Racconto in musica 41: Il regalo che aspettavi (Vintage Violence – Natale lavavetri)

Il racconto di questa settimana non poteva che essere a tema natalizio, sia perché la canzone ce l’ha nel titolo sia perché la band che l’ha scritta l’ho conosciuta di persona proprio poco prima delle festività, per la precisione il 15 dicembre 2013. Era in dirittura d’arrivo il loro nuovo disco, e per il lancio pensarono di creare un video con tutti i fan disponibili a recarsi in quel di Mandello Del Lario, nella soffitta di casa dei genitori di uno dei componenti. Per l’occasione era prevista anche la consegna dei “cesti natalizi”, ovvero un modo alternativo che avevano trovato per autopromuoversi e, allo stesso tempo, fare propria una causa sociale: assieme a dischi, gadget vari e una bottiglia di vino (direttamente dalla cantina del nonno del cantante) era presente un biglietto attestante che parte del ricavato sarebbe stato donato a un progetto per la tutela dei senzatetto di Lecco. Mi era sembrato un bellissimo gesto, ed era stato uno dei motivi che mi aveva spinto a farmi svariati chilometri di macchina per incontrarli e finire dentro le riprese con in faccia una maschera da dottore in tempi di peste (sotto una diapositiva).

Da allora i Vintage Violence li ho intervistati, portati a suonare in un concerto acustico casalingo a Novara e ho pure aperto per loro in una data con la mia band. Soprattutto li ho visti dal vivo ogni volta che era possibile, perché oltre a essere delle bellissime persone sono anche uno di quei gruppi che dal vivo sono travolgenti e con cui è impossibile rimanere fermi. Alla carica punk della loro musica uniscono testi impegnati, socialmente e politicamente, che rappresentano un ulteriore pregio all’interno della loro produzione.

La band si forma nel 2001 con il nome Flowers of noise, cambiato dopo un anno in quello definitivo che proviene diretto da un album omonimo di John Cale. La formazione iniziale vede Nicolò Caldirola (voce), Rocco Arienti (chitarra e cori), Stefano Gilardi (chitarra), Roberto Galli (basso) e Beniamino Cefalù (batteria), e con questi elementi arrivano alla realizzazione del primo disco, Psicodramma, autoprodotto nel 2004. Inizia una lunga serie di concerti dal vivo, accanto a nomi come One Dimensional Man e Quintorigo, e in occasione di un loro concerto milanese (all’ormai defunto Transilvania Live) si ritrovano a improvvisare un pezzo con i System Of A Down, presenti in incognito tra il pubblico. Dopo aver raggiunto le finali nazionali di Rock Targato Italia e di Sanremo Rock la band pubblica nel 2007 l’ep Cinema con l’etichetta Goodfellas, il cui singolo Le cose cambiano viene messo in rotazione sua Allmusic e RockTv. Passeranno quattro anni prima di vedere un nuovo album: Piccoli intrattenimenti musicali arriva nel 2011, e contiene tra i pezzi una cover de I pop del cantautore anarchico monegasco Léo Ferré, brano che vede la collaborazione di Dario Ciffo (Afetrhours e Lombroso). Per promuovere il disco la band realizza videoclip autoprodotti a costo zero per ognuno degli undici brani, cosa che farà anche per la canzone Sognare sul lavoro, uscita nel 2012 e che rappresenta il primo lavoro per l’etichetta Maninalto! Records che da lì in avanti produrrà i loro lavori.

Il 31 gennaio 2014 esce Senza paura delle rovine, disco in cui compaiono come ospiti Karim Qqru degli Zen Circus, nel brano Neopaganesimo, ed Enrico Gabrielli (Afterhours, Mariposa, Calibro 35), nel brano I funerali. Per la canzone Metereopatia realizzano un video con sei GoPro che filmano a 360° (firmato da Marco Mazzoni e Riccardo Rossi) che un anno dopo Cesare Cremonini gli copia spudoratamente, senza nemmeno fermarsi a controllare se questa tecnica era già stata utilizzata prima di bullarsi di essere stato il primo in Europa a realizzare un videoclip simile (caro Cesare, non è così). Negli anni seguenti Stefano Gilardi esce dalla band, sostituito prima da Matteo Canali (attivo in innumerevoli band, tra cui Mr. Kite, Ghost Mantra e Born by chance) e poi da Ivan Giudiceandrea, che assieme a Nicolò e Rocco registra nel 2018 il disco Senza Barrè, rilettura acustica di alcuni brani dei precedenti dischi a cui si aggiunge l’inedita Finale.

Natale lavavetri arriva dall’album Piccoli intrattenimenti musicali, e offre una visione diversa del classico immaginario natalizio, osservato dal fondo della scala sociale. Quello che non manca ai protagonisti della canzone è l’orgoglio necessario a prendersi una rivincita, ed è anche il motore della vicenda che troverete nel racconto: qui sotto trovate come al solito il brano, seguito dal racconto, Tremila Battute vi augura in questo modo buon ascolto, buona lettura e buone feste. Ci si sente a Gennaio!

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Il regalo che aspettavi

Ci hai già incontrato tante volte. Laviamo i vetri della tua macchina quasi tutte le mattine, quando ce lo permetti invece di passare oltre con una smorfia sul volto. Non pretendiamo che ti ricordi di noi, ma un riconoscimento ce lo aspettiamo ormai da troppo tempo. Siamo rimasti in attesa a lungo, respirando i gas di scarico a bordo strada, rabbrividendo nei gelidi inverni di questa zona. Invidiamo il calore all’interno del tuo abitacolo, ma non il modo in cui ti sei procurato il lusso che ti circonda.

Casa tua dal parco sulla collina appare nitida e luminosa, un punto di riferimento per tutta la città. Ti immaginiamo comodamente seduto davanti a una tavola imbandita, mentre noi ci scaldiamo lo stomaco con birra sgasata e qualche superalcolico. Le panchine su cui dormiamo non hanno coperte linde e morbide come le tue, e per fare bei sogni alcuni di noi hanno bisogno dell’ago. Non conoscerai mai la storia delle persone che abbiamo incontrato qui, ma non possiamo fartene una colpa: nemmeno noi avremmo voluto, anche se ora che facciamo parte di questa folla di invisibili è molto più facile considerarli dei fratelli.

A Natale serve qualcuno con cui condividere gioie e dolori, anche per strada.

Per tanto tempo ci siamo fidati di te. Quando ci siamo ritrovati con una lettera di licenziamento al posto di una gratifica abbiamo pensato che tutto si sarebbe risolto. Pensavamo che non avessi altra scelta, ma mentre i nostri risparmi si azzeravano tu continuavi la tua vita come se non fosse successo niente, senza nemmeno scusarti per ciò che ci avevi fatto. Nella tua memoria sembrava non esserci spazio per noi.

Abbiamo deciso di aiutarti. Sappiamo che stasera rincaserai tardi, intento a brindare col sindaco e gli assessori. Sotto l’albero, insieme ai regali per i tuoi figli che qualcun altro ha comprato, troverai tutti i nostri nomi. Le abbiamo conservate gelosamente, le nostre ultime buste paga, e ora te ne facciamo dono: è passato un anno da quando le abbiamo ricevute, speriamo che vederle ti faccia ricordare cosa è veramente importante nella vita: la lealtà, il rispetto, la giustizia.

Siamo sicuri che capirai il messaggio. Ci fidiamo ancora, e ci addolorerebbe se tu pensassi che non sia così. Non prendere questa intrusione come una minaccia, volevamo solo farti sapere che ti siamo vicini. Siamo sicuri che farai la cosa giusta, per te e per noi.

Ti aspettiamo al solito incrocio. Non prendertela per il parabrezza sfondato, il prossimo lavaggio lo offriamo noi.

Con affetto

I tuoi ex dipendenti.

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Sono stato a Gorizia senza muovermi da Milano: cronaca dell’edizione online del Be Afraid Horror Fest

Sono normalmente abituato a guardare il bicchiere mezzo pieno, perciò anche nel mezzo di una pandemia cerco di trovare qualcosa di buono da salvare. Ognuno è costretto a scavare più o meno a fondo per trovare queste cose, soprattutto a seconda del piano in cui il famoso ascensore sociale si è bloccato per non ripartire più neanche a propulsione di bestemmie, ma tra le cose che il 2020 mi ha regalato, con un colpo di coda inaspettato, posso dire di annoverare anche la copertura completa di un festival cinematografico. Certo, non mi hanno inviato l’accredito stampa come si farebbe ai veri giornalisti (infatti non lo sono), non ero in sala a godermi le proiezioni su schermo (tutto il festival è stato ospitato su Mymovies, dal 18 al 23 dicembre), ma la possibilità di seguire il Be Afraid Horror Fest per parlarne su queste schermate è stata comunque una di quelle esperienze che ti fanno credere di aver fatto qualcosa di “professionale”. Se effettivamente lo sono stato, professionale, potrete scrivermelo nei commenti: dalla vostra risposta dipende il numero e la qualità delle richieste che potrò avanzare all’organizzazione (punto a essere ospitato in regime all inclusive allo Sheraton, ammesso che a Gorizia ci sia uno Sheraton), quando ritorneremo a una situazione normale che possa loro permettere di organizzare il festival così come lo avevano immaginato. Andiamo ora quindi con le proiezioni, in rigoroso ordine cronologico di apparizione, iniziando con

Sky Sharks (Marc Fehse, Germania 2020)

Trama – Nazisti supermutanti, frutto di un esperimento risalente alla seconda guerra mondiale, si risvegliano tra i ghiacci e cominciano ad assaltare aerei di linea cavalcando i loro cybersquali volanti: lo scienziato che ha collaborato a crearli li affronta insieme alle due figlie.

