che lo ascolta per me.”

Laura me sorride dalla altra parte del vetro, detto fra noi una veramente bona.

“Prima domanda, perché scrivi?”

“Scrivo perché me aiuta a capì quello che c’ho intorno.”

“Quell’altri piskelli avrebbero detto ‘na cosa tipo a zi’ io scrivo pe’ fa i soldi, bitch, cocaina cotta in cucina, powpow!”


Ridemo, poi me dice che me devo trovà un socio e che devo dà una forma a sti capelli che così paro ‘na scodella. Esco che non ce sto a capì un cazzo, pijo un fior di fragola, perdo l’atac, aspetto un’ora, quando arrivo trovo Isa sotto al portone, saliamo, mamma è in doccia, ce buttiamo sul divano poi prendo il pc, scrivo la mail, allego l’audio di “Panchina” e invio. Isa me chiede se dopo esco, le dico che sto preso male e che resto a casa, lei me manna affanculo.
La domenica è ‘na merda, la partita finisce tre a zero per San Lollo, il mister ce vole strozzà a tutti, poi, mentre sto in macchina che guardo de fori lui che ce sta a provà con mamma, arriva sto messaggio “A piské, il pezzo ce sta, ho creato una base, esercitati.”

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Ora è ufficialmente periodica, ovvero Tremila Battute numero due – la fanzine

Quali motivi ci sono dietro alla creazione di un progetto? Quali obiettivi ci si pone per portarlo avanti? Quanto c’è di narcisistico e quanto di “necessario” (con le mille virgolette del caso) quando ci si pone davanti alla tastiera per dire la propria su qualcosa? Sono domande che probabilmente ho già scritto in altri articoli, molto spesso temo, ma che mi si affacciano ogni volta che posto un articolo o un racconto e mi chiedo, alla fin fine: perché porto avanti Tremila Battute?

E la risposta è boh, ma intanto continuo a farlo.

Spero che mi aiuti a pubblicare qualcosa un giorno, magari quando avrò finito il romanzo che sto scrivendo da più di un anno? Certo che sì, ma realisticamente non penso che un blog che si è volontariamente ficcato nella nicchia della nicchia possa convincere una casa editrice a darmi un’opportunità né un favoritismo qualsiasi per scavallare la pila degli inediti (checché ne dica Vanni Santoni, che pure ho seguito perché alla fine ho creato una “rivista” invece di collaborare con quelle già attive, dando il mio contributo al frazionamento del mondo della lit web). Penso di aiutare il mondo della musica? Nì, magari a qualcun* ho fatto scoprire nuova musica ma dubito che artist* che facevano la fame siano passat* a caviale e champagne dopo che ne ho parlato io, anche se con questa logica non si farebbe niente e anche una goccia nel mare (nel mio caso una recensione o un racconto) può aiutare. Penso di dare uno spazio a persone di cui apprezzo la scrittura? Sì, e infatti quando non arrivano me le vado anche a cercare: a volte si trovano abbastanza bene da tornare, e nelle prossime settimane fra new entry e ritorni la mia voce, narrativamente parlando, non la sentirete.

È anche il motivo per cui ho creato una fanzine che riunisce il meglio della stagione appena passata, mettendo insieme artigianalmente immagini (più o meno) calzanti pescate dalle bacheche gratuite dell’Internet con i racconti che gli autori e le autrici hanno gentilmente donato alla causa della musica bella che fa la fame. Con questa siamo arrivati al numero due, dopo un numero zero di prova e un numero uno che già lasciava presagire un seguito: dentro quelle pagine io ci sono solo per fare un’introduzione pretestuosa quanto quella che state leggendo, mentre tutto lo spazio restante è ad appannaggio di Christina Nike Gagliardi, Lorenzo Del Corso, Stefano Tarquini, Iacopo Innocenti, Cristina Nori, Diego Frau, Matteo Quaglia e Lorenzo Santangeli. Potete leggere i loro racconti ai link correlati al loro nome, scoprendo qualcosa in più anche sull* artist* che hanno ispirato i loro testi, oppure scaricarvi il pdf della fanzine a questo link, che poi è il motivo per cui sto sprecando tutto questo spazio intonso: la fanzine avrà anche una vita cartacea in un numero limitato di copie (il che mi fa sentire in colpa per gli alberi che farò abbattere per la vanità di voler avere un supporto fisico a testimonianza), che potrete trovare… Da qualche parte, quando e se riuscirò a spacciarla in giro: probabilmente ne troverete qualche copia il 26 settembre al Circolo Masada di Milano, dove alle 21 avrò il piacere di dialogare con Andrea Betti a proposito del suo libro Una breve visita (ne avevamo parlato qui), per il resto vi conviene restare connessi alla pagina Facebook che trovate al link più in basso. E sì, lo so che Instagram sarebbe più funzionale, che Facebook ormai è da vecchi, ma ho anche un lavoro, a un altro profilo social non ci sto dietro e poi se faccio cose troppo funzionali al successo ricomincio a farmi le paranoie: stateci, leggete la fanzine e spacciatela nei posti belli.

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Racconto in musica 178: La figlia (The Black Heart Procession – A cry for love)

Facciamo un gioco: vediamo quanti di voi hanno cercato di comprare (o conoscono qualcun* che ci ha provato) un biglietto per la reunion degli Oasis. Aspettate, tenete ancora le mani su… Ok, ora potete abbassarle, tanto non le vedo comunque. Il ritorno insieme, a meno di sorprese, dei fratelli Gallagher è stato un grosso evento in questi giorni di fine estate nel mondo della musica, ha portato un’ondata di entusiasmo e di gente disposta a fare come il famoso meme con Fry di Futurama che allunga i soldi e urla “Shut up and take my money”. Io invece, immune al fenomeno non per ragioni anagrafiche (ci ero dentro in pieno) ma perché un sacco di canzoni loro non le sopportavo (Don’t look back in anger su tutte), mi sono chiesto “quanto faranno pagare le birre gli strozzini che gestiscono l’organizzazione?”

Ok, lo conoscete, ma sono un fan di Futurama e dovevo metterlo per forza

Non so se il sistema concerti gode di buona salute, ma io sono dell’idea che dovrebbe scoppiare. Almeno in Italia, per piccoli (neanche così piccoli) dettagli che ti fanno capire che per i promoter sei solo una mucca da mungere e all* artist*, probabilmente scornati dal nuovo paradigma “meno dischi più stream”, interessa troppo poco (più probabilmente niente) che un fan con qualche problema economico fatichi a prendersi una birra senza sentire un fastidio nella zona del deretano (senza toccare il tasto “prezzi dei concerti”, che se no ci tocca rimpiangere ancora di più i Fugazi). Sono stato a un concerto dei Dropkick Murphys al Carroponte, e l’inculata di pagare sei euro una Poretti da 40 cl. è stata mitigata solo dal fatto che pagavi oro anche il cibo; certo avrei potuto portarmi un panino da casa, sempre che me lo lasciassero passare ai controlli e non facessero come a un’amica, al Metal Park in provincia di Vicenza, che si è vista buttare via del cibo che le serviva avendo un regime alimentare particolare e, in nome del fatto che la gente deve spendere (vogliamo aprire il discorso token? Se siete stati a un concerto abbastanza grosso sapete di cosa sto parlando), si è sentita chiedere il certificato medico da un addetto alla sicurezza; che poi alcun* di quest* addett* li capisco, a Roma al concerto di Fabi-Silvestri-Gazzè mi davano l’impressione di essere volontar* sfruttat* perché sapete, con il CIRCO MASSIMO pieno e i banchetti che la birra la vendevano a OTTO EURO (ma da 50 cl!) c’era bisogno di recuperare soldi da qualche parte… L* capisco, insomma, se erano un po’ distratt* e non si sono accort* della mia borraccia o di quei contenitori pieni di birre che venivano vendute all’interno di straforo mentre ti eri visto rompere le palle (o le ovaie) per il tappo della tua bottiglietta d’acqua.

Ma perché tutto questo sfogo? Un po’ perché ci volevo fare un articolo su questo sistema di sfruttamento di massa da cui cerco di tenermi il più possibile lontano (viva il Magnolia, che almeno tiene prezzi umani, non dico popolari ma umani, quando già i biglietti costano un occhio della testa), un po’ perché mi è venuto automatico il gancio agli Oasis pensando ai The Black Heart Procession, ovvero la resident band della settimana.

A permettermi di parlare di loro è il gradito ritorno di Alessandro Busi. Ottimo scrittore di racconti e grande appassionato di musica, Alessandro ci aveva donato un suo testo poco più di due anni fa (lo trovate qui, insieme ai link ai suoi numerosi contributi alle altre riviste letterarie): nel frattempo non se n’è stato con le mani in mano, e dopo aver esordito col romanzo Fino all’inizio ha pubblicato con piédimosca anche una microfinzione nell’antologia Multiperso e scritto un testo per L’ora senza ombre, antologia curata dalla rivista In allarmata radura che Pidgin pubblicherà il 3 ottobre. Oltre a segnalarvi il suo blog Come un cane sulla luna ci teniamo a evidenziare anche un progetto che l’ultima volta ci era sfuggito, relativo a un evento storico che in questo periodo torna sempre all’attenzione: Doveromentrecadevano, un blog in cui Alessandro ha raccolto per pochi mesi del 2021 brevi testimonianze sulla domanda che tutti si fanno pensando all’11 settembre 2001.

Ma che c’entrano i The Black Heart Procession con gli Oasis? A livello geografico niente, perché i fratelli Gallagher stanno a Manchester mentre Pall A. Jenkins (voce, chitarra e sega elettrica) e Tobias Nathaniel, il cuore pulsante della band, sono di San Diego, e a livello musicale nemmeno visto che, lungi dal fare brit-pop, i TBHP (va bene se uso l’acronimo?) mischiano cantautorato folk e blues con l’indie lo-fi in una miscela cupa e polverosa. Entrambi i gruppi però sono stati soggetti a reunion, e la band di Jenkins e Nathaniel è un caso piuttosto particolare di band che si riforma senza più pubblicare dischi (cosa che penso li accomunerà ancora di più agli Oasis): funziona così dal 2016, ma la storia parte più da lontano.

