Meglio tardi che mai: riscoprire i racconti di Joy Williams

Come penso capiti a molt* lettor* forti ho un serio problema con l’accumulo di libri. Peggiora col passare degli anni e in determinati periodi (la primavera specialmente, fra Book Pride a Milano e il Salone del libro a Torino) arriva a picchi di trenta e passa libri in arretrato. Molti vengono recuperati piuttosto velocemente, ma una categoria in particolare di solito finisce a fare la polvere più degli altri: quelli voluminosi, perché oltre che vittima dell’accumulo sono anche vittima della performance che mi spinge a leggere di più, sempre di più, anche se poi arrivò a fine mese e faccio fatica a ricordare ciò che ho letto. Così, nonostante una pandemia di mezzo, le seicentosessanta pagine de L’ospite d’onore di Joy Williams hanno dovuto attendere che mi prendessi una pausa dal mondo di un mese causa infortunio (a un pollice eh, mica mi sono scassato mezzo, ma comunque non piacevole) per essere lette, e cavolo non penso proprio che le dimenticherò così velocemente.

La pausa che mi sono preso (forzatamente) io è minore di quella che nel frattempo si è presa Black Coffee, la casa editrice specializzata in letteratura nordamericana che più di una volta ci aveva convinto con le sue scelte. L’editrice e traduttrice Sara Reggiani, complice la morte del padre (coinvolto a sua volta nella casa editrice), ha deciso pochi mesi fa di prendersi un anno sabbatico, avallata in questo dallo storico editor John Freeman che le ha detto in parole semplici “hai un ampio e bel catalogo, puoi concederti di lasciare tempo all* tu* lettor* di recuperare quanto lasciato indietro mentre tu recuperi le energie”. Il libro di Joy Williams, compendio quasi onnicomprensivo delle sue tre raccolte di racconti (Taking care del 1972, Escapes del 1990 e Honored guest: stories del 2004, mai tradotte in italiano) più alcune short stories apparse su riviste, è uno di quei libri che, nel caso non lo aveste già fatto, un* lettor* affezionato di Black Coffee (e della letteratura nordamericana in generale) dovrebbe recuperare, perché l’autrice scava nell’essenza più profonda degli Stati Uniti con una penna acuta e personale.

«Che tipa stramba» disse Helen.

«Chissà come gli sarà venuto in mente» disse Lenore. «Vorrei rivederla. E ucciderla».

«Anch’io» disse Helen. «Non scherzo».

«Anzi no, sarebbe troppo facile» disse Lenore. «Essere uccisi è un privilegio. A volte ci penso… a volte penso che vorrei che mi uccidessero. Così, dal nulla, senza avvertimento, né ragione. Non crederei a ciò che vedo. Sarebbe come non morire affatto».

Helen se ne stava lì nella sua vestaglia. Aveva freddo. In molti avevano scritto sulla morte. Nessuno aveva idea di cosa stesse dicendo, ovviamente.

«Sono stanca di parlare» disse Lenore. «Non mi va più. Sono stanca di pensarci. Perché dobbiamo pensarci sempre! Un filosofo una volta ha detto che la morte è la Grande Pensatrice. Pensa, dall’inizio della tua vita fino alla fine».

«Chi?» chiese Helen.

«Chi cosa?»

«Chi è questo filosofo?»

«Ah. Non me lo ricordo» disse Lenore. A volte Helen la faceva proprio sorridere.

L’ospite d’onore

Se dobbiamo ascrivere Williams a una corrente letteraria questa è sicuramente il minimalismo. Viene in mente Carver leggendo le prime storie della raccolta, col suo campionario di coppie fratturate che hanno l’alcol come punto d’unione e vite piuttosto anonime da sopportare più che da condividere. Non sono persone speciali quelle di cui parla l’autrice, e non sono quasi mai speciali i momenti in cui le tratteggia: un predicatore la cui moglie viene colta da una malattia senza nome mentre la figlia si dà alla macchia lasciando loro la nipotina da crescere; una coppia con le figlie avute da matrimoni precedenti che passano l’estate con uno scrittore che invita una donna diversa a settimana; un giardiniere che cerca di sgravarsi dal peso della catena karmica va incontro ad alcune disavventure. Nessun finale risolutivo, nessuna grande rivelazione all’orizzonte: Williams è brava a destreggiarsi in quelle vite, a cogliere momenti che dicano qualcosa di più dell* protagonist*, mantenendo sempre una certa fredda distanza ma evitando il grande pericolo che qualunque emul* volontari* o involontari* di Carver corre, ovvero quello di annoiare cercando di raccontare l’eccezionalità dell’anonimato.