Il più grande pericolo, quando fai un mash-up di cliché horror (tipo pescando spudoratamente da Sharknado e Dead Snow, citando i primi due che mi vengono in mente), è di pensare che il film si scriva da sé. Marc Fehse fa esattamente questo: ha gli squali volanti, ha i nazi-zombi mutanti, ci infila tette a straforo per alzare la quota trash e di dare un senso alla trama, o anche solo di creare un po’ di pathos, se ne frega altamente. In compenso ci tiene a spiegare nel dettaglio il piano originario dei nazisti, cosa di cui avrei volentieri fatto a meno piuttosto che ritrovarmi con un combattimento finale che sembra una qualsiasi altra sequenza del film. Porte aperte all’ultimo per un sequel, non ne abbiamo veramente bisogno: speriamo che almeno per questo non sfruttino i soldi dei benintenzionati che lo hanno finanziato tramite Kickstarter.

Hail to the Deadites (Steve Villeneuve, Canada 2020)

Trama – La vita dei fan sfegatati della saga di Evil Dead, attraverso partecipazioni alle convention, collezioni private e interviste agli attori che hanno recitato nella saga.

Un documentario interessante, ma specificatamente indirizzato ai veri cultori della saga di Ash Williams. Villeneuve non ha molto interesse a creare una narrazione che coinvolga lo spettatore indifferente per portarlo nel vortice, cullandosi i suoi Deadites: dopo sette anni di riprese poteva forse puntare più in alto.

Fried Barry (Ryan Kruger, Sud Africa 2020)

Trama – Barry è un eroinomane attaccabrighe, con una famiglia che non aiuta e una predilezione solo per la prossima dose. Viene posseduto da un’entità aliena, che ritornando sulla terra come ospite nel suo corpo si ritroverà a vagare per gli angoli più luridi di Città del Capo.

Di certo il film di Kruger non è la miglior pubblicità per la città sudafricana. Barry, dopo essere stato posseduto in una sequenza allucinata ma girata con stile, comincia il suo viaggio con lo stupore del bambino di fronte a un negozio di giocattoli, solo che viene immerso in rave, trip allucinogeni, prostituzione, delinquenza e rapimenti di bambini. Visivamente azzeccato, con uno stile assolutamente sopra le righe fatto di accelerazioni e colorazioni esagerate (e di qualche dettaglio gore, come un rapporto sessuale che sfocia nel body horror), ma alla lunga la serie di scenette in cui Barry si trova coinvolto, spesso a livello della slapstick comedy, diventa pesante senza una narrazione convincente a supportarle. Plauso all’interpretazione di Gary Green, che al suo primo ruolo da protagonista si prende tutto il film sulle spalle e mostra un campionario interpretativo invidiabile: molto del fascino del film lo si deve a lui.

Victim of Love (Jesper Isaksen, Svezia 2020)

Trama – Un uomo torna nell’albergo in Europa dove ha passato l’ultima vacanza con la sua fidanzata, scomparsa al ritorno negli Stati Uniti. In cerca di indizi per ritrovarla, la sua indagine lo porterà a scoprire più di quel che voleva.

Il film di Isaksen è sbagliato, più o meno da qualunque punto lo si voglia esaminare. Ha una sceneggiatura basica che si capisce dove voglia andare a parare dopo neanche dieci minuti, un’estetica che cerca di essere originale usando a profusione i lens flare, una recitazione piatta e un ritmo lento e stanco. Forse voleva essere la versione horror di Memento (buchi nella memoria del protagonista, piantina con gli indizi in camera), peccato che l’indagine non inizi mai visto che il protagonista non fa altro che bere e drogarsi: si salva un po’ il comparto audio, ma arrivati alla conclusione pure il titolo del film vi apparirà sbagliato, almeno quanto un articolo di Vittorio Feltri sul caso Genovese.

The Columnist (Ivo van Aart, Olanda 2020)

Trama – Un’editorialista, esasperata dai continui attacchi da parte dei troll su internet, decide di passare all’azione e farla pagare ai suoi detrattori in maniera molto meno virtuale.

Una delle sorprese positive del festival. Il film di van Aart è un’ottima black comedy, ben recitata e con un ritmo che non cala mai. Il modo in cui la protagonista Femke inizia la sua vendetta è fin troppo spensierato ma la sceneggiatura riesce a mostrarci la sua discesa nella follia come un cammino graduale, volutamente esagerato ma che abbandona man mano i toni della commedia per farsi sempre più cupo. Una specie di versione femminista de Una cena quasi perfetta col discorso sulla libertà d’espressione al centro dell’indagine, ben sviscerato anche grazie al rapporto tra i protagonisti: la madre editorialista, la figlia addetta del giornale scolastico e l’amante della madre scrittore di horror.

To Freddy (Viljar Bøe, Norvegia 2020)

Trama – Cinque amici appena diplomati decidono di passare un ultimo weekend in campeggio prima di prendere ognuno la propria strada. Uno di loro, Freddy, ha però qualcosa da nascondere: una scatola contenente delle lettere che prevedono il futuro, in cui c’è scritto che uno dei suoi amici lo ucciderà.

Idea molto interessante, svolgimento così così. Bøe mette i suoi protagonisti (e sé stesso, è uno degli amici di Freddy) all’interno di un bosco, facendo capire fin dall’inizio che le cose degenereranno, ma per la stragrande maggioranza del tempo vediamo cinque amici che si sbronzano, litigano e, soprattutto, si annoiano a morte. Vien da chiedersi perché andare fin lì (senza tende, dettaglio di cui si accorgono solo una volta arrivati) per rompersi incredibilmente i coglioni, ma le loro motivazioni non sono supportate da recitazioni tendenti verso il minimo sindacale. Tanta noia dovrebbe perlomeno far risaltare i momenti di tensione, ma la verità è che si arriva stancamente al climax finale, dove il cerchio si chiude in maniera soddisfacente: peccato che non basti.

Diablo Rojo (Sol Moreno, Panama 2020)

Trama – Tragica notte per perdersi nei boschi di Chiriqui, tra demoni alati, congreghe di streghe e un popolo di cannibali.

Lo ammetto, il mio primo horror panamense me lo sono perso per strada. Quattro film domenicali erano troppi per star dietro a tutto, soprattutto nell’ultimo fine settimana di (semi)libertà: scusami Sol Moreno, sei stato la vittima sacrificale all’altare delle mie poche ore di sonno.

Get the Hell Out (Wang I.-Fan, Taiwan 2020)

Trama – Cosa può essere peggio di una sessione del parlamento di Taiwan, fra risse non solo verbali e gavettoni? Lo scatenarsi di un’epidemia di rabbia all’interno delle aule, con la gente infetta che si trasforma in velocissimi zombie assetati di carne umana: un’attivista e un membro del congresso innamorato di lei si uniranno per sventare la minaccia.

“Una versione sotto anfetamina e con gli zombie di Scott Pilgrim vs. The world“, così lo ha definito in maniera azzeccata Stanlio Kubrick su I 400 Calci, ed è una descrizione che mi sento di sottoscrivere. Il film di I.-Fan fa sembrare Fried Barry una pellicola in costume, ha il piede continuamente schiacciato sull’acceleratore ed è un profluvio di sangue che schizza, filtri colorati (pure nelle scene romantiche, che vengono opportunamente virate in rosa con tanto di musichetta zuccherosa) e qualunque cosa possa venire in mente a un folle permeato di estetica videoludica che gira gli scontri buttandosi in mezzo agli attori e facendo caciara quando può, cioè praticamente in ogni inquadratura. La prima mezz’ora è il preludio all’apocalisse, ed è comunque girata sopra le righe alla stessa maniera: lo spaesamento a volte assale, ma è divertente da morire.

Anonymous Animals (Baptiste Rouveure, Francia 2020)

Trama – Alcune persone vengono braccate e imprigionate da animali antropomorfi, i quali seguono modalità e scopi tipici degli esseri umani.

Un film dalle chiare intenzioni animaliste, che ribalta i rapporti di forza uomo-animale mantenendo inalterate le dinamiche. A dispetto della categoria “Torture” che gli viene affibbiata sul sito del festival il film di Rouvere non ha uno sguardo compiaciuto verso la violenza, che centellina anzi mostrando il meno possibile. La scelta, funzionale, di mantenerlo senza dialoghi aiuta alla creazione dell’atmosfera, veramente azzeccata, ma complice un montaggio che effettua troppi stacchi tra una vicenda e l’altra il ritmo ne risente. Credibile la recitazione, soprattutto quella di Thierry Marcos nei panni della persona trattata come un cane.

Monster Seafood Wars (Minoru Kawasaki, Giappone 2020)

Trama – Un calamaro, un polipo e un granchio, destinati come offerta a un tempio, vengono trafugati e mutati geneticamente in giganteschi mostri. Una task force speciale viene messa in piedi per sconfiggerli e salvare Tokyo dalla distruzione.

La quota Kaiju del festival viene occupata dal film di Kawasaki, in parte mockumentary e in toto rilettura ironica dei classici del genere. I “mostri” che invadono Tokyo sono carini e puccettosi quanto il pupazzone Godzilla di Godzilla contro i robot, e sono l’unica cosa che vale la visione: tra liti adolescenziali e quarti d’ora passati a elogiare il sapore dei mostri cucinati la pellicola si perde per strada, come una barzelletta divertente stiracchiata fino a renderla insopportabile.

Historia de lo Oculto (Cristian Ponce, Argentina 2020)

Trama – Il nucleo investigativo di un programma giornalistico, giunto all’ultima puntata a causa di ingerenze politiche, cerca di mostrare in diretta le prove di un complotto contro i cittadini ordito dal presidente in persona, avente a che fare con la stregoneria.