Già membri dei Three Mile Pilot, i due membri fondatori dei TBHP se ne allontanano nel 1997 per concentrarsi su un side project che abbia qualcosa di diverso da dire rispetto all’indie rock del gruppo che lo stesso Jenkins ha contribuito a formare (e nel quale entrambi riconfluiranno nel 2010, ad anni dallo scioglimento, per creare il quarto album The inevitable past is the future forgotten). Lo trovano nella tradizione più oscura della musica statunitense, scarnificando e incupendo il loro suono e uscendo, dopo aver assoldato Mario Rubalcaba alla batteria, col primo disco chiamato semplicemente 1 già l’anno successivo alla formazione, pubblicato dalla Headhunter che già era etichetta dei Three Mile Pilot. Da qui inizia un percorso musicale che si estende fino al 2013 (ma l’ultimo parto creativo, l’EP Blood bunny/black rabbit, esce nel 2010 per Temporary Residence Limited) e che sarei ipocrita a narrarvi con dovizia di particolari estrapolati da wikipedia o altrove (ma vi consiglio caldamente, se volete saperne di più, questa intervista pre-scioglimento e successiva reunion firmata da Michele Minnini e Claudio Fabretti di Ondarock, che fa anche un recap quasi completo della loro storia), avendoli conosciuti da poco anche io e solo grazie ad Alessandro. Posso però provare a spiegarvi quello che c’è nella loro musica, il dolore evocato dalla voce di Jenkins in brani spettrali come When we reach the hill (2, considerato il loro capolavoro, edito nel 1999 dalla Touch & Go come i successivi tre dischi), la delicatezza disperata del piano di Nathaniel in I know your ways (Three), il tentativo di allargare gli orizzonti geografico-musicali al mondo latino con il quarto disco Amore del tropico, ben evidenziato dalla semi title track Tropics of love, senza dimenticare per strada la tensione noir del proprio sound (fantastica da questo punto di vista l’incalzante Sympathy crime), gli sprazzi di luce che, complici arrangiamenti più elaborati, si aprono qua e là negli ultimi due dischi (The spell, 2006, e Six, uscito per Temporary Residence nel 2009), tutto unito dal fil rouge di un brano, The waiter, che i TBHP modulano in cinque diverse iterazioni nel corso degli anni urlando “suca” ai Metallica e alle loro varie The unforgiven. Cambia molto e cambia poco nei sedici anni di attività discografica della band di San Diego, forse un po’ lo sguardo che negli ultimi dischi sembra più guardare alle storie narrate con disincanto piuttosto che lacerante partecipazione emotiva, ma le sensazioni che la loro musica sa evocare restano forti in ogni album (non aspettatevi, da queste descrizioni, una musica depressiva, ma se volete buttarvi dal quarto piano non ve li consiglierei come colonna sonora adatta a dissuadervi dal farlo). I fan che dal 2016, anno della reunion, continuano a seguirli in concerto lo sanno bene, e chissà che in futuro non decidano di rientrare anche in studio: intanto gli si vuole bene anche solo perché si sono esibiti di recente in Italia in contesti come Libera la festa, un piccolo festival dove hanno suonato un sacco di amici di Tremila Battute, il cibo aveva prezzi onesti e la birra, venduta a cinque euro, era buona e artigianale e non la cazzo di Tuborg per cui dovevo svenarmi al Circo Massimo accompagnandola se volevo con patatine confezionate o hot dog e basta (ok, scusate, la smetto di lamentarmi).

Per il suo racconto Alessandro ha preso spunto da A cry for love, undicesima traccia di Amore del tropico. Fra piano, chitarra, archi e batteria minimale la voce di Jenkins parla di ciò che dovrebbe essere l’amore e che, per lui e la persona a cui si rivolge, non è: le complicazioni di questo sentimento emergono anche nel rapporto fra Annarosa e Lucia, madre e figlia unite dal legame di sangue e da una tragedia che cambia forse definitivamente le loro vite. Potete addentrarvi in questa vicenda, ben delineata da Alessandro nel pur breve spazio concesso dal limite di battute, subito dopo il brano che l’ha ispirata: a me non resta che tornare ad augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero l* artist* accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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La figlia, di Alessandro Busi

«Paura più che altro.»
«Cosa?»
«Prima, a cena. Mi avevi chiesto perché ti voglio qui.»
«Sei in vena di complimenti.»

Annarosa era il nome di sua madre e di sua figlia. Lucia era stata messa al mondo dalla prima e aveva messo al mondo la seconda.
Un ritmo sicuro nel tempo della vita, ma quel tempo ha talmente tanto da fare. Facile che si confonda. Così era successo che andasse fuori fase e facesse morire la Annarosa bambina di due mesi, invece della donna di cinquantadue anni.
Lucia non sarebbe più riuscita a chiamare la madre con il suo nome.

«Ti sei offesa?»
«Figurati.»
«Allora dormiamo insieme anche domani?»
«A dio piacendo.»

Lucia era stata un’adolescente e poi una donna in carne, secondo i parametri della sua epoca – Jennifer Aniston e Courtney Cox, per dirne due.
La madre incolpava le ore buttate a guardare i telefilm scemi. «Mia figlia – commentava fra sé mentre puliva in bagno – non ne vuole sapere di crescere.»
Eppure Lucia rimase incinta, a ventiquattro anni, come succede alle donne che cresciute lo sono. Annarosa si trasferì da lei per aiutarla con le faccende di casa. Le raccomandava di riposarsi e le chiedeva: «Vuoi che metta il dvd di quel telefilm che ti piaceva? Quello dei ragazzi al bar.»
A Lucia i mesi della gravidanza sembrarono un regalo che non meritava.
Sei la benvenuta nel vero mondo! – diceva la televisione – Fa schifo e te ne innamorerai.

«Mamma.»
«Sono qui.»
«Ti dà fastidio se piango?»
«Basta che non singhiozzi.»
«E se mi scappa?»
«Se controlli gli sfinteri per non fartela nei pantaloni, potrai ben controllare le lacrime.»
«Ma…»
«Non ne posso più dei tuoi ma. Annarosa è morta diciassette anni fa; un mondo. Non c’era la guerra, non c’erano le mascherine, i cuochi erano degli sfigati.»
L’anziana alzò le coperte e, in barba ai suoi sessantanove anni e alla sua corporatura mingherlina, rotolò sul corpo della figlia. Le appiccicò le mani in faccia. Premeva con i palmi quelle guance gonfie di inedia.
«Dillo.»
Lucia borbottava, la lingua con la punta di fuori, spremuta fra i denti e le labbra.
«Dai.»
Era ancora la sua bambina da educare, quella che si era fatta ingravidare dal primo che passava, appena lei si era fidata che fosse grande abbastanza da non doverla controllare.
«Da brava.»
Non aveva neanche saputo darle una nipotina sana, né era stata capace di guarirla.
«An.»
«Mmmm.»
Al telegiornale corsie d’ospedale, auto fumanti, animali mutilati, uomini in doppiopetto, padelle.
«Ripeti: An.»
«On.»
«Na.»
«No.»
«Ro.»
Schiacciò più forte.
Lucia non ripeté, ma disse «Sa» e spinse via la madre.
Annarosa si ritrovò sbalzata su bordo del letto, seduta. Si alzò e spense la televisione. Rimboccò le coperte per entrambe. Spense la luce.
Lucia soffiava il naso, ma si capiva che era ancora pieno.
«Mamma.»
«Dimmi.»
«Sono anche contenta che sei qui.»
La madre le mise sotto le narici un fazzoletto dal profumo balsamico. «Dai, su», disse, prima di sentire le dita che si scaldavano del muco di sua figlia.

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Il dolce far niente: Palazzina Laf

Questa estate è stata parecchio complicata a Tremila Battute a livello famigliare, il che ha significato una cessazione delle comunicazioni più lunga del previsto. In mezzo a questo periodo non esattamente fra i migliori della mia vita sono riuscito comunque, giusto per confermare l’adagio vintageviolenciano “agosto come fine esistenziale”, a fare un viaggio all’estero, per la precisione in Andalusia. Potrei parlarvi delle sue città, delle sue spiagge (su cui in realtà non ho mai messo piede, io e la mia compagna siamo riuscit* nell’impresa di non gettarci mai in mare in una regione conosciuta anche, se non principalmente, per il mare), della birra fresca e del tinto de verano buttati giù per ammazzare la calura. E invece vi racconto (brevemente, non siamo ancora un sito di viaggi) delle Badlands de Purullena.

Una piccola anteprima di ciò che vi troverete di fronte arrivando al mirador che permette di goderne il paesaggio è in alto a sinistra, incastonata nel solito patchwork che vuole essere l’immagine di copertina dell’articolo. Siamo in una zona dall’aspetto desertico-roccioso, a un’oretta scarsa di macchina a est di Granada, dove chiunque sogna di andare nei grandi parchi del sud ovest degli Stati Uniti può trovare una valida alternativa a basso costo (cercate immagini di Los Coloraos e capirete). Nel pieno dell’esperienza mistica di ritrovarci quasi da soli ad ammirare questo spettacolo millenario di erosione, io e la mia compagna abbiamo visto arrivare una piccola jeep della guardia forestale (o suo equivalente spagnolo), il cui occupante è sceso e si è installato nella torre che potete vedere, molto in piccolo, sempre nell’immagine in alto a sinistra. Ci è rimasto fino a quando ce ne siamo andat*, una mezz’oretta abbondante più tardi, tempo utile a invidiarlo per il suo lavoro. Ho pensato a quanto avrei potuto leggere, installato lì sopra, con il panorama delle Badlands davanti agli occhi invece dei tetti delle aziende vicine che vedo dal capannone industriale in cui sono impiegato (e siamo già fortunati ad avere delle finestre); ho pensato alla strada per arrivare fino a lì, cinquanta minuti di panorama collinare-montuoso-desertico con traffico azzerato invece dell’oretta scarsa fra Milano e Novara tutta piatta movimentata, si fa per dire, dalle code alle rotonde; ho pensato alla sensazione di fare qualcosa di utile, partecipando alla protezione di una zona incontaminata, invece di produrre bottoni che vanno su abiti di alta moda o divise delle forze dell’ordine.

