Racconto in musica 168: Canto sotterraneo (Blonde Redhead – A cure)

Quando c’è un divorzio, si sa, raramente le cose vanno come dovrebbero andare: non ci si lascia grat* di quello che si è condiviso ma ci si dà battaglia, che sia per l’affidamento dei figl*, del cane o delle tazzine di caffè di cui a nessun* frega davvero qualcosa, ma il punto è diventato vincere a tutti i costi anche se così perdono tutt*. Se poi la coppia che scoppia è famosa può anche mantenere un rigoroso silenzio mediatico, ma saranno i media stessi ad alimentare questo gioco al massacro con illazioni, allusioni, controllo sistematico dei social media ed ipotesi derivanti da questo controllo mediatico.

Come? No, non sto parlando dei Ferragnez, ma di Dan Harmon e Justin Roiland, i creatori di quella che secondo me è una delle serie animate migliori degli ultimi anni: Rick and Morty. Non conosco bene la vicenda che ha portato alla loro separazione (potevi informarti, direte giustamente voi), ho appena letto le dichiarazioni rilasciate da Harmon nel novembre 2023 e scopro che alla base della rottura ci sono anche vicende ben più problematiche di quel che pensavo (tipo che Roiland possa aver usato il suo ascendente su fan adolescenti per adescarl*, accuse archiviate secondo l’articolo che ho letto ma che fanno comunque venire un brivido lungo la schiena), ma quello su cui vorrei concentrarmi è altro: la settima stagione della serie. Ne ho letto peste e corna prima ancora che uscisse, articoli che senza che si fosse ancora visto qualcosa titolavano “la peggior stagione di sempre”, pure dopo la release (come dicono quell* che hanno studiato inglese) pessime critiche (di cui ho letto solo i titoli perché non volevo spoiler), tutto immagino perché cazzo, si è rotta la coppia creativa alla base dello show, mica si aggiusterà così facilmente il tutto, no? E invece sì.

A me la settima stagione di Rick and Morty è piaciuta. Vi dirò, mi è piaciuta più di altre stagioni. Mi allargo ulteriormente: l’episodio That’s Amorte, in cui Morty scopre che i gustosissimi spaghetti con cui Rick rifocilla la famiglia sono estratti dai corpi delle persone suicidatesi su un altro pianeta, è uno degli episodi migliori dell’intera serie nonché una incredibile critica del capitalismo, del nostro riuscire a vivere con il macigno di scelte terribili se c’è qualcun* disposto a rassicurarci che va bene così e mille altre elucubrazioni mentali. Mi chiedo quanto la critica preventiva sia diventata critica a tutto tondo solo perché si è pensato che la serie non potesse essere più la stessa dopo il divorzio (creativo) della coppia che gli ha dato i natali, perché un episodio del genere a me ha ricordato uno degli altri migliori in assoluto, A Ricklantide, che a dispetto del titolo si svolge completamente nella Cittadella dei Rick (lo so, voi che non siete appassionat* non ci state capendo niente: facciamo che lo prendete come un consiglio a recuperare la serie, ok?) e riesce a toccare corde profondissime pur nella sua violenza splatterosa e sarcastica e nell’idiozia che ne contraddistingue lo stile.

Ma perché racconto tutto questo? Perché spreco tutte queste righe in un sabato mattina prepasquale invece di andare dritto al punto e guadagnare del tempo per, che so, farmi una passeggiata fintanto che c’è un raggio di sole o scaccolarmi nel letto mentre accarezzo il gatto? Perché nell’episodio A Ricklantide la splendida chiusura, come già in un altro episodio che non vi cito se no vi vien voglia di sopprimermi, è affidata all’intensa For the damaged coda dei Blonde Redhead, uno di quei brani che anche da solo è capace di farti lacrimare pesantemente e che associato alle immagini acuisce il magone: e guarda un po’, oggi parliamo proprio dei Blonde Redhead.

A permettermi di farlo è Matteo Quaglia, che prima di tutto ha accettato di scrivere per questo blog e poi ha accettato anche che il suo racconto fosse associato alla band in questione. Nato nel 1988 in un piccolo paese del nord-est italiano, fin da piccolo si appassiona ai libri e ancora oggi è un entusiasta lettore, il che lo costringe ad acquistare periodicamente nuovi scaffali (problema che conosco bene, visto che sto valutando di mettere delle librerie in un corridoio già stretto di suo). Dalla lettura alla scrittura il passo è breve, dallo scrivere allo scrivere bene invece di strada ce n’è molta di più da fare: Matteo l’abbiamo cercato e voluto proprio perché lo fa benissimo, e potete rendervene conto dalla qualità dei suoi racconti che, non per niente, sono stati pubblicati su una moltitudine di riviste come Nazione Indiana, l’inquieto, Bomarscé, Altri animali, Malgrado le mosche, inutile (questo potete ascoltarlo, e già che ci siete fatelo anche con questo), Rivista Blam, Pastrengo, Risme (sul numero 9), Narrandom, Crack, Clean… Che faccio, lascio? No, aggiungiamoci anche l’antologia 2021 de I racconti dello schioppettino, e chissà quanto d’altro c’è che i potenti mezzi di Tremila Battute (ci crede ancora qualcuno che sono potenti?) non sono riusciti a scovare. Seguitelo e leggetelo, ne vale la pena.