Eppure ci vuole un po’ prima che Williams ingrani davvero, mantenendosi su un buon livello ma senza stupire per personalità: è dai racconti della seconda raccolta, Escapes, che si comincia a ballare davvero.

Lungo il corridoio ci sono diverse porte chiuse e dietro una di queste c’è Molly. Molly è la loro figlia viva. L’altra figlia, Martha, è morta da un anno. Martha era nata un anno prima di Molly. Ora hanno la stessa età. Martha si è strozzata con un pezzo di pane nella sua cameretta. Era mattino presto e si stava preparando per andare a scuola. Alla radio due dj che si facevano chiamare I Fiocchi di Mais chiaccheravano fra una canzone e l’altra.

La pattinatrice

Con La pattinatrice avviene uno scatto. Williams non si limita più a nascondere i traumi, a farli intuire tramite le azioni spesso bizzarre (quando non dettate da qualche dipendenza) dell* su* protagonist*: si prende il permesso di mostrare già tutto quello che c’è, e oltre a rendere i suoi racconti un campionario estremamente vivido di persone con un lutto alle spalle (mariti, mogli, figl*, genitor*, animali) riesce anche ad ampliare la sua narrazione, rendendo nel frattempo ancora più particolari le persone che animano le sue storie.

«Quando sono diventata abbastanza grande da capire qualcosa,» disse Argon «ho deciso che al mio fianco volevo un ambientalista o un appassionato di motori. Sono partita da questo. Alla mia prima manifestazione mi sono sdraiata in mezzo a una strada, in un parco dove avrebbero dovuto abbattere duecento alberi per fare spazio a un’area picnic. In molti si sono radunati a guardare. Quando è arrivata la polizia per portarmi via, una bambina ha detto: “Perché portano via quella ragazza carina, mamma?”, e allora ho capito che stavo facendo la cosa giusta. Dopo, ho partecipato alle manifestazioni con ancora più entusiasmo, sperando sempre di risentire quelle parole. Ma non è più successo».

«Si invecchia, tesoro» disse Irene.

«Anche gli appassionati di motori sono interessanti» disse Argon. «Ipnotici, quasi, ma solo quando parlano di motori».

Congresso

Congresso, tratto dalla terza raccolta di Williams Honored guest: stories, è forse l’apoteosi di questi tratti distintivi. La storia di Miriam, compagna piuttosto anonima di un professore di antropologia forense adorato da student* e concittadin*, accumula svolte narrative sempre più surreali che coinvolgono incidenti di caccia, triangoli amorosi, il rapporto simbiotico con una lampada fatta con le zampe di un cervo e il più famoso museo di animali impagliati senza che questo appaia mai troppo, riuscendo a mantenere un legame con la realtà nonostante dialoghi che finiscono nel nulla, o forse proprio grazie a quelli: l’abilità della scrittrice sta nel capire quali momenti cogliere, come metterli insieme, perché molti dei nostri discorsi sono pieni di momenti morti o inutili ma pochissimi avrebbero senso su carta.

Tramite questo scarto verso la surreale bizzarria delle nostre vite Williams riesce anche a divertire, il tutto mentre ci irretisce nella fuga di una malata terminale con la figlia minorenne di un’amica o ci illustra le dinamiche relazionali di un gruppo di madri di assassin* che si ritrova a vivere in appartamenti vicini. Non fraintendiamo, L’ospite d’onore non diventa mai un libro comico, e le risate le facciamo a denti stretti mentre ammiriamo come vite, relazioni e persino gli edifici vengono erosi dall’entropia: c’è però tanta partecipazione umana dietro, camuffata da quello sguardo freddo ed entomologico che caratterizza altrettanto il suo stile (Williams predilige la terza persona è sconfina raramente nella prima, con esiti altrettanto apprezzabili). Non tutti i racconti della raccolta sono capolavori, ma in seicentosessanta pagine non ne ho trovato uno brutto. Neanche uno. Se amate il minimalismo ma dopo Carver vi sembra tutto un “more of the same” date a Williams una chanche, anche se la mole vi intimorisce: vi troverete ad aspettare come me che qualche altra illuminata casa editrice (oltre a Black Coffee, che ha portato in Italia sia questa raccolta che il romanzo L’altro bambino, Nutrimenti ha pubblicato nel 2009 il romanzo I vivi e i morti) si metta d’impegno per far conoscere maggiormente questa grande scrittrice.