Ma anche sulle divise storiche conservate al Castillo de Gibralfaro di Malaga!

Ammetto però che il mio primo pensiero, guardando quella torre e la guardia forestale al suo interno, è stato “che bello essere pagati per non fare un cazzo”. E subito dopo ho pensato a Palazzina Laf.

Palazzina Laf è un film del 2023 che io ho recuperato, con molto ritardo e sprezzo del pericolo nei confronti delle zanzare milanesi, al cinema all’aperto vicino a casa mia. Tratto dal libro Fumo sulla città di Alessandro Leogrande, scrittore e giornalista prematuramente scomparso nel 2017 a cui il film è dedicato, si inserisce nell’ampio filone delle pellicole di denuncia delle condizioni lavorative in determinati ambienti, nel caso specifico alla tristemente famosa ILVA di Taranto: più nello specifico si addentra nella vicenda legata alla palazzina Laf del titolo, un luogo dove fra la metà e la fine degli anni 90 venivano segregat* l* dipendent* “scomodi” che impugnavano il licenziamento o rifiutavano il demansionamento al rango di operai e operaie, pratica oltre che illegale anche pericolosa visto che il personale non era formato per quel tipo di lavoro. L’abilità di Michele Riondino, attore qui al suo esordio alla regia, è di trasportarci in questa vicenda non attraverso una delle vittime ma tramite una figura ibrida e controversa, quella di Caterino Lamanna.

Lamanna abita in una masseria in disuso dispersa nel nulla, dove gli animali muoiono da un giorno all’altro a causa dell’aria inquinata dal vicino polo siderurgico in cui lavora come addetto alla manutenzione degli altoforni. Ha ottimi motivi per avercela con il mondo, e in effetti è con un suo sfogo che inizia il film, subito dopo averci mostrato un funerale a cui partecipa anche, fra sguardi non esattamente benevoli, una figura allo stesso tempo distinta e viscida, ovvero il dirigente Giancarlo Basile (Elio Germano). All’uscita dalla chiesa Basile intercetta Lamanna in un bar, ascolta le sue parole piene di rabbia non verso la sua situazione, non verso il lavoro di merda che è costretto a fare per tirare avanti, bensì verso colleghi e colleghe che scioperano contro le politiche messe in campo dall’ILVA, e intravede un’opportunità.

La faccia di merda di chi ha intravisto l’opportunità di metterlo in culo a tutt*

Nei giorni successivi Basile riesce con poco (vaghe promesse e una panda mezza scassata) a conquistare la fiducia di Lamanna, convincendolo a diventare i suoi occhi e le sue orecchie fra le proteste che stanno montando in azienda, alimentate soprattutto dal complicato lavoro dei sindacalisti interni Aldo Romanazzi (Michele Sinisi) e Renato Morra (Fulvio Pepe). Parafrasando il modo in cui il Lebowski ricco si rivolge al Drugo nel film dei fratelli Coen, Lamanna si dimostra incapace di svolgere in maniera efficace un compito in sé abbastanza semplice: dovrebbe mantenere un basso profilo, invece prima (suo malgrado) finisce in mezzo alla carica delle forze dell’ordine contro i manifestanti, poi si intrufola in una palazzina in disuso dove ha visto entrare alcuni dipendenti fra cui Romanazzi, aggirando con modi da teppistello il carabiniere a guardia dell’edificio. È così che si trova di fronte alla condizione dell* diseredat* dell’azienda, l* confinat* nella palazzina LAF (acronimo di laminatoio a freddo, la vecchia destinazione d’uso del complesso), dipendenti costrett* a passare le loro giornate giocando a pallone nei corridoi, a ping pong con faldoni al posto delle racchette, pregando insieme o semplicemente guardando il muro in attesa dello scadere della giornata lavorativa.

E a Lamanna tutto quello piace. Lui, costretto a respirare merda attaccato agli altoforni, non vede la disperazione che regna nella palazzina ma solo un branco di fortunat* pagat* per non fare niente, tanto da lamentarsene con un Basile a cui non pare vero di ritrovarsi fra le mani il jolly quando già temeva di aver pescato dal mazzo la carta sbagliata: in men che non si dica anche Lamanna viene trasferito, orgoglioso della sua opportunità di non dover fare niente per tutto il giorno e pronto a fare la spia ancora più dall’interno.

Quando pensi di essere il più furbo di tutti, e invece

Da qui in avanti Lamanna ha modo, lentamente, di capire le ragioni per cui la LAF viene considerata un lager e non un paradiso, fra persone che rifiutano l’idea di venire sminuita la propria professionalità e altre che capiscono, anche a causa di problemi fisici, che quella è semplicemente l’anticamera del licenziamento, tutte comunque al limite della sopportazione perché potrà anche essere bello non fare niente per qualche giorno ma c’è anche chi, citando invece in questo caso un vecchio film di Nicoletta Braschi, trova piacere nel lavorare (ed è quasi disposto ad accettare le proposte al ribasso di Basile quando questi, con faccia di merda inimmaginabile, si presenta nell’edificio cercando di minare l’unione dell* dipendent*). Riondino, coraggioso nello scegliersi il complicato ruolo del protagonista, vaga per le stanze e i corridoi della palazzina con sguardo ottuso e raramente complice, una vicinanza che sembra farsi più stretta quando anche Rosalba Liaci (Marina Limosani), la segretaria di Basile, entra a far parte del gruppo, ma nonostante l’empatia che inizia a sentire per lei e l* altr* confinati come un novello Giuda (similitudine evidenziata da una scena onirica ambientata in una processione, telefonata ma comunque d’impatto) continua comunque a remare contro, svolgere il suo ruolo di delatore mettendo davanti a tutto la sua felicità, identificata in qualche soldo in più e il trasferimento con la futura moglie nella casa di un parente che si è allontanato da Taranto per la tossicità dell’aria causata dal vicino polo siderurgico.

Pur non mancando di scene piazzate apposta per suscitare empatia (penso in particolare al momento in cui il dipendente interpretato da Giordano Agrusta esce dal suo arcigno mutismo per dettare un comunicato da consegnare a un Monsignore che verrà a celebrare messa in azienda), Palazzina Laf riesce ad essere efficace, soprattutto in un periodo storico come questo, perché mette al centro dell’esperienza il punto di vista di un individualista, un uomo piccolo che si crede grande, stretto fra una mansione insalubre fisicamente e una insalubre psicologicamente, il cui interesse principale è rivolto a sé stesso. Non vi tolgo nessuna sorpresa dicendovi che la vicenda dell* confinat* ha una specie di lieto fine (ben diverso e molto più complicato il discorso sull’ILVA in toto), perché oltre alla comprensibile (e ben veicolata) vicinanza per l* protagonist* è il percorso di Lamanna a coinvolgere, quel punto di domanda che si accende a volte nel suo sguardo e che fino alla fine non si capisce se lo porterà ad una rivalsa o se è semplicemente lo sguardo vuoto di chi non capisce il mondo che lo circonda: Riondino si è giustamente guadagnato un David di Donatello per questa interpretazione (oltre alla candidature come miglior regista esordiente e per la sceneggiatura che, orfana di Leogrande, è stata scritta a quattro mani da lui e Maurizio Braucci), come giustamente se lo è portato a casa Elio Germano, talmente viscido ed efficace da farti venire voglia di prenderlo a schiaffi ogni volta che entra in scena.

“Quindi hai il coraggio di dirmi che stavo meglio prima?”

E così, di fronte a uno spettacolo naturale incredibile nel centro dell’Andalusia, Riondino mi ha fatto rimettere in discussione l’idea di trasferirmi seduta stante a Granada per cercare di ottenere un lavoro potenzialmente assassino dal punto di vista psicologico (e per cui non ero comunque chiaramente formato). Il mio presente resta quello di operaio metalmeccanico, in questo preciso momento costretto a una giornata di ferie a causa del calo di lavoro che domani mi farà firmare, in qualità di rappresentante sindacale, la cassa integrazione per le prossime cinque settimane: c’è di peggio, almeno non rischio di essere confinato nel capannone in disuso di fianco a quello in cui lavoro.

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Racconto in musica 177: Il rito (Daniela Pes – Carme)

“È necessario che tutti gli schizzi si evolvano in un quadro? Si deve comporre una sinfonia per ogni tema?” Queste domande vengono poste nel libro Cristalli sognanti di Theodore Sturgeon (consigliatissimo), e nel corso degli anni mi hanno portato a fare varie riflessioni. Ho la tendenza a essere piuttosto puntiglioso e completista, a seguire regole autofissate anche se poi, avendole fissate io e non avendo questo terribile impatto sul mondo (per dirla in maniera più terra terra: non gliene frega niente a nessuno) potrei tranquillamente trasgredire. Contando che questo blog si basa però su un delicato equilibrio fra voglia di parlarvi di cose che ritengo interessanti, condivisione di bella musica, interesse ad ospitare autor* emergenti (e non) e la sacrosanta voglia di stendermi sul divano a leggere, guardare un film o dormire dopo uno spritz assassino (il ghiaccio per me annacqua e basta, uccidetemi pure barman di tutto il mondo), so che se trasgredisco troppo quell’equilibrio potrebbe spezzarsi. Questa settimana invece lo schizzo non si evolve in un quadro, il tema non andrà a comporre una sinfonia, non farò il mio lunghissimo sproloquio sulla carriera dell’artista in questione (forse avrei potuto evitare anche questo preambolo? Scusate, sono logorroico su carta/schermata) perché l’artista in questione, ovvero Daniela Pes, l’abbiamo già ampiamente introdotta pochi mesi fa (precisamente qui): non amo ripetermi ma vuoi dire di no a Franco Santucci, che Spira l’ha consumato di ascolti, nel momento in cui mi ha proposto un racconto ispirato a una sua canzone?