La vera sorpresa del festival, nonché uno dei migliori horror degli ultimi anni a mio parere. Ambientato nel 1987, Ponce fa del suo film un’inquietante e claustrofobica rilettura della vicenda dei figli perduti dei desaparacidos, guardando per temi ed estetica tanto a Essi vivono (il film è in bianco e nero) quanto a La svastica sul sole. Historia de lo oculto porta avanti la sua natura politica senza mai dimenticarsi di essere una pellicola di genere, infilandoci anche una pregevole sequenza psichedelica: per un film che punta moltissimo sui dialoghi, scritti a prova di bomba quanto la sceneggiatura, riuscire a tenere sul filo della tensione per tutta la durata è un doppio successo, merito anche di attori in parte ma soprattutto di un regista a cui auguro una lunga e prospera carriera.

The Brain that Wouldn’t Die (Derek Carl, USA 2020)

Trama – A seguito di un incidente d’auto uno scienziato folle, dedito a esperimenti poco ortodossi, decide di mantenere in vita la testa decapitata della fidanzata in attesa di trovarle un nuovo corpo. La ragazza, impotente, trova comunque il modo di ribellarsi al suo destino.

Remake di una pellicola del 1962, riportata in auge anche sotto forma di musical, il film di Carl estremizza la componente involontariamente comica dell’originale, rendendolo allo stesso tempo una parodia e un omaggio. Fedele all’estetica delle pellicole anni ’60, The brain that wouldn’t die intrattiene efficacemente con una recitazione volutamente macchiettistica e una trama strampalata: come per molti dei film trattati non ci si spaventa per niente, ma si ride di gusto.

Sleepless Beauty (Pavel Khvaleev, Russia 2020)

Trama – Un politico subisce un attentato in diretta televisiva, sopravvivendo all’agguato. In seguito, una giovane donna viene rapita dal suo appartamento e portata in un edificio abbandonato, dove sotto l’occhio di alcune persone collegate in streaming viene torturata per giorni, anche tramite la privazione del sonno.

Probabilmente la pellicola più horrorofica del lotto. Il film di Khvaleev fa sfoggio orgoglioso della sua appartenenza al sottogenere Torture, ma il senso di inquietudine si perde in una messa in scena che smorza la tensione e fa perdere quasi empatia con la sfortunata protagonista, costringendoci a farci semplici voyeur. Il legame fra la scena iniziale e il destino della protagonista, svelato solo nel finale, convince poco, molto efficaci in quanto a terrore sono invece le animazioni grafiche che la vittima è costretta a visionare durante la notte, una tortura virtuale che farebbe uscire di senno chiunque.

The Cyst (Tyler Russell, USA 2020)

Trama – Un dottore folle, specializzato nella rimozione di cisti, cerca di ottenere il brevetto per un avveniristico macchinario di sua invenzione. Pur di ottenerlo è disposto a tutto, anche causare involontariamente la creazione di una cisti mutante.

Ambientato negli anni 60, il film di Russell riprende l’estetica di quegli anni e testimonia di un fascino del passato molto in voga (trend ripreso anche da molti corti, che guardano invece perlopiù verso gli anni 80), pur con uno script originale a differenza di The brain that wouldn’t die. La pellicola è comunque piacevole, dura il giusto (poco più di un’ora), ha un buon ritmo e in alcuni punti riesce anche a creare tensione…una cosa da non dare per scontata quando il tuo mostro è una cisti gigante. Fra i pregi il cast, un piccolo gruppo di attori in palla tra cui compare in un piccolo ruolo anche Greg Sestero, attore nel cult movie The Room e autore del libro da cui James Franco ha realizzato la pellicola The Disaster Artist.

I corti

Parlare di tutti i corti in gara sarebbe improponibile, per cui mi limiterò a una veloce carrellata su quelli a mio parere più meritevoli.

  • Vestige, diretto dai francesi Pierre Marie Charbonnier e Simon Pierrat, che in soli due minuti riesce a creare la mitologia di una casa (e una macchina fotografica) infestata.
  • Mannequins, diretto dal russo Maksim Noginov, variazione sul genere “manichini inquietanti” con un sapiente uso delle luci.
  • Under the Lather, diretto dal francese Ollivier Briand, gusto anni 80 nel mettere insieme la classica storia della babysitter disattenta con quella di un bambino che fa un incontro molto particolare nella vasca da bagno.
  • The Zillas have a Picnic, diretto dal tedesco Christian Franz Schmidt, storia d’animazione in cui, come da titolo, la famigliola di Godzilla improvvisa un picnic CON Tokyo come buffet, litigando col kaiju vicino per il territorio.
  • Tooth Fairy, diretto dalla canadese Alice Bédard, non fosse altro che per l’estetica di una fatina dei denti veramente da incubi.
  • Brutal Reality, Inc., diretto dallo statunitense Erik Boccio, storia delirante su un musicista black metal che lotta per diventare agente immobiliare.
  • Dead End, diretto dall’inglese Jack Shillingford, bravissimo nell’unire un lupo mannaro (anche ben realizzato) e la microcriminalità in una narrazione breve ma che si chiude con un cerchio perfetto.
  • Eject, diretto dall’inglese David Yorke, sorta di miniepisodio di Black Mirror in cui una donna scopre di avere una porta USB nel braccio e abusa della “memoria aggiuntiva” messa a sua disposizione.
  • Grub, diretto dal francese Pierre Mazingarbe, spassosa storia sullo stile di Scappa – Get Out con i cannibali al posto dei razzisti.

Breve menzione anche per gli unici italiani in gara, i corti A Witch is Børn diretto da Otto e Fantasmagoria diretto da Riccardo Grippo, caratterizzati da estetiche lontane anni luce ma comunque originali: si spera portino il mondo dell’horror italiano un po’ più in là di quanto non abbia fatto lo scialbo Il legame.

I premi

Tenutasi in diretta facebook nel pomeriggio del 24 dicembre, la cerimonia di premiazione oltre ai vincitori finali ha annunciato vari premi speciali, che potete trovare elencati qui (vi anticipo solo che il mio favorito, Historia de lo oculto, si è portato a casa il premio Best Scare, ricevuto per il senso di inquietudine che pervade l’intera pellicola più che per un momento singolo). L’audience si è così espressa:

  • Best Lockdown Horror Short: Out-There, diretto dai giapponesi Shingo Taked e Shinsuke Fujioka
  • Best Horror Short: The Zillas have a Picnic
  • Best Horror Feature: Fried Barry

Per la giuria invece i vincitori sono stati:

  • Best Horror Short: Under the Lather
  • Best Horror Feature: Fried Barry
  • Honorable Mention: Get the Hell Out

Ed è tutto, diamoci appuntamento l’anno prossimo a Gorizia mentre io cerco di mettermi in contatto diretto con l’Argentina per chiedere a Cristian Ponce come ha fatto a creare quella figata incredibile di Historia de lo oculto!

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Racconto in musica 40: Il cappello (Weather Report – The pursuit of the woman with the feathered hat)

La pubblicazione di questo racconto non poteva arrivare nel momento migliore, ovvero subito dopo la sfida in cui si è decisa la composizione delle giovani proposte di Sanremo. Da qualche anno mi ha preso la curiosità di scoprire cosa cerca di propinarci la kermesse di musica nazionalpopolare più famosa d’Italia (complici visioni collettive prima riservate solo a quella discreta trashata dell’Eurovision), e mai come in seguito a questa visione è utile andare verso i classici per riprendersi un po’, visto che nel momento topico dell’ultima esclusione mi sono ritrovato nella classica situazione in cui devi scegliere tra la mamma e il papà…solo che in questo caso uno dei due ti picchia e l’altro abusa di te. Neanche l’indie ci salverà da Amadeus, per cui ben venga un salto nella storia della musica grazie al racconto di Enrico Redaelli basato su un brano degli Weather Report.

Enrico nasce in un imprecisato anno del ventesimo secolo, e dopo una formazione universitaria umanistica senza infamia e senza lode comincia a maturare velleità artistiche nel campo della scrittura, che lo portano a pubblicare nel 2010 la raccolta poetica La grande commedia umana (isole della vita) e due anni dopo il dittico teatrale Atti allo specchio . Come ogni buon aspirante scrittore dovrebbe fare si concentra anche sulla lettura, esplorando la narrativa in lungo e in largo. Che sia italiana o straniera, recente o meno, Enrico la passa al vaglio con attenzione clinica, tanto da finire a condividere la sua passione sulla web radio milanese Radio BlaBla Network: conduce infatti il programma Dantès – La trasmissione che non vuole avere fretta, dove si occupa di romanzi, racconti e letteratura varia, con un occhio attento anche verso esordienti e realtà indipendenti (ma con un blocco da superare verso Infinite jest di David Foster Wallace). La volontà di riprendere con la scrittura cova sotto le braci, tanto che lo ha portato a frequentare la scuola di scrittura Belleville di Milano: è lì che l’ho conosciuto, e sono felice di poter ospitare su queste pagine (schermate?) un grande conoscitore di letteratura e musica (in particolare ’70 e ’80), nonché un carissimo amico.