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Racconto in musica 205: La marea (Fucksia – Muro di casse)

Sto leggendo in questi giorni, in contemporanea con una raccolta di racconti di cui è probabile che vi parlerò, il saggio Confini di Lea Ypi, filosofa, professora di Teoria Politica e scrittrice albanese di cui ho scoperto l’esistenza grazie a questa puntata del sempre prezioso podcast Globo (la puntata è sicuramente ascoltabile per l* abbonat* a Il Post, ma essendo un link regalo il primo o i primi dieci che lo apriranno dovrebbero avere accesso libero: scusate l’imperizia ma è la prima volta che lo faccio). Il saggio, almeno fino al punto cui sono arrivato ora, si interroga in maniera critica sul senso di dover legare il diritto alla cittadinanza a conoscenze linguistiche e sociali della cultura predominante, soffermandosi anche sulla stortura delle agevolazioni (quando non automatismi) che permettono a chi ha un capitale da investire di ottenerla solo in base alla propria ricchezza. Questo è il punto base per alimentare il troppo sopito conflitto di classe, auspicando che la lotta fra pover* alimentata dalle destre nazionaliste su base etnica ridiventi una lotta al capitalismo, il motore escludente per eccellenza. L’ho fatta molto breve per incuriosirvi ed evitare castronerie, ma se ve ne ho parlato in questa introduzione, oltre a ritenere il saggio una lettura costruttiva che mi sta aiutando ad ampliare lo sguardo, è perché penso che le Fucksia, pur non conoscendole di persona, sarebbero d’accordo con molti dei ragionamenti di Ypi.

Ho già aperto varie volte il tema “musica vecchia al corteo del 25 aprile”, e quest’anno non ho sentito grossi cambiamenti: grazie al suggerimento di una ex collega della mia compagna però ho partecipato alla festa milanese di Partigiani in ogni quartiere, subito dopo il corteo, e al fianco di un immarcescibile ‘O Zulù c’erano anche leve abbastanza recenti della musica impegnata, come i Rootical Foundation, pur sempre prossimi al traguardo dei vent’anni dalla prima pubblicazione, e le già nominate Fucksia, la cui formazione è invece molto più recente. Band italo brasiliana composta da Mariana Mona Oliboni, Marzia Stano e Poppy Pellegrini, il trio si forma a gennaio 2021 “tra le dune digitali del deserto post pandemico”, come recitano le note biografiche sul sito della loro etichetta Elastico Records, un deserto che decidono di animare con un connubio musicale che leghi tutto il punk del mondo, la musica da rave e una fortissima impronta politica, transfemminista e queer: prendendo dei riferimenti un po’ datati, perché io sono pur sempre prossimo ai cinquanta e non sempre aggiornato su ogni corrente della musica bella che soffre (spesso) la fame, un po’ Atari Teenage Riot e molto Le Tigre, uno dei tanti progetti della multiforme carriera di Kathleen “Bikini Kill” Hanna. Tutta questa carica caotica, danzereccia e militante il trio la porta in pieno sul palco, e di palchi ne girano parecchi già dopo la pubblicazione di Twelve, uscito ad ottobre nello stesso anno della formazione della band e suonato in svariati festival e centri culturali sia in Italia che in Europa. Raggiunto dopo pochi mesi da una versione remix curata da artist* della scena elettronica queer italiana, Twelve è un’introduzione più electro che punk al mondo delle Fucksia, suadente, ritmato ma non ancora scatenato come accadrà in molti dei brani di Exagerat3, il disco che esce a maggio 2024.