Franco ho avuto la fortuna di conoscerlo di persona, essendo come me milanese d’adozione, ed è un piacere doppio poterlo ospitare su queste pagine. Per lui l’unica biografia possibile risiede in una poesia di Pessoa (“Ci sono solo due date – quella della mia nascita e quella della mia morte. Tutti i giorni fra l’una e l’altra sono miei.”), quindi qualsiasi informazione sulla sua vita potrebbe non essere corretta. Qualcuno col suo stesso nome (un omonimo eteronimo?) ha pubblicato con Wojtek Edizioni una raccolta di racconti dal titolo Bestiario del sogno e altri racconti sparsi su CrapulaClub e Fillide. Si deducono probabili sue incursioni nella poesia e nella drammaturgia teatrale, mentre sembra appurata la sua passione per la musica e soprattutto per il Progressive. Apprezza la brevità e la sintesi, quindi difficilmente sapremo altro.

Che dire d’altro invece di Pes, che già non sia stato detto altrove e meglio? Concentriamoci allora sulla musica, e sul brano specifico scelto da Franco per il suo racconto: Carme, terza traccia del suo disco d’esordio, è caratterizzata da un lento perpetuarsi di ipnotica liquidità elettronica su cui poggia la voce piena di enfasi drammatica di Pes, un intrico di idiomi che nel finale lasciano spazio all’ascendere esoterico dei synth. Franco, abile tessitore di suggestioni oniriche e di correlazioni sinestetiche, è riuscito a condensare in una storia dai contorni sfumati ciò che le note e la voce suggeriscono, ambientandola su una spiaggia deserta prima della tempesta mentre una donna si appresta a compiere un rituale dagli scopi sconosciuti, osservata da una figura misteriosa a lei correlata da un reciproco bisogno di salvezza: potete lasciarvi trascinare in questa ambientazione dai tratti esoterici scendendo un poco più in basso, subito dopo il brano da cui si è originata, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Il rito, di Franco Santucci

Solo se hai paura i fulmini ti colpiranno: lo sussurravo, bisbigliavo, cantilenavo, fino a proferirlo con voce sostenuta. Lei non sentiva, avanzava sulla riva, vestiti neri come lo struggimento delle nuvole, piedi nudi e scarpe abbandonate tra l’asfalto sollevato e la sabbia.

Il vento, carico di pioggia, era tutto nei suoi capelli lunghi, segnali elettrici in movimento. Li inseguivo in una forma che lei non avrebbe potuto scorgere, così come io ignoravo se la sua natura fosse reale o, come la mia, di inseguitrice che sa per certo di essere seguita. Tra le molte donne non potevo vedere che lei: quando si è nello stesso stato si può camminare in un tempo che è spazio, e che era la spiaggia, coi suoi metri di sabbia e tuoni distanziati dal vento umido. Quell’indistinta malinconia che avanza a linee oblique era il segnale reciproco, lo stesso che mi aveva portata fino a questo luogo, mio unico ricordo o atto stesso della mia creazione.

«Solo se hai paura i fulmini ti colpiranno».

Lo ripetevo per farci forza. Ogni presenza umana si era ormai dispersa, e la costa si stava avvolgendo di scuro e presagi e voli di uccelli alla ricerca di un riparo.

Non so se lei sapesse quale fosse il rito, le miriadi di voci che mi parlano in testa sostenevano che, una volta raggiunto il punto, tutte avremmo saputo cosa fare. Ci speravo, mentre una goccia di pioggia si arrotolava morbida nella rena: non ero io. Un’altra si stava affusolando alla mia destra, raccogliendo sale e quarzo in una perlina sghemba: ero ancora salva, ancora in quella speranza indagatoria che tiene sospesa, mentre il temporale, polverizzato nelle sue innumerevoli parti, emanava tanta forza da non permettermi più di pensare.

Finché la vedevo potevo essere liberata, mi ripetevo, anche se fosse stata lei a inseguire un’altra donna e con lei la sua salvezza: si parte da un sentimento comune per forgiare un’àncora. Nel frattempo, non distante dalla battigia, venne forte il boato di un fulmine che unì cielo e spiaggia. La vidi tremare, pensare di tornare indietro, perdere quello stato di estasi. Ne ero anch’io molto scossa e temevo per la sua vita, ma raccolsi le voci:

«Solo se hai paura i fulmini ti colpiranno».

Si girò dalla mia parte, come mi avesse sentita, e pensai che se non era lei a essere viva allora era più difficile poter essere liberata. Non so bene come funzionasse il rituale, ma sentivo di doverle trasmettere quella mia specie di iridescenza: può darsi fossi io a doverla salvare e non viceversa.

Con mia gioia, lei riprese a respirare e ad avanzare nella pioggia, conscia della mia compagnia: io e lei e un’altra donna e l’altra che ci seguiva e un’altra ancora e i fulmini come colori a intermittenza, rossi, verdi, gialli, blu e suoni (mio dio i suoni!), e gocce d’acqua, in una tavolozza di nuvole e onde, quella che ci saremmo portate dentro ogni volta in cui il tempo si fosse fatto spazio e materia, prima di divenire un’unica forma, un unico rito, un unico, breve, stato d’essere.

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Racconto in musica 176: Tre fasi (Beak> – Allé sauvage)

Come molt* (presumo, non voglio fare il sociologo che non sono) lo sviluppo dei miei gusti musicali è passato per fasi assolutistiche: mi piace questo, ascolto solo questo. Non mi sono mai direzionato verso un solo genere alla volta, espandendomi anche in territori affini (grunge -> alternative rock italiano, punk -> ska), ma i territori che affini non erano li guardavo con diffidenza. Uno dei generi di cui mi sono perso così completamente l’evoluzione è il trip hop, nato quando io ascoltavo ancora le truzzate della Deejay Parade e giunto ai passaggi su Mtv quando io aspettavo ancora che passassero video dei Soundgarden, la cui intenzione sonora non era proprio la stessa. C’erano vie italiane a quel genere come i 99 Posse che non riuscivo a inquadrare (qualcosa mi piaceva, qualcosa no), passavano i Massive Attack di Banks… Ah no, scusate, comunque passavano con video iconici come quello di Karmacoma prima e Teardrop poi, che però non mi facevano venire voglia di recuperare i loro album, tant’è che non l’ho fatto ancora nemmeno oggi (va detto che allora o me lo compravo, ed era un investimento da valutare bene, o me lo facevo registrare, e all’interno delle mie cerchie scolastiche prima e amicali poi penso che nessuno avesse un disco dei Massive Attack: i gusti del me giovane si sono direzionati anche così). Poi c’era una band con una voce femminile che aveva questo suono antico, usurato, il cui primo singolo (almeno che io ricordi) condivideva la base musicale con un’altra canzone dello stesso periodo (Hell is round the corner di Tricky) e che… Mi stava sul cazzo a pelle. Non so se cambiavo addirittura canale come potevo fare che so, coi Backstreet Boys, ma di certo non smaniavo perché passassero proprio quella canzone, che era poi Glory box dei Portishead. A differenza dei concittadini Massive Attack la band di Beth Gibbons e Geoff Barrow me la sono ascoltata parecchio pochi anni fa, facendomi la classica domanda retorica “ma perché non l’ho fatto prima?”: non mi era venuto in mente però di vedere cosa stavano facendo oggi i due, visto che i Portishead non pubblicano dischi dal 2008 (Wikipedia li considera ancora in attività, sarà), e così fino a poco tempo fa mi ero perso pure i Beak>.

I Beak>, formatisi nel 2009 su spinta dello stesso Barrow con Billy Fuller (attivo nei Sensational Spece Shifters di Robert Plant) e Matt Williams (MXLX, Fairhorns), sembrano a posteriori il classico progetto/sfogo, un qualcosa di diverso con cui giocare per provare a fare qualcosa di diverso da ciò che si è fatto prima. Ovviamente questa è la mia limitata percezione, data da immagini promozionali come quella che trovate in alto e dal fatto che il primo disco, omonimo, viene registrato in soli dodici giorni in una stanza. Chiedetevi: cosa avrei combinato io in dodici giorni? Nel mio caso forse avrei finito di montare bene i microfoni (è un forse bello grosso), loro invece registrano un disco che, come già detto pochi giorni fa, viene pubblicato dalla Invada dello stesso Barrow. Nel primo disco il trio ficca dentro al calderone tastierine storte, ritmi narcotici, distorsioni granitiche, evoluzioni atmosferiche e reiterazioni vagamente ballabili di canovacci minimali, un tutto e il contrario di tutto compreso in uno steccato abbastanza ampio (se vogliamo fissarne due poli opposti forse, ma forse, possono funzionare la musica da rave al fianco del bianconiglio di I know e il bassosissimo doom marcito di Dundry Hill) in cui chitarra, basso, batteria, tastiere e synth possono giocare liberamente a ricreare un mondo sonoro a suo modo fiabesco, che delle fiabe prende però sia la componente solare che quella cupa e distorta (oserei dire anche drogata).

Che i Beak> non siano un divertissement estemporaneo (eh sì, con “divertissement estemporaneo” punto al Pulitzer) lo dimostra il fatto che tre anni dopo tornano sul luogo del delitto (non inteso come la stessa stanza, o almeno non che io sappia) e sparano fuori >>, il primo dei dischi che, a furia di frecce in avanti, ci porta velocemente e attraverso altri due album (nel 2016 la colonna sonora del film Couple in a hole di Tom Geens, che dal trailer ha esattamente il tipo di ambientazione con cui la musica dei Beak> si sposa magnificamente, e ovviamente >>> nel 2018), una galassia di Ep (l’ultimo, del 2022, è KOSMIK MUSIK), singoli, compilation e grafiche sempre più assurde ci porta al 2024 e a >>>>, il disco di cui vi abbiamo parlato pochi giorni fa. Nell’avanti veloce è stato risucchiato un cambio di formazione (nel 2016 esce Williams ed entra Will Young, già attivo nei Moon Gangs e infaustamente omonimo di un ex vincitore di un talent britannico, motivo per il quale faticherete a trovare sue informazioni sull’Internet) che non incide comunque sull’evoluzione anarchica eppure tangibile del suono dei Beak>, che in quell’immaginario bosco fatato/maledetto ci si addentrano sempre più riverberando voci, alterando i suoni, organizzandoci dentro un free party che alla luce del sole si concluderà con un sacrificio (umano? Animale? Animistico?) accompagnato da rullate tribali e distorsioni annichilenti. Con una veloce ricerca sulla pagina di Bandsintown a loro dedicata non solo non c’è notizia di un approdo a breve della band in Italia, ma scopro pure che sulla nostra penisola non ci hanno mai messo piede (correggetemi se sbaglio): sono aperto a proposte per fare una gita in Europa di Tremila Battute, così da vederceli e perderci insieme.