Vale la pena sicuramente anche di seguire la trentennale carriera dei Blonde Redhead, ma io sono un lavativo e li ho frequentati solo a spizzichi e bocconi, mangiando qualche canzone qua e là: insomma, ammetto di non essere un esperto ed è una di quelle cose difficili da ammettere quando stai per partire con una filippica sul “perché sono importanti e dovreste ascoltarli”. Facciamo che partiamo con una barzelletta, eh? Tipo quella dell’italiano che va in Belgio a vedere un gruppo gallese o in Giappone a vedere un gruppo thailandese, solo che stavolta io non c’entro niente ed è la storia di come due gemelli italiani, Amedeo e Simone Pace, incontrano due musiciste giapponesi, Kazu Makino e Maki Takahashi, negli Stati Uniti, precisamente a New York, nel 1993 (l’ho fatta pure semplice, perché i fratelli Pace a tredici anni erano emigrati dall’Italia al Canada). Questo incontro segna l’inizio della storia della band, che vede inizialmente Amedeo a chitarra e voce, Makino idem, Simone alla batteria e Takahashi al basso: con questa formazione i Blonde Redhead attirano l’attenzione di un tizio qualsiasi, ovvero Steve Shelley dei Sonic Youth, che decide di produrre il loro primo disco omonimo uscito nel 1995 per la Smells Like Records. Sarà l’unico disco registrato da Takahashi che poco dopo la pubblicazione lascia la band, sostituita per un breve periodo da Toko Yasuda prima che anch’essa dia forfait, nutrendo la lista di bassist* giapponesi (ricordiamo Hiro Yamamoto dei Soundgarden) a cui il successo fa decisamente schifo.

Da lì in avanti i due Pace e Makino formeranno un trio (quasi) indissolubile, capace di pubblicare nove dischi e tre Ep fino al 2017, anno in cui si prendono una pausa prima di tornare solo l’anno scorso con Sit down for dinner (Section1). Trent’anni di musica sono tanti e prevedono solitamente evoluzioni sonore, cambi di etichetta, momenti in cui la critica ti acclama e momenti in cui il pubblico storce un po’ il naso: i Blonde Redhead non si sono fatti mancare niente di tutto questo, passando dal mix di rasoiate sonore, sussurri e urla (quando vuole Makino sembra posseduta da uno o più demoni) e raffinatezza retrò dei primi album a un’evoluzione ancora più particolare e barocca, sancita dal passaggio alla Touch & Go Records con il disco Fake can be just as good (1997) e portata alla perfezione, a mio modesto parere, con il clamoroso Melody of certain damaged lemons (2000), quello che contiene For the damaged coda (che ho scoperto essere anche nella colonna sonora di L’ultimo bacio) e altri splendidi brani che inquietano e affascinano al tempo stesso. Dal seguente Misery is a butterfly (2004) il trio passa sotto la britannica 4AD, iniziando una graduale mutazione del proprio sound verso territori più morbidi e shoegaze, riuscendo comunque a ottenere il plauso di una critica che si fa però più freddina man mano che gli album virano verso il pop, l’elettronica e la melodia davanti alle abrasioni. La fase 4AD si interrompe nel 2010, anno di Penny Sparkle, poi un veloce passaggio alla Kobalt Records per Barragán (2014) e il lungo silenzio (che permette a Makino di pubblicare un album solista nel 2019, Adult baby), interrotto nel 2023 con Sit down for dinner. L’ultimo (in ordine di tempo eh) disco dei Blonde Redhead è una sorpresa positiva per tutt*, non cerca di tornare alle asperità del passato ma è vario, profondo, morbido senza per questo essere accomodante: la band lo ha scritto prendendo spunto da una frase contenuta nel libro L’anno del pensiero magico di Joan Didion (La vita cambia velocemente. La vita cambia in un istante. Ti siedi a cena e la vita come la conosci finisce), chiudendo così un parallelo letterario/musicale iniziato intitolando il secondo disco La mia vita violenta (ispirato, il titolo come l’album, dal libro Una vita violenta di Pier Paolo Pasolini) e che li rende la band perfetta per un sito come il nostro.