Possiamo considerare indipendente una band che usciva per un’etichetta che in Italia ha pubblicato il tanto odiato Gino Paoli? Certamente no, ma vicino a Natale siamo tutti più buoni e per gli Weather Report farò una doppia eccezione alla regola visto che sono pure sciolti da anni. Vale la pena però di ripercorrere almeno brevemente la carriera della band, formatasi attorno a un gruppo di musicisti che ruotava intorno all’immortale Miles Davis. Il pianista Joe Zawinul e il sassofonista Wayne Shorter ne sono stati l’anima stabile, affiancati negli anni (la band è stata attiva tra il 1970 e il 1986) da uno stuolo di musicisti impressionante, non ultimo quello che viene riconosciuto come uno dei migliori bassisti della storia, Jaco Pastorius, morto a soli 36 anni e da lì finito direttamente nell’olimpo dei musicisti tanto talentuosi quanto dannati. Gli Weather Report hanno segnato il mondo della sperimentazione musicale con il loro jazz fusion, pubblicando in carriera ben diciassette dischi tra album in studio e live: di questi vale la pena ricordare sicuramente su queste pagine il secondo, I sing the body electric del 1971, dove il synth fa la sua prima comparsa e il cui titolo riprende quello di un racconto di Ray Bradbury, a sua volta tratto da una composizione di Walt Whitman. Il disco probabilmente più famoso della band fu Heavy weather del 1977, grazie anche alla trascinante Birdland (che qui in Italia venne ripresa pure nella pubblicità dell’Amaro Ramazzotti), ma la carriera degli Weather Report durò altri dieci anni prima di interrompersi con This is this, album che vedeva la collaborazione in un paio di brani di un certo Carlos Santana (aneddoto a cazzo: ho visto una partita di baseball a San Francisco dieci anni fa, era la serata orgoglio latino e c’era ospite Santana che ha suonato…un campanaccio, probabilmente non lo pagavano abbastanza per imbracciare la chitarra). Generazioni di musicisti sono stati influenzate dalla musica degli Weather Report, probabilmente non quelli che fanno Trap ma non si può avere tutto dalla vita e, in fondo, il mondo è bello perché è vario (come rovinare un bel discorso con una sequela di frasi fatte, un applauso a me!).

The pursuit of the woman with the feathered hat proviene dall’ottavo album in studio degli Weather Report, Mr. Gone, e si contraddistingue per una rincorsa sonora cui il synth, soprattutto nella fase introduttiva, dona tratti vagamente misteriosi che ben si sposano con qualche influenza etnica. Enrico si è lasciato trascinare dalla parte più “mistery” della traccia, delineando una storia di inseguimenti e fughe in cui pathos e leggerezza vanno a braccetto in una commistione molto particolare. Potete leggere il racconto subito dopo il brano che ne fa da colonna sonora, tutto come al solito: a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Il cappello, di Enrico Redaelli

La donna si era nascosta dietro un impersonale portoncino in legno. Non sapeva chi fossero gli inseguitori, ma una cosa le era chiara: doveva fuggire.

Li aveva seminati, per il momento. Aveva il fiatone, non si era accorta di aver corso così tanto, né pensava di averne la forza. Le serviva una pausa per riprendersi e recuperare una certa lucidità mentale, sperando che quel nascondiglio, pur con la luce del giorno, la mantenesse celata per il tempo necessario.

In mano stringeva il suo cappello in vimini a larga tesa, tutto nero, con una strana piuma di color blu elettrico. Era il suo portafortuna, ma ora si trovava a dover compiere una scelta importante.

Nella fuga quel cappello voluminoso avrebbe potuto solo esserle d’impiccio. Per non parlare della piuma, quella l’avrebbero vista ad occhio nudo anche da Marte. Del resto non poteva pensare di rimanere lì in eterno, non sapeva nemmeno in quale punto della città fosse.

Nonostante fosse passato del tempo (quanto?) il sole sembrava ancora alto. Il timore del buio le diede comunque il coraggio per continuare la fuga, e di decidere le sorti del suo beneamato cappello.

Scorreva da quelle parti un’ansa dimenticata del fiume che tagliava in due la città. Fu proprio su quelle acque che decise di abbandonare il suo portafortuna. Dopo essersi sporta dal suo nascondiglio, con fare avveduto, lo depositò sulla superficie e vide che non affondava miseramente, sembrava anzi essere cullato da quello specchio d’acqua. Rimase a guardarlo mentre si allontanava, come una madre vede il figlio allontanarsi verso l’orizzonte.

Il cappello li avrebbe distratti, sperava. Il pensiero le diede fiducia: si inoltrò verso la città con meno paura, seguendo il corso del fiume.

Una volta ritrovato l’orientamento fece sosta in un bar, scegliendo un tavolino al riparo dai passanti. Da quel punto aveva una buona visuale, poteva controllare con pochi rischi e cercare di localizzare i suoi inseguitori.

Col cuore in gola vide un motoscafo della Polizia avvicinarsi a tutta birra. Si fermò lì vicino, e non credette ai propri occhi quando riconobbe i suoi inseguitori all’interno, in arresto. Non era un’illusione, dal suo angolo poteva distinguere comodamente quelle figure ostili fino a poco prima.

Era salva! Un’improvvisa leggerezza la colse, la voglia di correre a perdifiato, di gridare a squarciagola fino all’inverosimile, ma si contenne. Poteva tornare a casa, e per farlo prese un vaporetto a due piani, attraversando i canali della città. Al piano superiore, scoperto, scelse un posto centrale a prua, per godersi meglio la ritrovata libertà.

L’aria, il sole, il vento e quella sensazione di vittoria, tutte insieme, le regalarono anni di rinnovata giovinezza. All’attracco, mentre scendeva dalla passerella per tornare sulla terraferma, vide in una zona di acqua pulita un cappello piumato.

Chiese aiuto per recuperarlo e, magia delle magie, vide che era il suo cappello, nemmeno troppo rovinato.

Il suo portafortuna era salvo e, soprattutto, era salva lei.

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Racconto in musica 39: L’extracomunitario (Duo Bucolico – Akulimifamukà (grandinerà di brutto))

Dopo essermi reimpossessato di questo spazio settimana scorsa oggi lascio le redini completamente, ritagliandomi un ruolo marginale. Per il racconto di questa settimana infatti è stato l’autore Luca Alessandrini a suggerirmi la band da associare, ovvero il Duo Bucolico, e io mi sono limitato a concordare con lui un brano della discografia che fosse affine alle tematiche affrontate. Conoscevo già di nome il gruppo formato da Antonio Ramberti e Daniele Maggioli, ma è stata una sorpresa scoprire che ho incrociato dal vivo una metà del duo: Ramberti infatti fa parte anche del progetto Slavi – Bravissime persone, capaci di far ridere e ballare tutti in quel paio di concerti tenuti a Novara in cui ho avuto la fortuna di essere tra il pubblico, e visto che la band ha appena fatto partire una campagna abbonamenti su Patreon io ve la butto lì, metti che vien voglia di approfondire la conoscenza e godervi il loro show. Ma ora andiamo con ordine e presentiamo i protagonisti di questa settimana.

Luca Alessandrini si definisce, con l’ironia che contraddistingue anche il suo testo, ex calciatore, ex edicolante ed ex bel ragazzo. Al momento lavora invece come tecnico di laboratorio analisi e, grazie all’insistenza della moglie, associa a questo impiego le mansioni di falegname, massaggiatore Shiatsu, intrecciatore di coroncine celtiche e martire in attesa di beatificazione. Vive in un borgo contadino sul fiume Conca, attorniato da un numero considerevole di polli, mucche e maiali, oltre che da una serie imprecisata di storie da raccontare. Dove trovi il tempo di raccoglierle e metterle su carta queste storie io non lo so, ma Luca ci riesce e pure in maniera proficua: ha pubblicato alcune poesie grazie alla partecipazione a concorsi letterari, vinto con il racconto Muri il concorso organizzato dalla rivista Bref Cubia e pubblicato suoi testi sulle raccolte di racconti È sempre tempo di eroi e Il ritorno del Re della casa editrice Il Cerchio. Luca è apparso anche su Rivista Blam e Il paradiso degli orchi, e presto altri suoi racconti arriveranno su Voce del verbo e SguardIndiretti.

Il Duo Bucolico si forma ufficialmente nel 2005, quando con questo nome Antonio Ramberti (tastiera e voce) e Daniele Maggioli (chitarra e voce) fanno il loro esordio presso una sagra di paese. Da lì i due cominciano subito a girare l’Italia con la propria musica, un percorso che li porterà nel 2008 a incidere con Cinedelic Records il primo album, Opere di cantautorato illogico, un disco che è anche una dichiarazione d’intenti: definiscono la loro musica infatti come “cantautorato illogico d’avanguardia”, un modo come un altro per definire quel mix fra canzone d’autore, ironia e sregolatezza che li contraddistingue. Il sodalizio tra il Duo e l’etichetta prosegue tuttora, e ha fruttato nel tempo altri sei album di cui l’ultimo, Random, uscito a marzo 2019. Molte le collaborazioni che hanno stretto nel tempo, fra cui quella col cantautore Giacomo Toni per il brano Il bevitore longevo (apparso nel disco Bucolicesimo del 2011, periodo nel quale si forma la Banda bucolica, orchestra che li accompagna saltuariamente in concerto) e quelle con Supermarket e i compianti Camillas, rispettivamente nei brani Senza te sto e Barbanera dell’album Cosmicomio, la cui cover è opera di Lorenzo Kruger dei Nobraino. Il suo meglio il Duo Bucolico lo dà nei concerti, caratterizzati da improvvisazione libera e un continuo contatto col pubblico, e dopo aver visto Antonio dal vivo non fatico a crederlo: appena questo periodo sarà passato diamoci appuntamento sotto a un palco, per scoprirli o goderseli nuovamente.

Il racconto che Luca mi ha inviato ha molti tratti in comune con la canzone Akulimifamukà (grandinerà di brutto), contenuta nell’album Colonnello Mustafà: sono entrambe storie di immigrazione e di gente troppo impegnata per dar loro attenzione, caratterizzate dal tono ironico ma da una sottile vena amara. Dagli spazi immensi dei territori dei nativi americani a quelli di Nigeria e Congo si stende quindi un filo che vi invito a seguire, ascoltando e leggendo: trovate tutto qui sotto, a me come al solito non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

L’extracomunitario, di Luca Alessandrini

L’extracomunitario è il nemico mortale del cumènda indaffarato che interseca la città a cavallo di Suv grossi come autoblindo. Il cuménda non si capacita di come si possa avere un colore talmente strano, vestirsi così male e scegliere di fare l’extracomunitario, con tutte i lavori che c’è nella vita…

L’extracomunitario, se spogliato dalle apparenze, assomiglia molto al nostro vicino – magari meno incazzato perché, mentre i piccoli guai fanno arrabbiare, le grandi tragedie fanno riflettere.