Allé sauvage è la quinta traccia di >>>, un brano che sembra la sigla di un programma alla Superquark: in mancanza di Piero Angela per sopraggiunti limiti di morte, e in mancanza del figlio Alberto per mancanza di budget, facendoci ispirare dalla musica dei Beak> ci siamo affidati alla buonanima dell’inesistente Joseph M. Füllkrug per stilare le tre fasi evolutive del Kromenu, animale dalle caratteristiche peculiari estrapolate da fonti perlomeno discutibili. Quali siano queste caratteristiche e a quali fonti abbia attinto l’esimio studioso potete scoprirlo più in basso, subito dopo la canzone che ci ha suggerito questo delirio: buon ascolto e buona lettura.

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Tre fasi

Nella sua vita, o meglio nel suo ciclo esistenziale, il Kromenu attraversa tre distinte fasi, Il primo a stabilirne la sequenzialità fu Joseph M. Füllkrug, ricercatore all’epoca ottuagenario talvolta erroneamente confuso con un calciatore dal talento divisivo. In un testo accademico del 1999 Füllkrug divide il cammino verso la perfezione (il ricercatore non utilizza mai la parola “perfezione”, frutto delle elucubrazioni mentali dell’autore del presente articolo ndr) del Kromenu nelle seguenti fasi.

  1. Vita edenica. Il Kromenu nasce e cresce all’interno di una struttura sociale volta sia a proteggerlo che a sviluppare le sue potenzialità. Il giovane Kromenu assapora le possibilità che la vita offre, ma allo stesso tempo viene frenato nelle sua velleità da un invisibile codice morale che ne direziona le scelte. Il Bene è preponderante nella società che avviluppa i giovani Kromenu, ma al di fuori della cerchia ristretta che li educa si avvertono distorsioni nascoste sotto la sabbia. Il Kromenu nella sua fase edenica vive e muore senza conoscere altro che ciò che è giusto, sviluppa il suo potenziale solo entro i limiti di quel che è definito lecito.
  2. Vita depravata. (La denominazione di questa fase non è ascrivibile al testo fondante di Füllkrug, che anzi si scagliò contro questa scelta lessicale poco prima di venire misteriosamente investito da un’automobile guidata da pagliacci ndr). Il Kromenu vissuto nella cosiddetta bambagia (termine più vicino alle scelte lessicali atipiche di Füllkrug ndr) muore e viene sepolto in territorio appositamente sconsacrato: da qui nasce a nuova vita, distorto negli intenti e nella morale, adeguando il suo stile di vita a pratiche quali il cannibalismo e la violenza immotivata. Alcuni studiosi hanno associato questa pratica a uno sviluppo non conforme del cervello rispetto alla scatola cranica, ma Füllkrug dissente e porta come prove nel suo iconico testo alcuni pittogrammi sbiaditi in una caverna in Alsazia e il video mosso di un noto alcolista svizzero. Alla fine del suo percorso di amoralità, sostiene Füllkrug il Kromenu rimuore e ascende allo stesso tempo.
  3. Vita ascetica. Il Kromenu torna a nuova vita memore dei suoi eccessi in ogni direzione consentita. Sa distinguere il bene dal male, e agisce di conseguenza. I Kromenu arrivati alla terza fase, secondo Füllkrug, conoscono l’equilibrio e le sue molte facce, sanno che non esiste una scelta giusta e una sbagliata e agiscono consapevoli di questa dicotomia. Sono i difensori della comunità, coloro che permettono ai giovani Kromenu di distinguersi e di vivere in un eden fatato; sono gli infiltrati, coloro che permettono alle razzie dei Kromenu resuscitati la prima volta di compiersi; sono ciò che permette alla società dei Kromenu di perpetuarsi ed essere sempre tesa verso un ideale.

Né Füllkrug né gli altri studiosi interessati alla questione hanno mai spiegato quale fase attraversino i Kromenu sacrificati alla foga estatica dei Kromenu della seconda evoluzione.

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Se non sai cos’è allora è weird: >>>> dei Beak>

Scrivere di musica è come ballare di architettura, diceva qualcuno il cui nome ora non è importante andare a cercare su Google (davvero, potete farlo dopo. Non fatelo. Vi ho visto!), scrivere di musica senza avere il giusto bagaglio di conoscenze è come ballare di architettura senza avere né il senso del ritmo né la minima conoscenza di cosa sia un edificio. Ho già confessato più volte la mia scarsa conoscenza della strumentazione utilizzata da chi fa musica elettronica (ma torno comunque sul luogo del delitto, come se bastasse dire “non posso smettere” per non farsi incarcerare dopo aver rapinato la ventesima banca), ma la verità è che ho una scarsa conoscenza di tutto (o quasi) ciò che esula dall’armamentario rock classico. Che suono fa un oboe? Fatemelo ascoltare, aspettate due giorni, suonatelo mentre io non vedo e probabilmente vi chiederò che strumento è. A livello sonoro so cosa mi piace, so cosa non mi piace, ma la mia memoria di ciò che sento solamente poche volte è più simile a quello della pesciolina Dory che a quella eidetica: so anche però che quando non capisco qualcosa mi sale la curiosità.

I Beak> li ho scoperti per caso tramite Spotify, in una delle playlist ad hoc che l’algoritmo crea pensando di intercettare i miei gusti mentre io, rebel without a cause, faccio di tutto per impedirgli di capire quali siano. Con questa canzone però ci avevano azzeccato in Svezia, perché la prima traccia di >>>, il disco precedente del trio di Bristol (Billy Fuller, Matt Williams e l’ex Portishead Geoff Barrow, sotto la cui etichetta Invada escono tutti i loro dischi), aveva sia una certa potenza trattenuta che un andamento sghembo e imprevedibile: il primo incontro mi ha portato a flirtare un po’ con quel disco, ascoltato un paio di volte prima di accorgermi che qualcosa era scattato ma non il classico colpo di fulmine, poi io e i Beak> ci siamo lasciati da buoni amici e ci siamo detti alla prossima, che è la classica cosa che dici quando pensi che non vi rivedrete mai. Infatti non ci siamo rivisti, almeno fino a quando non è uscito >>>>.

Non ho seguito tutta la carriera del trio di Bristol, ma ad un ascolto distratto dei precedenti album la loro carriera mi pare la continua affinazione di un sound che frulla dentro il rock della tradizione più lisergica e una componente elettronica a suo modo hauntologica, figlia del presente ma ancorata all’illusione di un passato edenico o di un retrofuturo irrealizzato, più un tot di altre cose che vanno dal post punk alle colonne sonore degli anni 70. >>>> è il punto esatto in cui tutte queste influenze arrivano alla loro amalgama migliore, ridefinendosi in maniera apparentemente caotica nella forma di nove brani fra cui non troverete un solo doppione ma la sensazione, quella sì vivissima, di trovarvi in un posto che non pensavate di voler raggiungere ma che, una volta passatoci un po’ di tempo, rivela la magia dietro al brivido che continua imperterrito a corrervi lungo il collo.

Non ci tengono a gettarci velocemente nel loro mondo i Beak>, anzi lo fanno con tutta la calma del mondo. In un disco dove i brani durano mediamente oltre cinque minuti Strawberry line ci accoglie con un organo ecclesiastico che per metà degli otto minuti del percorso sonoro predica nel deserto con la sola flebile voce di Barrow a fargli compagnia: poi entrano basso e batteria dal sapore vintage e solo tastiere e synth nel finale ci ricordano che non siamo negli anni 60 ma nel loro riflesso distorto, una parodia si direbbe se non fosse che qui c’è amore per la fonte e non il semplice scimmiottamento di qualcuno che la utilizza solo per fare tutt’altro. Se la Summer of love non ti è entrata un po’ dentro, tanto nel cuore quanto nel cervello, non ti esce il bucolico viaggio introspettivo di Hungry are we, un brano che avrebbero potuto benissimo suonare a Woodstock con la gente davanti beatamente seduta nella posizione del loto senza che nessuno si accorgesse del loro provenire da un’altra epoca se non quando sul finale si lasciano andare a un ritmo più concitato. La cosa strana è che brani simili, già distanti parecchio l’uno dall’altro, si amalgamano perfettamente all’interno del costrutto sonoro architettato (ma non ballato) dal trio, che spande quella bizzarra atmosfera atemporale su tutto e fa sembrare ovvie le derive più imprevedibili, solo non abbastanza da non riuscire a stupirci ogni volta.

Ma vogliamo parlare di questa cover? Vogliamo parlare di quanto è fuori questa cover?

Perché poi non finisce qui eh? Mentre ci trasportano in un mondo malinconicamente fatato i Beak> non si dimenticano della componente weird che ho messo nel titolo dell’articolo, e basta andare a Windmill Hill per fare il pieno di inquietudine, ritrovandosi nella colonna sonora di un film horror drogato fino alla punta dei capelli (e di colonne sonore Barrow se ne intende, andate a vedervi i film in cui ha lavorato). I suoni della terza traccia hanno una grezzaggine allucinata che grattugia il già labile confine con la realtà, fra le fuzzate del basso, gli accordi obliqui della chitarra e un maelstrom di suoni elettronici che provengono da un’altra dimensione, forse quella da dove la voce riverberata salmodia acuta per poi acquietarsi e farsi narcotica nella seguente Denim, un lento viaggio iniziatico dove le storture sono appannaggio dei synth e di qualche sporadico accordo ubriaco ma la furia, una delle poche volte che si scatena, è tutta distorta e vicina allo sludge, il che non è niente male per un pezzo iniziato nella parte più in ombra del bosco fatato.