Condito da featuring nazionali (So Beast, Andy, MC Nill) e internazionali (la rapper argentina Chocolate Remix), il disco è un inno di vitalità lungo tutti i suoi nove brani, cantati e urlati in inglese e italiano. Dall’esortazione ad usare il proprio corpo come arma di protesta dell’iniziale Body fino alla filastrocca disco-rap Occhio perdente (“remake” musicale del brano Ciurma anemica dei Killanation) con cui si conclude il disco, passando per l’omonima F.U.C.K.S.I.A. (vero e proprio codice identificativo della band che sta per freak, united, candies, k-hole, sisters, insane,amazing), le rime anticapitaliste serrate di MC Nill alternate a ritornelli techno-punk di Nobody needs e la glorificazione della parola come elemento di cambiamento della realtà nel synth pop sensuale di Give a damn, le Fucksia ricodificano e sonorizzano un mondo in cui il piacere femminile non è un tabù (Tem quem toca), la notte è fatta per divertirsi e ballare (Deeper) e la libertà di essere chi si vuole essere senza recare danno all* altr* regna sovrana. Un mondo ideale che beat dopo beat appare sempre più auspicabile.

In un mondo ideale non staremmo vedendo da più di un anno e mezzo scene come quelle che succedono a Gaza e in Cisgiordania (perché non dimentichiamo che, con una diversa e subdola intensità, l’esercito israeliano sta espropriando illegalmente molti territori palestinesi anche lì), e non servirebbero canzoni come Muro di casse (che ha lo stesso titolo di un fantastico romanzo-saggio di Vanni Santoni) per ribadire qual è la parte giusta da cui schierarsi. Singolo uscito ad ottobre 2024, affiancato da un remix realizzato pochi mesi dopo da Play Go (il cui ricavato verrà devoluto totalmente al progetto Women With Gaza), la canzone ha una forza trascinante sia su disco che dal vivo: per la storia che ho deciso di associare alla canzone sono debitore della lettura di Confini e di quella che è stata probabilmente l’ultima bella puntata di The walking dead, spunti che hanno creato il controverso humus per il racconto. Lo trovate come al solito subito dopo la canzone che lo ha ispirato, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero l* artist* accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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La marea

Non è stato semplice per un cazzo. Mia madre ha smesso di parlarmi, mio padre ci ha messo di più prima di dirmi che era troppo difficile. Ho bruciato i ponti con tutta la famiglia, a parte un cugino che mi diceva che anche a lui gli immigrati stavano sul cazzo.

La militanza politica ti dà il potere di cambiare le cose, e io sono l’unico che ha capito che certe cose andavano fatte. Che bisognava lasciarsi trascinare dalla corrente, invece di combatterla. Gliel’ho detto, ai miei compagni di partito, dovevo dirglielo in faccia che me ne andavo, che le loro strategie per me non funzionavano più. Meglio i blocchi, meglio i trasferimenti forzati. Meglio il muro.

L’idea del muro non è stata mia, ma io ho sposato la causa fin dall’inizio. Ero a ogni comizio, presente ogni volta che se ne discuteva in aula, quando ho fatto casino abbastanza da arrivarci, nell’aula. Dall’altra parte il dissenso veniva spento con sempre maggiore veemenza, in aula e fuori, ma dentro era più facile perché gli stava venendo il dubbio che avessimo ragione. Quando me n’ero andato dalla sede provinciale del partito ci è mancato poco che mi sputassero in faccia; qui mi davano la mano prima di salire sul taxi.

Quando siamo riusciti a far passare il progetto però si sono risvegliati. Prima pensavano che fosse una fantasia, che non potesse mica essere reale, che non saremmo andati fino in fondo alla maniera che promettevamo. E invece l’abbiamo fatto. L’idea non piaceva pure ad alcuni dei nostri, così gli abbiamo detto guardate l’elettorato e dopo un po’ che glielo ripetevamo si sono convinti. Pian piano la furia è passata, se si può chiamare furia quella manciata di manifestazioni pacifiche. E abbiamo iniziato a costruirlo.