È parte di una marea umana crocifissa dal sole del sud del pianeta, che nessuno fermerà, perché fame e disperazione sono più forti della paura.

La razza dei cuménda l’ha conosciuta in passato, quando erano loro a invitarlo nei villaggi turistici dell’Alabama o della Virginia. Ai più fortunati organizzavano addirittura un posto un posto più esclusivo – Gran Riserva – ché tutto quello spazio – foreste, laghi, praterie e bisonti – era sprecato per così poca gente rimasta.

Di questi privilegiati ci resta solo questa breve testimonianza filmata.

Il vecchio curvo col naso adunco e le trecce grigie ricorda una befana abbronzata. Ha in testa una specie di fagiano morto e si è colorato la faccia coi carioca. Ma sembra lo stesso molto triste.

Una volta eravamo un grande popolo. Facevamo la lotta coi bisonti, e fumavano pipe birichine, piene di erba della pace. Non facevamo altro per tutto il giorno, solo mangiare, dormire, fare pacianga pacianga con le squaw e pregare Manitù – che poi era quello che facevano i preti bianchi che ci chiamavano selvaggi.

Si, ogni tanto tiravamo delle frecce. Ma piano…

Poi un giorno arriva l’uomo bianco e dice: “La terra che avete abitato fino a ora è mia.”

Allora abbiamo fatto la guerra – più per non pagar l’affitto arretrato che altro.

L’uomo bianco aveva uno strano modo di combattere, niente spettacolo, tutti in quadrato e mille scorrettezze. Tipo Trapattoni. Noi facevamo la zona pura e perdemmo.

Allora l’uomo bianco ci mise nelle riserve, per impedire che altri bianchi continuassero la stagione di caccia.

Ma ci ripensò: disse che anche la terra delle riserve era la sua e ci fece dividere in piccoli gruppi, lontani gli uni dagli altri.

Andammo nelle città dell’uomo bianco, solo che nessuno ci voleva, e ci dicevano: “Va a lavorà, terun!”

Così, uno ad uno, tutti i piccoli fuochi del grande spirito si spensero.

Sono rimasto solo io, Grande Orso Duracéll, e tra poco pure io me ne andrò.

Forse era questo che l’uomo bianco voleva: che tutti quelli diversi da lui se ne andassero da questa terra.

Per sempre.

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His house, quando la paura non viene (solo) dall’horror

Quando ho parlato di Lovecraft country (o meglio dello scrittore che le sta dietro) ho detto che la serie usciva in un anno di riscoperta dell’autore di Providence, ma la serie si ricollega anche ad un altro filone molto prolifico: quello che unisce l’horror alla critica sociale. Non è che sia esattamente una novità, basti pensare all’iconico La notte dei morti viventi di George A. Romero che risale addirittura al 1968, ma da qualche anno a questa parte c’è stata una riscoperta delle potenzialità del genere per fare luce su aspetti controversi della società. Se è difficile inquadrare chi sia stato il capostipite di questo rinnovato interesse (prendendola molto alla larga anche You’re next del 2011 parte da una dinamica di critica delle classi più abbienti, divertendosi molto nel farle letteralmente a pezzi) di certo grandi meriti vanno alla casa cinematografica Blumhouse, a cui si devono la saga di The purge, l’insolito sguardo femminista nel recentissimo remake de L’uomo invisibile diretto da Leigh Whannell e, soprattutto, la scoperta del talento di Jordan Peele, capace con Scappa – Get out di arrivare addirittura a vincere un Oscar (a fronte di quattro nomination) per la miglior sceneggiatura originale. Certo, io l’avrei dato a Martin McDonagh per Tre manifesti a Ebbing, Missouri, ma non è questo il punto.

Col suo esordio alla regia Peele è riuscito a portare all’attenzione delle platee cinematografiche la condizione della comunità nera negli Stati Uniti in maniera originale, permettendosi di allargare il tiro col successivo Us ma ritornando sul tema proprio con Lovecraft country, serie che lo vede fra i produttori. La lezione è stata ben recepita anche da Netflix, che con His house si concentra, più che sulla questione razziale in sé, su una tematica di più ampio respiro che ci tocca molto da vicino: quella dei migranti.

Remi Weekes, regista e sceneggiatore, aveva alle sue spalle solo qualche cortometraggio (di cui uno finito nella miniserie a tema horror Fright bites, inedita in Italia per quanto mi risulta) prima di girare questo film, ma dimostra di avere già le idee chiare e un’ottima capacità di metterle in scena. Il film racconta la storia di Bol (Sope Dirisu) e Rial (Wurmi Mosaku, apparsa indovinate un po’ dove? In Lovecraft country!), una coppia sudanese riuscita ad arrivare in Inghilterra dopo uno dei terribili viaggi della speranza che, come capiamo fin dall’inizio, è finito in tragedia. Dopo aver passato mesi in un centro d’accoglienza i due riescono ad accedere ad un periodo di prova all’esterno, anticamera dello status di rifugiati politici, in cui rientra anche l’assegnazione di una casa. Il sogno di una nuova vita sembra realizzarsi, ma l’orrore è dietro l’angolo, o meglio dentro le stesse pareti che li ospitano: gli incubi cominciano a tormentare Bol, e la moglie Rial si convince che uno stregone li abbia maledetti.

Se c’è una cosa che riesce benissimo a His house, prima ancora di incutere paura nello spettatore, è quella di far capire con pochi dettagli cosa voglia dire essere emarginati. Non si può dire che il sistema di accoglienza, nella figura di Mark (Matt Smith), li tratti male, ma si capisce benissimo che da loro non si aspettano altro che grane: le spiegazioni eccessivamente dettagliate, lo stupore di fronte a qualunque loro capacità di comprensione e le continue raccomandazioni creano un disagio palpabile, soprattutto sapendo che le cose non potranno che peggiorare. Questa angoscia non ci abbandona mai, ed è forse acuita da scene più rilassate, come quella in cui Bol, cercando di integrarsi, si mette a cantare con alcuni tifosi in un pub un coro dedicato al calciatore Peter Crouch: quando racconta l’accaduto alla moglie lei gli dà del ragazzino, ma l’impressione che emerge dalla scena è quella della macchietta a cui viene “concessa” la simpatia dal gruppo proprio per il suo stare alle regole, senza andare troppo in là. Le esperienze che ha Rial nelle sue rare uscite sono peggiori, ma in generale la loro situazione sembra claustrofobica non tanto per quello che potrebbero fargli (la vicina, manifestamente ostile, non sembra comunque questo gran pericolo), quanto per il fatto che non è loro permesso nessun passo falso.

Quando l’orrore si insinua lentamente nella vita della coppia lo fa di pari passo con la loro condizione di rifugiati, in molteplici maniere. Lo stregone e ciò che evoca per tormentarli sembrano vivere all’interno delle pareti, in quella casa che dovrebbero mantenere in perfetto stato (se così si può dire di una stamberga fatiscente che però, gli viene ricordato più volte, è più grande degli appartamenti dove vivono gli impiegati dell’immigrazione) ma che finisce per essere vandalizzata con possibili ripercussioni sul loro permesso di soggiorno; le visioni si concentrano principalmente sulla figura della figlia, persa in mare durante il naufragio con cui si apre il film, come anche sui morti che si sono lasciati alle spalle in Sudan, portandoli a subire gli effetti della Sindrome del sopravvissuto; la maledizione convince Rial che non ci sia posto per loro lì, che dovrebbero andarsene e tornare da dove sono venuti.

È una lotta contro tutto e tutti quella che ingaggiano, persino contro loro stessi. In questo è molto efficace la scelta del regista di pescare dal folklore del loro paese d’origine ciò che li minaccia (una scelta condivisa con un altro horror targato Netflix, Il legame, che anche a causa di un Riccardo Scamarcio impagliato testimonia di quanto l’Italia sia ancora indietro nel genere), una presenza incombente che per Rial arriva quasi a essere familiare, l’ultimo legame con la terra che ha dovuto lasciare ma che, di fronte ad un nuovo paese che la rifiuta (emblematica è la scena in cui, chiedendo aiuto a dei ragazzi neri, si ritrova presa in giro e insultata), torna a rimpiangere, accusando anzi Bol di volersi umiliare per della gente che non merita il loro rispetto.

I rari momenti di pausa dall’orrore non fanno che proiettarli in dinamiche che potrebbero causar loro il ritorno in un orrore se possibile più tremendo, quello della guerra civile da cui sono sfuggiti a costo di enormi sacrifici. Quanto siano stati grandi questi sacrifici, e quanto terribili siano state le scelte che hanno preso durante la fuga, lo scopriremo solo alla fine, dopo aver più volte sobbalzato sulla sedia a causa delle notti passate nella casa.

Weekes sfrutta il buio per fare paura, ma per quanto la scelta sia classica il modo in cui lo fa riesce a essere personale e inquietante al punto giusto, sia per quello che mostra che per la tensione che riesce a creare quando invece lascia solo intuire che c’è qualcosa che non va. Ci sono i jump scare, le figure nascoste in secondo piano, ma questi trucchi del mestiere sono usati con metodo e sono sempre funzionali alla storia, senza diventare dei semplici mezzi per ricordarci ogni tanto che “ehi, è pur sempre un horror”. Al suo primo lungometraggio Remi Weekes piazza un colpo da maestro, un film che fa male e non cerca di edulcorare niente di ciò che mostra, reale o fantastico che sia. Non lancia accuse apertamente, mostra semplicemente una storia e lascia che sia lo spettatore a capire quanto possa essere terribile passare attraverso certe esperienze: quel che di solito fa il grande cinema.