Ho parlato a inizio articolo della mia difficoltà a riconoscere gli elementi sonori in un disco: ho parzialmente mentito. Il motivo della premessa ha a che fare col fascino che >>>> ha su di me, la sua capacità di variare all’interno di un’atmosfera sonora stabilita e rispettata con la coerenza di chi ha raggiunto la stabilità. L’ultimo disco dei Beak> non prevede l’utilizzo di mille strumenti ma quello accorto e spesso spiazzante degli stessi, un riutilizzo creativo che passa anche solo per la capacità di ottenere il massimo risultato dal minimo cambiamento, evidenziandolo con la lente d’ingrandimento in modo da farlo diventare l’elemento preponderante, Prendiamo il basso di Fuller, timido e pronto a farsi tappeto in alcuni punti per poi esplodere rimbombante a metà di Bloody miles, lo scontro che non sapevate di volere fra l’esoterismo dei Boards of Canada e la bucolicità tutta tastierosa di un film di Miyazaki, o ad unirsi ad una batteria da Love Parade nel post-punk ipnotico e acido di Secrets (parentesi sinestetica: Secrets è verde acido, chiudete gli occhi e vedrete tutto verde acido coi miei occhi); prendiamo la batteria stessa, che coadiuvata dalle percussioni in Ah yeh ci raduna attorno al fuoco a ballare spiritati ed estatici; prendiamo la voce, che invece resta sempre dimessa e tranquilla, una guida della normalità in un mondo sonoro che fa solo finta di essere normale.

La chiusura con Cellophane arriva a giustificare le influenze stoner che wikipedia attribuisce al trio, ma è uno stoner di lentezza narcotica che si intrattiene in una lisergia pura come non la sentivo dall’esordio dei dimenticati Notorious Hi-Fi Killers (sentite qua) prima di virare, o meglio naufragare, verso uno scoglio di distorsioni che sembrano essere lo sfascio finale per cui abbiamo pagato il biglietto e invece no, si mangiano tutto di nuovo tastiere e synth malaticci. Nell’imprescindibile, almeno se siete appassionati di critica musicale (quella dei balli e dell’architettura), Exmachina di Valerio Mattioli l’autore parla della musica dei già citati Boards of Canada in questi termini: “Alla percezione del suono digitale preferiscono antiquate strumentazioni analogiche che sembrano ripescate dal magazzino di un radioamatore in pensione […] Trasmettono lo stesso calore più che umano di una polaroid sbiadita dal passare degli anni”: in >>>> c’è questo e molto altro, c’è l’immagine di un altrove in cui è tanto facile aspettarsi una pace estatica quanto temere di ritrovarsi invischiati in una setta dalle dubbie intenzioni, il tutto condito da una fantasia e da una lucidità invidiabili. Ascoltate l’ultimo disco dei Beak>, sprofondate e ascendete al tempo stesso nel loro mondo: noi vi promettiamo di tornare sul pezzo molto presto.

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Racconto in musica 175: L’ultimo addio (And The Bear – Last goodnight)

Mi è capitato spesso di iniziare delle nuove avventure senza quasi rendermene conto. Nel lontano 2014 (era il 2014?) partecipai a un concorso letterario e di lì a meno di un anno finii per far parte dell’associazione Asap – As Simple As Passion che lo organizzava e a ritrovarmi, per qualche anno, a smontare il salotto di casa mia per far spazio a piccoli concerti (fra cui quello di Musicaperbambini, come ho raccontato anche qui); a febbraio 2020 decisi che valeva la pena impegnare del tempo in un blog/aspirante rivista letteraria basato su racconti ispirati a canzoni del panorama musicale indipendente e vabbè, se state leggendo queste righe avete già capito dove sto andando a parare; pochi mesi dopo, curiosando online, scopro l’esistenza di un sito che ritengo molto affine a Tremila Battute e intervisto il suo creatore, ritrovandomi di lì a poco a collaborare con lui e ad entrare nella grande famiglia di Read And Play, di cui faccio parte ancora oggi. Proprio Read And Play è la causa scatenante dello sproloquio amarcord sopra esposto, perché a donare un racconto alla causa della musica bella che fa la fame oggi è Davide Morresi, ovvero colui che mi ha accolto in quella grande famiglia e che oggi ci introduce alla musica di And The Bear.

Davide è una di quelle persone che se stai a guardare tutte le cose che fa ti chiedi com’è possibile che le sue giornate siano composte da sole ventiquattro ore. Classe 1978, psicologo di formazione, nella vita si divide fra il suo lavoro nelle risorse umane e lo sviluppo di progetti culturali, musicali e letterari. La scintilla che ci ha fatto conoscere è stata questo suo racconto apparso sulla vegetante rivista Split di Pidgin Edizioni, uno dei tanti che Davide ha sparso qua e là (leggetevi en passant questo, uscito su Il Loggione Letterario) prima di passare anche dall’altra parte della barricata e curare antologie per Arcana Edizioni (Live! Racconti di vita e concerti) e Le Mezzelane Casa Editrice (Note d’inchiostro, nata dall’omonimo concorso co-organizzato con Read And Play). Instancabile divulgatore di cose belle inerenti la musica e la letteratura, Davide è anche autore radiofonico, di podcast (qui la pagina in cui potete trovarli) e di narrazioni musicali, oltre che organizzatore di eventi e rassegne musicali/teatrali/letterarie (l’anno scorso insieme agli impagabili Bagni Elsa N°3 ci ha ospitati a parlare di musica indipendente e calcio). Fra le mille cose in cui è coinvolto ci fa piacere segnalarvi, anche per le comuni radici musicali, Alive – Storia del grunge, un recital teatrale su quella che lui stesso definisce nella presentazione “l’ultima rivoluzione rock”.

Da un marchigiano DOC come Davide a un marchigiano d’adozione come Alexandre Manuel, musicista francese che fin dal 1998 è di stanza nel nostro paese. Polistrumentista attivo negli anni in svariate formazioni musicali fra art rock, shoegaze e indietronica (Hourplug, Am I Right, The Quite Collective), dal 2016 Manuel ha associato la sua musica al cinema collaborando col regista Jonathan Soverchia in veri e propri cine-concerti, musicando dal vivo i corti di quest’ultimo Poco prima del caffè (2016) e Irene (2017). Il moniker And The Bear nasce invece nel 2018, un progetto musicale che non abbandona la componente visuale (ad opera del visual artist Marco Di Battista) e che si compone di elementi digitali ed elettronici uniti all’essenza più scarna data da chitarra e voce. Per ascoltare la prima canzone, Quiet bodies, bisogna attendere il 2019, ma l’attesa è ripagata da un brano che si infila nel solco di band come i Sigur Rós e che, da tradizione ormai consolidata di commistione musical-cinematografica, è associata a un lavoro della regista Federica Biondi.

And The Bear comincia a macinare i primi live ma Manuel non si concentra solo sulla carriera solista. Con il fratello Grégoire scrive la sceneggiatura del corto The guide swap (di cui compone anche la musica) con cui i due vincono il Festival Cineconcerto 2018, con la compagnia Teatrique (in cui è compositore e attore) mette in scena lo spettacolo teatrale Motori di carta, poi vira verso la videodanza in collaborazione con la compagnia Motus Project e ottiene riconoscimenti nazionali e internazionali: con l’opera Fraintendimenti vince il Premio del Pubblico al Cinematica Festival di Ancona ed è finalista al Fifth Wall Fest nelle Filippine, partecipando a varie altre selezioni fra Germania, Canada e Stati Uniti. Nel 2020 come And The Bear vince la quattordicesima edizione dell’Homeless Fest di Macerata e, giusto per non farsi mancare niente, compone le musiche per uno spot del marchio di cosmetici londinese The wild togheter, poi decide finalmente di chiudersi in uno studio di registrazione (il Maui Garage Studio di Maurizio Sellani) per fissare su disco alcune delle composizioni che stavo già portando live. È da lì che prende forma This is the darkness I used to tape (2021, Valvolare Records), un disco in cui Manuel spazia dall’elettronica al folk, attingendo da tutta la strumentazione accumulata negli anni. Il primo album di And The Bear è vario e suggestivo, unisce il ritmo sincopato di Are you in time out there e Lost beleviers alle atmosfere minimali e riflessive di Misunderstandings, il gusto fra il post punk e i Depeche Mode di Broken words e della title track con quello più affine al folk di Fray of stone, unendo al mix musicale testi che parlano della paura nel senso più ampio possibile: “il buio che si sceglie di non guardare, l’incapacità di appropriarsi del proprio respiro, la scelta della violenza e della prepotenza sono tutti demoni che cerco di svelare con le mie parole”, per utilizzare la sua stessa presentazione sulla pagina Bandcamp.

Last goodnight è la canzone che chiude il disco con leggerezza e malinconia, un brano in cui, coadiuvato dalla voce di Elisa C., con pochi elementi riesce a tratteggiare il bisogno universale di amore che soggiace in tutt* noi. Davide ha reso un po’ più plumbea l’atmosfera della canzone, rendendo il “goodnight” un “goodbye” che la coppia protagonista del suo racconto cerca di dire definitivamente, dialogando insieme sui modi di lasciarsi alle spalle insieme una vita che sta stretta a entramb*. Potete trovare le loro riflessioni più in basso, subito dopo il brano che le ha ispirate: a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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L’ultimo addio, di Davide Morresi

Un lampo illuminò la stanza. Da otto piani più in basso il rumore di marmitte li raggiungeva attutito, abbastanza da non disturbare la musica.

Lei raggiunse la finestra e, nel momento preciso in cui girò la maniglia, arrivò il tuono. Il boato oltrepassò i doppi vetri, lei tornò veloce tra le braccia di lui. Faceva caldo, ma l’idea della pioggia le fece venire un brivido. Lui la strinse a sé e tirò su il lenzuolo.