A cure è l’ottava traccia di Melody of certain damaged lemons, una canzone che parla in modo elusivo e poco chiaro di problematiche relazionali (le stesse che non hanno impedito ad Amedeo Pace e Kazu Makino di sposarsi, a seguito di una relazione iniziata nei primi anni di carriera) unendo le voci di Makino e Pace in un’atmosfera che oserei definire, con buona pace di Freud, “perturbante”. Sia il testo che la musica hanno convinto me e Matteo che unire il suo racconto e la canzone era cosa buona e giusta, perché come il miglior Cortázar (ma anche, paradossalmente, come il miglior Carver) la sua storia unisce sentimento e mistero, il tutto mentre qualcun* suona il citofono nel pieno della notte e la coppia protagonista si chiede se andare a rispondere o meno. Se volete sapere se lo faranno o meno (e DOVETE volerlo sapere) trovate il racconto più in basso, subito dopo la canzone a cui lo abbiamo associato: a me non resta che augurarvi buon ascolto, buona lettura e toh, anche buona resurrezione di Gesù (anche se non siete credenti, vale sempre la pena di approfittare di una festività).

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Scarica il numero Zero e il numero Uno della fanzine di Tremila Battute!

Canto sotterraneo, di Matteo Quaglia

Ci svegliammo nello strascico della notte. Il citofono squillò una seconda volta, poi una terza. Non si era trattato di un sogno; del resto, a quell’ora, ciò che si doveva sognare lo si era già sognato, non restava che rotolarsi nelle lenzuola di qualche incubo dissotterrato dalle macerie del giorno precedente. Ma quello non era un incubo, o per lo meno non si era ancora manifestato come tale.

Hai sentito anche tu, chiese Anna. Feci sì con la testa. Un altro squillo, più prolungato, quasi il dito che premeva il citofono fosse sprofondato nel muro. Anna allungò il braccio e prese l’iPhone. Disse qualcosa a proposito dell’ora, o forse me lo immaginai soltanto, perché non risposi. Attendemmo in un silenzio perfetto fino allo squillo seguente, seguito da un altro squillo ancora. Secondo te chi è, chiese Anna. Risposi che non ne avevo idea, ma chiunque fosse non aveva alcuna intenzione di darsi per vinto.

Forse è un ospite giunto fuori orario, disse. Anna era solita esprimersi in questo modo. Non li chiamava clienti, bensì ospiti. Non diceva arrivato, ma giunto. Tirai su con il naso. Forse se ci rimettiamo a dormire la finiscono, disse. Forse, concessi. Però non credo sia un cliente. Ci sono degli orari precisi per il check-in. Non puoi arrivare quando vuoi.

Anna si lasciò cascare sul cuscino. Il fatto è che siamo rimasti solo noi, qui, disse. Per qualche secondo sembrò riflettere su ciò che aveva appena detto. Altri tre squilli, seguiti da un quarto. Chiamiamo i tipi della Guest house, disse. La guardai. Teneva gli occhi chiusi, o meglio, spremuti. E cosa gli diciamo, chiesi. Diciamo che c’è qualcuno che sta suonando, no, disse lei. Non credo sia un cliente, risposi. Telefonò lo stesso, ma nessuno rispose. Ci furono altri trilli, che riempirono i dieci minuti successivi. Io e Anna restammo immobili, quasi desiderassimo di non essere visti da uno spettro. Perché non la smettono, chiese. Cioè, non lo vedono che non risponde nessuno. Le domandai perché parlasse al plurale. Magari a suonare era solo una persona, qualcuno che aveva bisogno di aiuto. Dissi così e me ne pentii subito. Anna sgranò gli occhi e disse che se c’era qualcuno in difficoltà, avremmo dovuto fare qualcosa. Disse chiamo la polizia. Risposi che non mi sembrava il caso. La polizia si occupa di faccende serie. Giù in strada, qualcuno iniziò a urlare. O meglio: a parlare a voce troppo alta. Mi alzai e aprii la finestra, poco, come volessi evitare alle zanzare di entrare. Non si vede niente, dissi. Forse dovremmo rispondere al citofono, disse. Forse, concessi. Ma se apriamo la camera e qualcuno è fuori in attesa di scivolare nella stanza, dissi. Anna disse smettila. Chiusi la finestra e mi sdraiai. Poi le parlai del racconto di Cortázar in cui due fratelli cedono via via lo spazio di casa loro a degli estranei oscuri. E dopo cosa succede, chiese.

Dissi vado a rispondere. Anna mi seguì. Prese la mia mano. Quando, infine, riuscii a portare la cornetta all’orecchio, era mattina.

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Pubblicato da Ficky

Nel (poco) tempo libero scrivo racconti, guardo film e serie tv, leggo libri, recito in una compagnia teatrale, partecipo a eventi culturali e vado a vedere un sacco di concerti. Ho scritto per anni di musica (Indie-zone, Stordisco, Asapfanzine) e spero di trovare il tempo di farlo ancora per molti anni a venire.

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