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Racconto in musica 38: Un sacrificio (Zu – No pasa nada)

Se, quando pensate al concetto di successo musicale italiano all’estero, vi viene in mente Laura Pausini in tour in Sudamerica…siete sul blog sbagliato. Potreste trovarvi un po’ più a vostro agio fra queste schermate se vi vengono in mente i Lacuna Coil, ma ancora non ci siamo. La mia concezione di questo successo è quando i tuoi album escono per l’etichetta dei Neurosis, come capita agli Ufomammut, o come quando, ad esempio, Mike Patton suona insieme a te per svariati concerti, licenzia i tuoi album per la sua Ipecac Recordings, fai concerti un po’ in tutto il mondo e collabori con la crème de la crème della musica sperimentale, da Damo Suzuki ai Current 93: tutto questo, e molto altro, lo hanno fatto gli Zu.

Non ricordo esattamente quando ho sentito parlarne per la prima volta, ma fu all’uscita di Carboniferous nel 2009 che mi accorsi veramente di loro: tutto l’album è stato considerato un capolavoro, ma quella bordata sonora incredibile di Ostia basterebbe già da sola, tanto che me la misi come sveglia quando andai ad abitare da solo e, dopo un viaggio di 760 chilometri fra Novara e Roma in bicicletta, andai sul lido di Ostia solo per fare un video della spiaggia con in sottofondo la loro canzone (il video è uscito male e mi sentivo un cretino, ma cazzo che brano). Li ho visti solo tre volte dal vivo, la prima al geniale MiOdi al Circolo Magnolia di Milano, ma l’ultima mi è rimasta particolarmente impressa: suonavano all’edizione 2017 del Libera la festa, a Osio Sopra nella bergamasca (tenete d’occhio questo festival, per quando si potrà tornare a vedere concerti), e per varie ragioni non potei rimanere fino alla fine dell’esibizione, ma l’unico modo che trovai per andarmene fu letteralmente SCAPPARE tra un pezzo e l’altro perché la potenza che emanavano era tale che non riuscivo a muovermi mentre suonavano.

Ok, mi direte voi, ma dopo tutta sta premessa ci vuoi dire finalmente cosa fanno gli Zu? Fanno, o facevano, Jazz-Core, che è un termine riduttivo per definire la capacità di improvvisazione, furia e ricerca sonora che sta dietro alla carriera più che ventennale di Massimo Pupillo (basso), Luca Mai (sax) e Jacopo Battaglia (batteria), la base storica della band (Jacopo lascerà nel 2011 per poi tornare nel 2017). La loro musica è in evoluzione continua, dal primo album Bromio del 1999 (in cui figura anche Roy Paci) ai dischi più recenti in cui si è aggiunta la chitarra di Stefano Pilia ma sono i synth analogici ad aver preso il sopravvento (l’ultimo è Terminalia Amazonia del 2019), il tutto passando per migliaia di concerti, collaborazioni interne al gruppo e progetti paralleli (mi capitò di recensire gli Ardecore, supergruppo in cui militava tutta la band dedicato alla rivisitazione della musica tradizionale romana, come anche gli Udus di Luca Mai e un album ultrasperimentale di sonorizzazione di radiodrammi fantascientifici degli anni 60 con Massimo Pupillo, ma fra i vari altri progetti vale la pena ricordare Mombu, Bloody Beetroots, Dark Night Mother e i Pleiadees, protagonisti di uno degli ultimi concerti “elettrici” che sono riuscito a vedere). Capirete che riassumere in poche righe una carriera lunga sedici album, alcuni split, momenti di pausa (fra il 2011 e il 2014 la band fu sul punto di sciogliersi, salvo poi tornare con quelle bombe dell’ep Goodnight civilization e del disco Cortar todo) e collaborazioni a varie compilation è un’impresa impossibile, per cui prendetevi un attimo di tempo, andate qui e studiate, da bravi: questa è storia della musica italiana.

Il mio amore spassionato, all’interno della discografia sterminata degli Zu, lo conservo per il già citato Cortar todo, e non potevo che pescare da questo serbatoio per il racconto della settimana: No pasa nada è la traccia numero sette del disco, un terremoto sonoro in cui basso e batteria (qui suonata da Gabe Serbian dei Locust) creano una tensione maligna che si risolve nelle esplosioni apocalittiche del sax. Ispirato dal titolo e dai movimenti del brano ho cercato di creare qualcosa di oscuro e barocco, magniloquente a tratti, un percorso letterario che si inoltra NEL labirinto più iconico che ci sia e che già in partenza si inchina a chi, come Borges, gli ha reso onore in maniera certamente più originale: se sarò riuscito perlomeno a ricreare con le parole le sensazioni che dona la canzone potrete dirmelo voi, ascoltando e leggendo (magari insieme, è fortemente consigliato) più in basso. Buon ascolto, e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Un sacrificio

Lenti emergono dal buio, avanzando con fatica, magri, pallidi e tremanti, rosse solo son le dita. Regge uno il lume in mano, rabbia impressa sul suo volto, l’altro gonfio di singhiozzi, segue pian con occhi folli. Tentan di fuggir la morte, un destino già segnato, ove si aspettavan gloria, li attendeva l’abominio.

E risuona all’improvviso il grido tonante della bestia, mortali! Chinatevi al suo cospetto e abbandonate la speranza. S’annuncia nel suo lamento oscuro la volontà del Dio, una brama di carne, sete di sangue, l’esigenza di ricever ciò che è suo di diritto!

Sgorgan lacrime e sospiri, improperi a fior di labbra, il più debole s’accascia, l’altro a forza lo trascina. Da pentirsi han, nel ricordo, della furia su un compagno, dello zelo ormai assurdo in quel dargli del blasfemo. Egli volle lasciar segni, quali mappa fra le svolte, ma il ritorno, condannaron, era torbida eresia.

Ma l’arrivo al centro dell’intrico non è beatitudine, niente nobiltà nell’agguato, improvviso, furioso, nel sangue che scorre a fiumi e nelle grida dei compagni sventrati, gli arti strappati da un mostro che rifugge il sacro, induce alla pazzia, blocca col terrore della sua presenza gli stolti che ancora sperano in un sacrificio giusto, un benevolo aldilà, ma quale Dio può concepire questo orrore, dare in pasto l’uomo ad una simil bestia? Non può finire con la resa il loro destino, non possono raggiunger tutti insieme quelle zampe, e per il duo che si lascia alle spalle il massacro ogni urlo reca echi diversi, per uno esortazioni alla fuga, per l’altro solo condanne di vigliaccheria.

E come orrore della mente ecco giungergli alle spalle la bestia ruggente, guardate! Il pelo è lordo delle viscere dei compagni, i suoi artigli bramano coloro che le son sfuggiti. Resta immobile il debole di fronte a quel terrore, al volere divino che ne reclama la morte, e all’avvicinarsi di zanne e bava solo riesce ad aprir bocca per urlare, costretto al dolore, alla morte, ad un supplizio senza fine!

Fugge ancora, da meschino, l’ormai solo ancora vivo, il compagno offerto in pegno per del tempo guadagnato. Corre cieco, urta i muri, senza lumi né premura, mentre intanto alle sue spalle sceman grida d’agonia. D’improvviso, par miraggio, un chiarore che s’insinua, torce appese attorno all’arco che delimita l’uscita. Causa fretta ed isteria, non s’accorge se non tardi del metallo che lo frena, della fin d’ogni speranza.

I cancelli sono chiusi, e la bestia già s’appresta.

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Distratta-Mente, l’esordio discografico della band Il pretesto

Strano percorso quello dei romani Il pretesto, visto che arrivano al primo full length a ben nove anni di distanza dalla formazione della band. Il tempo è servito per virare verso nuovi orizzonti musicali, cioè dal punk rock degli esordi a un electro-indie dai suoni più morbidi e curati, e la stessa realizzazione del disco è stata fatta senza eccessiva fretta, se si conta che il primo singolo Novembre è uscito poco più di due anni or sono: in questo arco di tempo il gruppo si è anche stabilizzato in una formazione a tre, formata dai fratelli Raffaele (voce e chitarra) e Stefano Doronzo (batteria), cui si aggiunge il bassista Alessio Luigi Dastoli. Il tempo occupato a lavorare sui pezzi ha sicuramente dato i suoi frutti, soprattutto dal lato produttivo, ma Distratta-Mente non è comunque esente da piccoli e grandi difetti.

Il disco viene presentato come un concept che ruota attorno alle problematiche della società odierna, ma i testi non presentano la profondità che mi sarei aspettato da questa premessa. Fin dall’iniziale Fiori di fenice gli Il pretesto danno più l’impressione di puntare sull’effetto scenico di certe frasi che sul costruire testi davvero impegnati: funziona poco anche la scelta di ricorrere spesso allo spoken word, variante vocale utilizzata con poca personalità e che finisce per sminuire anche un brano come Condanna, in cui l’atmosfera di disagio creata ad hoc dagli strumenti non viene adeguatamente supportata dalla voce.

Dal punto di vista musicale Distratta-Mente risulta piuttosto vario, con la chitarra che tesse spesso melodie funkeggianti e una sezione ritmica brava ad adeguare tono e ritmo a seconda dell’atmosfera dei brani. Gente distratta e Vorrei cambiare canale alla tua voce sono i momenti dell’album in cui si fa maggiormente uso dell’elettronica, e hanno un’aria indie modaiola che è l’anima che convince meno degli Il pretesto: fanno sicuramente meglio in Novembre, tutta costruita attorno a una linea melodica su cui gli strumenti si aggiungono poco alla volta (particolarmente efficace la chitarra, con arpeggi dai tratti vagamente noise), e nella conclusiva Eclissi, capace di unire nei ritornelli una linea vocale molto pop con suoni che, soprattutto nel finale, non disdegnano una certa aggressività. La varietà stilistica non sembra però ancora segno di un sound ben definito quanto di una ricerca sonora ancora in corso, come conferma anche la sterzata verso sonorità da alternative rock anni novanta della pur piacevole Magnum.