“Voglio andarmene”.

“Lo so”.

Il vetro iniziò a graffiarsi di acqua.

“Non è qui il mio posto”.

“Nemmeno il mio”.

Un altro bagliore. Si girarono verso la finestra, quasi simultaneamente. Il tuono stavolta arrivò presto e fece tintinnare i vetri. I graffi diventarono rivoli che scendevano come in un percorso a ostacoli.

“Come ci siamo finiti qui?”.

“Era quanto potevamo permetterci”.

“Intendo qui, in questa città”.

“È lo stesso”.

La fiamma della candela tremò.

Lui si voltò a guardarla in viso.

“Dove vorresti essere?”.

“Ovunque, tranne che qui”.

“Ci andremo”.

“Diremo addio a questa città”.

“Diremo addio a tutti”.

“E con che soldi?”.

“L’addio è gratis”.

“Quello che viene dopo l’addio però no”.

“Un passo alla volta”.

“Di addii ne abbiamo già detti molti”.

“Ma erano addii di prova”.

“Esiste l’addio di prova?”

“Esistono tanti tipi di addii”.

“Quali?”

“Esistono gli addii veri e quelli falsi”.

“Come ogni cosa a questo mondo”.

“Esistono gli addii sussurrati, che non li sente nessuno e allora fanno fatica a farsi notare. Ed esistono quelli urlati, esagerati, magari esplosi in un momento di rabbia, che poi uno ci ripensa e fa finta di non averli detti”.

“E poi?”

“Poi ci sono gli addii premeditati. Quelli sono pericolosi, perché uno non dice nulla e ragiona, ragiona, e se non passa all’addio agito poi succede un casino, perché certi addii rischiano di logorarti dentro”.

“E se invece l’addio premeditato diventa addio agito?”

“Allora tutto ok”.

“Ah”.

“Ce ne sono tanti di addii. Sono infiniti gli addii”.

“I nostri erano di prova”.

“Esatto. Ora siamo pronti per passare all’addio che viene dopo”.

“Cosa viene dopo?”

“Dipende…”

“Da cosa?”

“Se gli addii di prova sono stati abbastanza o no”.

“Basta addii di prova”.

“Allora andiamocene”.

“Dove?”

“Ovunque tranne che qui”.

“E come facciamo?”.

“Diciamo l’ultimo addio”.

“E come facciamo a sapere che è l’ultimo?”.

“Non puoi saperlo. Lo sai solo dopo averlo detto. Quando lo dici non sai nemmeno che tipo di addio è. Magari tu pensi che sia un addio di prova e invece è l’ultimo. Oppure il contrario: credi di dire l’ultimo addio e invece ti rendi conto che era solo un altro addio di prova”.

“E allora?”

“Allora cosa…”

“Allora siamo sempre qui”.

“Sì, ma il prossimo sarà l’ultimo addio. Vuoi?”

“Sì”.

“Il prossimo sarà l’ultimo addio”.

“Il prossimo sarà l’ultimo addio”.

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Racconto in musica 174: Utopia domestica (Hyper Gal – Domestic Utopia)

Penso di essermi posto molte volte in questi articoli introduttivi la domanda “perché ci si innamora di un determinato disco/artista”? Non è infatti sempre motivabile con il genere che seguiamo in quel momento, con l’affetto che proviamo per un* determinat* artista, con un’estetica che ci attrae o con chissà quale altro canonico motivo per identificare ciò che ci piace o, normalmente, dovrebbe piacerci. A volte è l’inaspettato a conquistarci, quel mix di elementi che combinati insieme ci scuotono dalla nostra comfort zone e ci aprono nuove vie; a volte, ed è il caso delle Hyper Gal, è il fatto che siano la cosa più respingente e caotica con cui sono entrato in contatto da un bel po’ di tempo a questa parte… Ma posso capire che possa funzionare solo per me il connubio fastidio/amore.

La band formata da Koharu Ishida (voce) e Kurumi Kadoya (batteria e casino vario) l’ho scoperta grazie a un concerto che si deve ancora svolgere. Il duo formatosi a Osaka nel 2018 arriverà infatti a Milano a novembre, ho intercettato per caso la data sulla pagina Facebook dell’Arci Bellezza e, affascinato da qualunque cosa venga dal Giappone da prima di riuscire ad andarci l’anno scorso, mi sono detto “sentiamo cosa fanno”.

Casino. Le Hyper Gal fanno casino.

Ok, ma che casino? So dirvi poco del primo disco A song for xxx del 2019 (Mizuiro Records), perché non si trova online da nessuna parte e pure le copie fisiche sono esaurite (ma su YouTube trovate una loro performance live del 2018, guardando la quale potete aiutarmi a capire la differenza fra le canzoni 09 e 09 for men), ma a marzo è uscito il loro secondo disco Pure per la prestigiosa Skin Graft Records (non farò finta di conoscere vita, morte e miracoli di questa etichetta, ma il nome l’ho già sentito più volte e produce altri pazzi giapponesi come i Melt-Banana) e quello me lo sono ascoltato parecchio dopo aver passato indenne il primo approccio. La musica delle Hyper Gal è definibile come la registrazione grossolana di uno scontro fra la musica noise, il pop e le tamarrate che escono dai rythm game di una sala giochi di Akihabara, il tutto accompagnato dalla voce cantilenante di Ishida che ripete in continuazione le stesse frasi (che ovviamente, non capendo una parola di giapponese, ignoro quali argomenti trattino). Come dite? Non vi ho invogliato ad ascoltarle? Brav*, immagino che siate fra quell* che non gettano nemmeno uno sguardo dall’altra parte della carreggiata quando c’è un incidente in autostrada e vi capisco, sono come voi, ma quando si tratta di musica gli incidenti mi affascinano molto e dopo la prima sensazione di stordimento ho cominciato a sentirmi coinvolto da questo vortice di suoni aggressivi e invadenti, dall’aggiunta continua di synth in loop dell’iniziale charm, dall’epicità tamarra di Tropical (sarebbe la colonna sonora perfetta per un delirio cinematografico di Takashi Miike o per uno videoludico di Suda51, giusto per rimanere in tema di stereotipi a volte veritieri sull* giapponesi pazz*), dal romanticismo extra lo-fi di Wedding ring e dalle mille altre forme (in realtà sono otto, come le canzoni del disco) che prende la loro musica uscita da un frullatore di cose fastidiose che fanno il giro e divengono adorabili. Io lunedì 4 novembre sarò a sfasciarmi il sistema nervoso di fronte al palco, se volete farmi compagnia sapete dove trovarmi.

In un disco di canzoni fuori di testa Domestic utopia spicca per il modo originale in cui mette alla prova la resistenza dell’ascoltatore: un charlie suonato a velocità ossessiva (e ovviamente registrato con microfoni trovati nelle merendine), con tanto di cali fisiologici di ritmo che le Hyper Gal del clic non se ne fanno niente, alternato a momenti in cui Kadoya aggiunge cassa e rullante marziali e Ishida ci recita sopra con tono monocorde la sua filastrocca. Batteria e voce, fine, anche nel delirio conclusivo di gracchiate urticanti creato dai piatti registrati peggio nella storia della musica: il risultato letterario non poteva che essere altrettanto disturbante, costruito attorno a poche immagini che illustrano due estremi di utopia domestica, nei quali potete ritrovarvi o meno… E spero sinceramente che non vi ci ritroviate. Fate un salto al di fuori della vostra comfort zone e andate più in basso, a me non resta che augurarvi (lo spero) buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Utopia domestica

Il coltello a destra del piatto.

Le foto del matrimonio nella vetrinetta.

La bottiglia con l’etichetta rivolta verso l’alto.

Le tende ben stirate.

Le scarpe riposte fuori dall’uscio.

Le lenzuola ripiegate di trenta centimetri.

I gladioli nel vaso di fronte alla finestra.

La camicia ripiegata all’interno dei pantaloni.

(Crrr)

La crepa sul bordo del bicchiere.

La ditata sul vetro della finestra.

L’angolo della libreria ricoperto di polvere.

La barba non fatta.

Lo smalto smangiato sull’unghia dell’anulare.

(…)

I pavimenti lucidi.

I libri ordinati per colore.

La tovaglia ricamata della nonna.

Il cuscino a forma di cuore sul divano.

(Crrr)

Il quadro appeso storto.

L’odore di marcio in cucina.

La macchia rossa sul taschino.

Lo specchietto crepato in bagno.

La ragnatela all’ingresso.

La cacca nel bicchiere.

(…………..)

Il prato alto tre centimetri.

La cera sull’auto.

Il canestro sopra la porta del garage.

La scritta Welcome home sullo zerbino.

La casetta per uccelli in veranda.

La maniglia della porta che splende.

Il rolex sopra il polsino.

La cavigliera in oro grigio.

(CRRR)

La katana conficcata nella parete.

La porta che pende da un cardine.

Gli occhi nel portaoggetti.

La poltrona bruciata.

I bossoli sul pavimento.

I denti nel lavandino.

Le schegge di vetro in salotto.

Il sangue che cola dall’abat-jour.

(………………)

Il nostro sorriso.

(CRRRRRRRRRR)

IL NOSTRO SORRISO.

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Recap elettronico: tre dischi usciti nell’ultimo mese che potreste voler recuperare

La vita è difficile, si ha sempre meno tempo di quello che si vorrebbe e, nel caso specifico di me (che pure sto scrivendo di lunedì mattina da casa, “godendomi” la cassa integrazione), finisco per avere un sacco di cose da dire e spesso mi tocca decidere se dirle oppure guardarmi un film, uscire a bere una birra, portare avanti il romanzo che sto cercando di scrivere e, qualsiasi sia la decisione, poi mi sento in colpa. Sono vittima della sindrome della performance? Sono in realtà un terribile fancazzista che si crogiola nella supposizione di essere vittima della sindrome della performance? E al popolo, di tutte ste fregnacce, che gliene frega? Niente, sicuramente, ma tutto sto pippone è solo per spiegare perché tante volte parlo di due cose alla volta, che siano dischi, film, serie tv o un mischione di tutto ciò: ebbene sì, lo sto facendo di nuovo, ma stavolta parlo di tre dischi.