Solo sette brani per una mezz’ora scarsa di musica in questo Distratta-Mente, un’opera prima con evidenti sbavature ma anche qualche merito, fra cui vale la pena citare un lavoro di produzione e registrazione pulito e attento (solo i ritornelli di Gente distratta sembrano un po’ fuori fuoco, a causa di un’eccessiva compressione) e degli arrangiamenti capaci di qualche buon guizzo. Il disco esce per Alka Record Label, etichetta ferrarese attiva da quindici anni e con un nutrito e variegato roster di artisti.

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Racconto in musica 37: Se si potesse andare oltre (Offlaga Disco Pax – Venti minuti)

La linea che ho tenuto fino a questo momento nel blog è stata (quasi sempre) coerente: prendere ispirazione da (o associare a) un musicista o una band del panorama musicale indipendente per ogni racconto, di modo che poteste scoprire musica nuova e, chissà, andare anche ai loro concerti. Quest’ultima opzione non sarà possibile con la band di cui sto per parlarvi, ma quando ho letto il racconto che mi ha inviato Arianna Cislacchi il collegamento mi è venuto automatico e, sebbene il gruppo in questione si sia sciolto, per me è un piacere e un dovere parlarne a quelli (spero pochi) che ancora non li dovessero conoscere: sto parlando degli Offlaga Disco Pax.

Iniziamo presentando però Arianna Cislacchi, alla cui penna (che è un modo di dire più romantico de “alla cui tastiera”) si deve il racconto della settimana. Ventinovenne, è nata ad Albenga ma vive a Torino fin dai tempi dell’Università, dove ha conseguito la Laurea in Scienze dell’educazione. Lavora come educatrice in una scuola, nel tempo libero suona il pianoforte, dipinge e, ovviamente, scrive. I suoi racconti sono apparsi su molte riviste letterarie: Spore rivista, Voce del verbo, Narrandom, Cedro mag., Il fuco, Mirino, e altri appariranno presto su Malgrado le mosche e sul sito del Museo archivi storici di Sinnai. Potete trovare un suo scritto anche all’interno della raccolta Racconti dal Piemonte 2020, edita da Historica Edizioni.

Che dire invece degli Offlaga Disco Pax? Negli ultimi vent’anni sono stati una delle band che più è riuscita a crearsi un’anima originale e riconoscibile, pur partendo da elementi (la new wave musicalmente, lo spoken word vocalmente) già esistenti ma ricombinati in una maniera estremamente personale. Merito soprattutto dei testi di Max Collini, che con le sue storie di vita vissuta ha creato un micromondo in cui è palese la sensazione di sconfitta di un movimento sentitissimo, quello socialista, ma rendendo possibile allo stesso tempo riderci e piangerci sopra: in un mio improvvisato viaggio in bicicletta da Novara a Roma feci sosta a Reggio Emilia solo per vagare fra i luoghi che facevano da sfondo ai suoi testi, dall’ex sede del Partito alla Via Fontanelli dove abitava “Malboro senza R“, dalla Via Guarsico dove suonarono i Police allo stadio della Reggiana…e tanti altri ne avrei visitati se non avessi avuto le gambe a pezzi e i colli bolognesi ancora da affrontare. Su tutte le storie narrate da Max nei tre album usciti fra il 2003 e il 2013 (Socialismo tascabile (Prove tecniche di trasmissione), Bachelite e Gioco di società, più i due Ep Onomastica Odp 147 e Prototipo Casio Odp 151) si appoggiano le tessiture sonore create da Enrico Fontanelli (basso e tastiere) e Daniele Carretti (chitarra e basso), spesso minimali e capaci di ricreare in maniera perfetta l’atmosfera adatta, che sia quella di un processo ad una nota serial killer o la parabola di riscatto sociale di un gamberetto in via d’estinzione. La storia musicale degli Offlaga si ferma nel 2014 e nel modo peggiore, a causa della morte per malattia di Enrico Fontanelli (a cui l’anno scorso è stata dedicata una mostra delle sue opere grafiche a Reggio Emilia), quella di Max e Daniele continua: il primo con Jukka Reverberi dei Giardini di Mirò ha fondato già dal 2013 il duo Spartiti (oltre a girare l’Italia col suo spettacolo Max Collini legge l’indie, approdato quest’estate anche nella fantastica cornice del Labirinto della Masone), il secondo col suo progetto solista Felpa.

Venti minuti, traccia conclusiva dell’album Bachelite, è una delle canzoni più emozionanti degli Offlaga Disco Pax. Parla dello strano rapporto che si crea fra Max e un ex commilitone del padre morto, col quale ad ogni Natale si rinnova lo strano rituale di una telefonata dalla quale emerge un ritratto del genitore inedito per il figlio. Il telefono, gli scherzi della memoria e il rapporto con il padre sono al centro anche del testo di Arianna, motivo che mi ha spinto, forse un po’ forzatamente, a compiere l’associazione: le sensazioni che ho provato ascoltando la canzone e leggendo il racconto sono però simili, e spero che anche voi riusciate a provarle. Trovate come al solito la canzone qui di seguito e il racconto poco più sotto, a me non resta che rinnovarvi i miei auguri di buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti, questo è l’unico dove sono riuscito a trovare tutte le canzoni).

Se si potesse andare oltre, di Arianna Cislacchi

Ecco che ci risiamo.

Sono le quattro e il telefono, puntualmente, squilla. Rimango supino, con le dita che tentano di afferrarlo. Fuori è ancora buio. Per una volta mi piacerebbe non rispondere. Vorrei fregarmene, farlo arrabbiare, schiumare, preoccupare, che gli venisse un’ulcera, insomma. Ma poi, puntualmente, alzo la cornetta e rispondo con il tono più paziente possibile.

«Pronto, chi parla?»

«Giorgio, sei sveglio?»

«… No».

«Ah. E come fai a rispondermi se non sei sveglio?»

«…»

«Giorgio, che fai?»

«Nulla. Dormo. O almeno, ci sto provando».

«Perché?»

«Perché sono le quattro del mattino e santo cielo, dovresti dormire anche tu».

«Ma io non ho sonno».

«Va bene. Che c’è questa volta?»

«Perché dici questa volta?»

«Perché… Niente, lascia stare. Piuttosto, tutto bene? È successo qualcosa?»

«La mamma non è ancora tornata. Secondo te devo telefonarle?»

«Papà, la mamma…»

«Che giorno è oggi Giorgio?»

«Il 28 settembre».

«Ah, giusto. La mamma aveva il turno di notte oggi?»

«Papà, ascolta…»

«Scusami Giorgio se ti ho disturbato. So che ti svegli presto per andare a lavoro. È che tua madre mi fa sempre preoccupare quando lavora all’ospedale di notte. Ho sempre odiato i turni notturni».

«Non ti preoccupare papà. Vedrai che la mamma arriverà da un momento all’altro».

«Sì, lo credo anche io. Allora buonanotte».

«Buonanotte».

«Giorgio?»

Chiudo gli occhi e sospiro.

«…Sì?»

«La mamma sta bene, vero?»

«…Sì, papà. Stai tranquillo. La mamma sta benone».

Mio padre riaggancia e io fisso il vuoto. Stringo la cornetta contro l’orecchio; sono stanco. E sfinito. Tutto, mi sfinisce.

Con oggi sono quindici anni, quindici lunghissimi anni. Rimango sotto le coperte, pensieroso, con il corpo in tensione; mi sembra di respirare male. La stanza si fa improvvisamente stretta e angusta.

Ogni notte mio padre mi telefona alla stessa ora. Ogni giorno, per lui, è un ripetersi degli eventi. È convinto che lavori ancora nel mio vecchio ufficio, che sia scapolo e viva nel minuscolo appartamento al fondo della strada. E che mia madre sia in ritardo da lavoro.

La settimana dopo lo raggiungo in struttura. Quando entro le infermiere mi accompagnano gentilmente nella sua stanza e ci lasciano soli. Eccolo lì: seduto vicino alla finestra, con le mani appoggiate al vetro. È tutto un fremito, appena mi vede.

«Giorgio! Che ci fai qui?»

«Ho preso un permesso».

Mio padre non risponde. Torna a spiare i giardini di fronte alla sua camera. Più lo guardo, più mi sembra un bambino sperduto.

«Sto aspettando che torni tua madre».

«Papà, ascoltami ti prego, ora basta…»

«Odio quando fa i turni di notte. Mi manca sempre, quando non è a casa».

«Papà…»

Per un momento, mio padre mi getta uno sguardo lucido, come se avesse visto qualcosa di inaspettato. Come se si fosse svegliato da un lungo sogno.

«Giorgio… Che giorno è oggi?»

Sto per rispondere, ma una morsa mi stringe lo stomaco. Vedo mio padre sussultare. Mi strofino gli occhi per trattenere le lacrime, e mi chino vicino a lui per abbracciarlo.

«Il 28 settembre, papà. E mamma sta benone».

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Matt Ruff chi? Viaggio tra i libri dell’autore di Lovecraft Country

Non so voi, ma io mi sono messo subito a guardare i titoli dei libri alle sue spalle

È strano come il 2020 si sia ricordato tutto a un tratto di Howard Phillips Lovecraft. Non che l’autore di Providence sia mai stato dimenticato, essendo uno dei padrini dell’horror moderno il cui influsso non smetterà mai di influenzare nuove generazioni di artisti, ma che nello stesso anno vedano la luce progetti come il film Il colore venuto dallo spazio (di cui qui potete trovare un’interessante recensione), tratto da uno dei suoi racconti più riusciti, e la serie Lovecraft Country, molto liberamente ispirata alle sue storie, è quantomeno curioso. Ci mancava giusto quel Alle montagne della follia che Guillermo Del Toro ha inutilmente cercato di girare qualche anno addietro e avremmo fatto l’en plein di orrori cosmici.