In fondo ho trovato legami molto più arzigogolati di quelli che uniscono Niglio, The Hunting Dogs e Outblinker: tutte e tre le band giocano infatti in modi diversi con la musica elettronica e tutte sono all’esordio sulla lunga distanza, dopo una gavetta più o meno lunga. Bando alle ciance quindi, e sotto a chi tocca.

Ritmi danzerecci per giovani ombrosi

Sono due fratelli i Niglio, Pierdomenico (voce, elettronica, pianoforte, percussioni e chitarra elettrica) e Damiano (basso, contrabbasso, cori e sintetizzatore), lucani di Matera trasferitisi a Roma per continuare a inseguire il sogno di fare musica. Il loro obiettivo in Penombra (uscito il 10 maggio per Pluma Dischi e IRMA Records) è quello di mescolare le suggestioni elettroniche di fine anni ’90 e inizi anni ’00 alle tradizioni della terra natia, unendo a una strumentazione già di per sé variegata anche l’utilizzo, in un paio di brani (75100 e la title track), del cucù, fischietto in terracotta tipico di Matera.

Emerge sinceramente molto di più l’anima danzereccia nei nove brani del disco, pur se filtrata da chiaroscuri che giustificano in pieno la scelta del titolo. Penombra rimanda l’atmosfera di un party organizzato fra strutture in disuso, non un rave ma una situazione in cui la testa e le membra si agitano al ritmo di pulsioni ammorbidite, affogate in arrangiamenti che ne smorzano la tensione. Di per sé la scelta è azzeccata perché la varietà è uno dei pregi dell’album: Bersagli e Illusi rappresentano i lati più liberi e disincantati, quelli in cui si balla senza far troppo caso alle rovine tutto attorno mentre resiste ancora un po’ di luce, Tormenti con i suoi arpeggi di chitarra appoggiati a synth che fingono l’aggressività accoglie il buio, Amaranto vi si arrende con una lenta ascesa elettronica che dimentica in un angolo l’anima percussiva del duo, Essere aspira all’alba fra malinconia e ritmi che si fanno più trascinanti lungo i tre minuti scarsi del percorso. Potrei usare i termini 2-step e drum’n’bass per definire i confini elettronici della loro musica, così come fa il comunicato stampa, ma me ne intendo troppo poco per mettermeli in bocca senza citare la fonte: di sicuro i fratelli Niglio sono bravi a creare un mondo sonoro sfruttando svariati elementi (anche gli archi nell’intro della title track) che, ahimè, vengono però sminuiti dal cantato.

Non ho ascoltato molto la musica di Cosmo negli ultimi anni, eppure il suo influsso mi è sembrato chiaro prima ancora di scoprire che era effettivamente una delle tante influenze citate dai fratelli Niglio. Più che nella musica è nel modo di cantare di Pierdomenico (autore anche dei testi) che si sente, in quell’alternare citazionismo e malessere esistenziale che, sebbene ben calato nella contemporaneità,  appare più esposto che percepito e finisce per far calare una patina di scazzataggine su tutto. Nel party notturno organizzato dai Niglio si fa così caso prima ai partecipanti che si annoiano ai margini della pista, intenti a discorrere senza troppa enfasi dei fatti loro con un drink in mano, e serve del tempo per scaldarsi e lasciarsi andare: il mio consiglio è di concedere a Penombra più ascolti, senza fermarsi alla prima impressione, anche se nel mio caso nemmeno al decimo ascolto sono riuscito a levarmi di dosso l’impressione che il risultato finale sarebbe sembrato meno artificioso con un diverso utilizzo dell’elemento vocale.

Il connubio fra electro-pop e art-rock che non sapevate di aspettare

Sono un duo anche The Hunting Dogs, ma le atmosfere che ricreano con la loro musica sono completamente diverse da quelle dei Niglio. Alba Nacinovich (voce, harmonizer, chitarra, percussioni, beatbox) e Marco Germini (tastiere, synth, drum machines, vibrafono, percussioni) con We are (uscito il 10 maggio per Alka Record Label) puntano a un sound più allegro e scanzonato, provvisto di un sapore pop sconfessato sia dalla durata dei brani (spesso oltre i cinque minuti) che dagli arrangiamenti. Basta ascoltare Click clack, la terza traccia, per accorgersi di questa tendenza: un brano all’apparenza semplice, incalzante nel suo affidarsi al cassa-rullante più basico possibile e ad un riff di chitarra semplice e trascinante, cui si appoggiano tastiere e synth a comporre un quadro di pura leggerezza gioiosa, che a metà parte per una divagazione strumentale con tanto di assolo distorto inaspettata ma perfettamente amalgamata col resto.

È uno schema che replicano anche nella successiva White sheets i The Hunting Dogs, salvo che salta fuori in tutta la sua esplosività l’elemento “art” citato nel cappello introduttivo, affidato anche, ma non solo, alla voce caleidoscopica di Nacinovich. Un po’ Veronica Lucchesi de La Rappresentante di Lista, un po’ Courtney Swain dei Bent Knee, la voce dei The Hunting Dogs riesce a catalizzare sia gli aspetti più pop che quelli più bizzarri della musica del duo, senza mai strafare ma adattandosi anzi ad un contesto sonoro che già di suo cerca di essere il più mutevole possibile. Svariare nello stesso disco dalle fumose atmosfere jazz (genere che entramb* l* componenti della band hanno studiato a fondo) con tanto di sax della circolare Less yellow al pop elettronico dai ritornelli adorabilmente sghembi di Hunting dogs (su cui Nacinovich declama come se fosse la voce registrata vagamente schizoide di un treno senza ritorno) sarebbe già lodevole, ma il duo si permette incursioni in territori trip-hop (The dentist) e vira persino verso uno scarno e delicato episodio a base di piano, archi e voce (Voodoo wood, canzone inserita nella colonna sonora del film Il confine è un bosco di Giorgio Milocco).

È difficile al primo disco (pur se anticipato nel lontano 2015 da un Ep, Out to hunt, che testimonia della lunga militanza del duo) avere già un suono riconoscibile e una spiccata personalità: i The Hunting Dogs con il loro autodefinito Electro-shocked pop ci riescono in pieno, e all’interno delle nove tracce di We are troverete altre sorprese ad attendervi.

Synthwave-kraut.post-rock con attitudine DIY

Oltre che con le mie inutili premesse infarcite di parentesi c’è un’altra cosa con cui presumo di aver ammorbato gli affezionati quattro gatti che ancora popolano questo blog/aspirante rivista letteraria: i Fuck Buttons. Aspetto da un decennio buono un disco che arrivi alla magnificenza esagerata e fieramente tamarra di Slow focus, l’ultimo disco di Andrew Hung e Benjamin Power, ma i due hanno preso carriere separate e all’orizzonte di album del genere non ne ho visti avvicinarsi: quando però mi è arrivato il comunicato stampa di Outblinker, disco omonimo della band scozzese, e ho visto il nome di Power alla produzione mi sono brillati gli occhi. Quando poi ho ascoltato la prima traccia Walter Peck gli occhi hanno smesso di brillare e sono diventati definitivamente a cuore, perché nella canzone che apre il disco d’esordio degli Outblinker (uscito il 31 maggio per la francese Araki Records, la britannica GoldMold Records e l’italiana Bloody Sound) c’è tutta quella capacità di affastellamento di suoni equilibrata ed esagerata allo stesso tempo che non ho più ritrovato nei singoli progetti dei due Fuck Buttons.

Come i The Hunting Dogs la band di Glasgow è in giro dal 2015, e negli anni ha prodotto una manciata di Ep prima di affrontare con una certa difficoltà (ma chi non lo ha fatto) il periodo della pandemia. Nove anni sono comunque un tempo più che rispettabile per delineare un proprio suono (e una propria filosofia, orgogliosamente impostata sul Do It Yourself) che, a dispetto della prima canzone, è molto più sfaccettato di quanto mi potessi aspettare. Più si avanza nell’ascolto di Outblinker più emerge l’amore per il post-rock del gruppo, un post-rock fortemente elettronico in cui i synth la fanno da padroni ma che assembla attorno a questo impianto una batteria sempre più presente, arrangiamenti che smettono già dalla seconda traccia Techno viking di basarsi esclusivamente sull’accumulo e che sfruttano una voce fortemente robotizzata come ulteriore elemento sonoro. La band composta da Fraser McPhail, Luigi Pasquini, Chris Cusack e David Ian Warner muta nell’arco di sei sole tracce in un mix di elementi che mescola suggestioni orientaleggianti (la già citata Techno viking, affine e allo stesso tempo distante anni luce da questa figura) al rock sintetico dei Mutiny On The Bounty (Cerimor e alcuni momenti di Grimey, che si apre con un riff monolitico che farebbe la felicità di qualsiasi gruppo e invece lo molla per avviarsi con dinamica ondeggiante verso il paradiso dei synth: la palma di miglior brano del lotto è assegnata) per poi lanciarsi nello spazio con le synthate siderali di DDDavid e chiudere in bellezza, in un percorso coerente nella sua amplificazione di orizzonti, con gli otto minuti abbondanti della mutevole Cargo 200, trascinata da una chitarra fuzzosa che a tratti alterni detta legge in un mare di suoni elettronici.

Sapevo di volere un disco che battagliasse ad armi pari con Slow focus, ma non sapevo che potesse essere un disco così diverso da quel capolavoro. Gli Outblinker vanno a riempire un vuoto personale e sono consapevole di essere di parte nel giudicare questo disco, ma penso di riuscire anche a mantenere un certo margine di oggettività nel definirli qualcosa di diverso e più ampio rispetto ai Fuck Buttons, qualcosa che può piacere tanto agli appassionati di una certa elettronica che accumula synth su synth quanto agli ascoltatori di post-rock dalla mente aperta, più un sacco di gente nel mezzo: non aspettatevi solo qualcosa di sobrio, qui le orecchie vengono prese amorevolmente a randellate.

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