In questo articolo però non parlerò di Lovecraft, ma utilizzerò la serie HBO come mezzo per parlare dell’altro scrittore che sta dietro alla sua realizzazione: per prendermi insomma la soddisfazione di dire che Matthew Theron Ruff, alla cui penna si deve l’esistenza della serie, io lo conoscevo prima di voi. Ecco quindi una carrellata dei suoi libri, che parte da

Acqua, luce e gas: la trilogia dei lavori pubblici

Luce e gas presenti all’appello

A voler ben guardare la carriera di Matt Ruff, nato nel 1965 a New York, inizia prima di questo libro, e precisamente con Fool on the hill, di cui le uniche informazioni in mio possesso sono che A) è ambientato nella Cornell University di Ithaca, NY, e B) è un cult il cui successo fra gli studenti della stessa università (frequentata anche dall’autore) si rinnova di anno in anno: in Italia però questo libro non è mai stato tradotto, e sulle sue effettive qualità vien qualche dubbio se sono passati undici anni prima che Ruff desse alle stampe la sua opera seconda.

Acqua, luce e gas invece in Italia ci è arrivato, grazie a Fanucci, e nonostante porti in calce sulla copertina gli elogi di Thomas Pynchon dal misterioso autore de L’arcobaleno della gravità (di cui ho odiato ogni singola pagina) prende solo la frenesia di inserire nella trama un numero innumerevole di personaggi e storie che confluiscono l’una nell’altra. Fra squali mutanti che si aggirano nelle fogne (l’inquietante Meisterbrau), imprenditori miliardari, pirati ecologici multietnici, la scrittrice filosofa Ayn Rand resuscitata come intelligenza artificiale e persino Walt Disney e J. Edgar Hoover (in vesti che preferisco non svelarvi) si dipana una trama che prende le fila dall’omicidio di un guru di Wall Street, per poi addentrarsi nel marcio di una società del futuro (il libro è ambientato nella New York del 2023) malata quanto e più della nostra e nelle sue sotterranee cospirazioni.

Ruff riesce con abilità a veicolare temi come classismo, razzismo ed ecologismo senza appesantire, divertendoci anzi con un tourbillon di eventi mentre lascia che questi temi attecchiscano. Una specie di variante statunitense del Terra! di Stefano Benni, con dosi più massicce di cinismo e citazionismo: consigliatissimo.

La casa delle anime

Padri putativi, parte uno

Sempre Fanucci nel 2000 porta in Italia La casa delle anime, vincitore del Washington State Book Award (il nostro nel frattempo si è trasferito a Seattle, dove vive tuttora). Il tema del libro è affascinante, quello della Sindrome da personalità multipla, patologia che il protagonista Andrew Gage riesce a tenere sotto controllo grazie all’aiuto costante di una psicologa. Come in una vera e propria casa all’interno della sua testa tutte le personalità di Andrew collaborano per rendergli (e rendersi) la vita meno complicata, trovando accordi sul modo di prendersi ognuna il proprio spazio “affacciandosi” al mondo esterno come da una finestra (o pulpito, come viene chiamato nel libro): ci sarà quindi il momento della giornata in cui la sua personalità fissata con la forma fisica si darà al training, quella appassionata d’arte si darà alla pittura e così via, il tutto gestito da una personalità fatta emergere appositamente per coadiuvare il tutto e rappresentare il “vero” Andrew Gage all’esterno.

Un libro come La casa delle anime non potrebbe probabilmente esistere senza Daniel Keyes e il suo Una stanza piena di gente, la vera storia di Billy Milligan e del lungo percorso che lo ha portato a veder riconosciuta ufficialmente la patologia legata allo sviluppo di personalità multiple. Come per Milligan nella realtà anche per l’immaginario Gage i primi problemi sono da ricondurre a ripetuti abusi subiti in tenera età, un trauma che egli condividerà con un’altra ragazza affetta dai suoi stessi problemi: Penny Driver però, diversamente da lui, è cosciente solo in parte della propria condizione, e la differenza di “metodo” con cui entrambi affrontano la vita sarà solo una delle cause scatenanti che porteranno Andrew e tutte le sue personalità a mettere in discussione l’equilibrio fin lì raggiunto, scendendo a patti anche coi lati oscuri della propria mente.

La casa delle anime affronta con tatto e sensibilità temi molto delicati, come la malattia mentale e gli abusi sui minori, uscendone vincente. Meno rutilante rispetto al libro precedente, in quest’opera Ruff non mette da parte comunque l’umorismo, evitando di scadere nel pietismo e regalando anzi pagine di divertimento che non stonano coi temi trattati.

Bad Monkeys

Doveva essere lì in mezzo. E ora vatti a ricordare a chi l’ho prestato…

Dopo il passaggio a un tema più serio probabilmente Ruff ha sentito l’esigenza di lanciarsi in qualcosa che rivaleggiasse con la Trilogia dei lavori pubblici in quanto a follia creativa, e Bad Monkeys (edito in Italia da Fazi) riesce ad essere all’altezza. Condensato in un minor numero di pagine e personaggi, ma con una carica inventiva enorme, il libro ci fa seguire le avventure di Jane Charlotte, arrestata per omicidio e interrogata in un commissariato di polizia riguardo al delitto. Ciò che rivela, mettendoci a parte di tutte le vicende che l’hanno condotta fino a lì, è il percorso che l’ha portata a entrare nell’organizzazione chiamata Bad Monkeys, il cui compito è liberare il mondo dalle persone “cattive”.

Col proseguire della trama impareremo di più sull’organizzazione, sui suoi metodi e su una serie di cospirazioni che coinvolgono direttamente Jane, aventi a che fare col suo passato e col rapimento del fratello, continuando a chiederci cosa ci possa essere di reale in quanto racconta: non vi fareste delle domande se qualcuno vi raccontasse di ricevere messaggi tramite le parole crociate, di avere come dotazione standard una pistola giocattolo che uccide causando attacchi di cuore e che il famigerato serial killer John Wayne Gacy faceva parte di una branca dell’associazione formata da letali clown?

Ruff ha dichiarato di aver preso ispirazione per il libro dalle opere di Philip K. Dick (il nome della protagonista è un omaggio alla gemella dello scrittore, Jane Charlotte Dick, morta a poche settimane dalla nascita) come anche da un episodio di South Park, e le influenze si sentono tanto nei continui ribaltamenti della trama quanto nelle esagerazioni grottesche infilate con grande divertimento. Una corsa continua, non priva di spunti per riflettere (il tema del male innanzitutto, su cui filosofi di varie epoche si sono spaccati la testa) ed efficace fino alla fine: Margot Robbie ne ha comprato i diritti nel 2016 per realizzare un film, di cui dovrebbe essere anche protagonista, non ci resta che sperare che il successo di Lovecraft Country la spinga a realizzarlo davvero.

False verità

Padri putativi, parte due

Se in Bad Monkeys il debito creativo con Dick non è così immediato, altrettanto non si può dire di False verità. Il libro, uscito nel 2012 nuovamente per Fanucci, parla dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 ma…le torri si trovano a Baghdad, e sotto attacco sono gli Stati Uniti D’Arabia. Con un ribaltamento che grida fortissimo La svastica sul sole (uno dei più famosi libri di Dick, in cui la Germania nazista ha vinto la Seconda Guerra Mondiale), l’ucronia di Ruff condivide con la fonte d’ispirazione anche il dubbio che la realtà sia un’altra, quella di un mondo in cui gli USA sono il bene di cui parlano i terroristi, e il ritrovamento di una copia del New York Times non farà che complicare le cose per Mustafa, Samir e Amal, i tre poliziott* che dovranno indagare sul mistero per conto del Presidente della Lega Araba.

Alla stessa maniera di Acqua, luce e gas anche qui Ruff utilizza personaggi reali come motori delle vicende narrate, come un mefistofelico Saddam Hussein, Osama Bin Laden e l’ex Presidente USA Barack Obama, ma l’intreccio spionistico orchestrato nelle cinquecento pagine del libro risulta meno accattivante delle altre sue opere. Il ribaltamento è fin troppo netto (appaiono persino i “Green Desert” con la loro hit Arabian idiot), l’umorismo meno presente e si ha l’impressione generale che ci sia qualcosa di fuori fuoco, come se il compito fosse al di là della portata dell’autore. Di certo il Ruff meno convincente, buono per gli appassionati ma non la sua opera con cui consiglierei di iniziare ad un novizio.

Ricordo di essermi stupito vedendolo in vetrina in una libreria di catena a Novara, e di aver pensato “questo è il suo ultimo libro che vedo”. Non per la qualità (dovevo ancora leggerlo), ma per il fatto che un autore di cui avevo sempre fatto fatica a procurarmi i libri appariva all’improvviso sotto i riflettori: ho sentito puzza di “se questo libro non vende ‘sto autore lo molliamo”, e infatti Lovecraft Country ci è messo quattro anni più del necessario per essere tradotto e pubblicato, questa volta da Piemme, in una di quelle odiose edizioni che mettono in bella vista la locandina della serie. Nel frattempo Ruff ha sfornato un nuovo romanzo, 88 names, e ben vengano le copertine orribili e gli adattamenti televisivi se permetteranno al pubblico italiano di (ri)scoprire uno scrittore con tante frecce al proprio arco.

Ma ricordate, io lo conoscevo prima di voi.

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