Ero nello staff del vice ministro alle infrastrutture, così mi è stato più facile ottenere un alto livello di controllo sulla costruzione. Ho suggerito chi lo poteva fare bene, velocemente e senza sfruttare i lavoratori, e loro non hanno avuto niente da ridire ma, mi hanno detto, tu non firmare un cazzo, se no poi ci stanno addosso con l’amichettismo. Avessero saputo che erano tutti rinnegati come me, gli unici altri che avevano capito da che parte bisognava stare, non so se me li avrebbero fatti assumere lo stesso, ma ce ne fregava del muro, mica delle leggi. Ci abbiamo dato dentro tutti, passandoci notte e giorno, e in un paio d’anni abbiamo finito di costruirlo.

Ora non possono più entrare. Si accalcano in tanti, sono sempre di più. Come avevo previsto, questa marea avrebbe continuato ad alzarsi. Così ho votato a favore quando hanno deciso di mandare l’esercito. Mi dispiaceva per quei giovani valorosi durante gli scontri, ma mi serviva che ci fosse distanza prima di farlo esplodere.

Ci mancava un’immagine dietro cui schierarsi. Il dissenso continua a bruciare se sai come alimentarlo. E un muro di casse che dall’interno distrugge ogni barriera è l’immagine più potente che siamo riusciti a costruire.

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Com’è scritta male questa serie irresistibile: Sirens

Galeotta è stata la lettura di Film brutti, il libro di Andrea Carobbio (di cui avevamo parlato qui) dove l’autore, in mezzo a un sacco di pellicole talmente terribili da fare il giro e diventare adorabili, parlava anche di una serie: The lady di Lory Del Santo. È stata la spinta per una riscoperta fondamentale nell’ambito del trash, perché Del Santo in quella serie (scritta, diretta, montata e aggiungeteci almeno altri cinque o sei ruoli) riesce a condensare una totale assenza di contenuti che magicamente attrae, intrattiene, affascina e ti fa venire voglia di gridare “di più!” quando scopri che, ahinoi, ne sono state girate solo tre stagioni. Non esiste una trama, non esistono dei temi, i personaggi (quasi tutt* bellissim*, ma bisogna dare merito al casting per un livello di inclusività eccezionale) hanno una caratterizzazione che più basilare non si può e le loro azioni sono dettate completamente dalla sceneggiatura, che li fa apparire e scomparire fregandosene della loro presunta importanza. Per fare un paio di esempi: Lona (Gloria Contreras), la lady protagonista che è ricchissima e (si ritiene) indaffaratissima anche se non fa nient’altro che telefonare alla sua assistente per dirle di fare cose generiche da ogni angolo del globo (la maggior parte del budget penso sia stata spesa per gli spostamenti), in una puntata della prima stagione viene all’improvviso folgorata sulla via dei diritti delle donne e della parità salariale, missione di cui si dimenticherà completamente la puntata seguente; Zora (Olga De Mar), la “villain” della seconda stagione, sogna di vendicarsi di Lona per MOTIVI tramite PIANI orditi in mezzo ai ruderi di Consonno ed esce di scena senza aver combinato niente all’inizio della terza stagione. Meglio di mille parole però vale guardare una puntata, meglio ancora l’incredibile dialogo che avviene al minuto 6:26 della puntata linkata sotto.

Non ci sono motivi logici per cui qualcun* dovrebbe voler vedere The lady, ma allo stesso tempo non si può negare che è un unicum nel panorama cinematografico italiano e forse mondiale: Del Santo ha una capacità unica di non dire niente a un ritmo forsennato, in ogni puntata succedono un sacco di cose la cui utilità e importanza sono prossime allo zero. E qui arriviamo a Sirens.

Ruoli terribili di donne ricche a confronto

Sirens è l’ennesimo esempio di come Netflix, al netto di eccezioni meritevolissime come la recente Adolescence (non ve ne abbiamo parlato ma ne avrete sicuramente sentito parlare da altre parti, se non è successo fidatevi e guardatela), fa scrivere le sue serie e i suoi film non dall’intelligenza artificiale, perché sarebbe troppo facile scaricare la colpa sulla tecnologia cattiva di moda (il che non sminuisce l’impatto che potrà avere sul mondo del lavoro, non solo in ambito cinematografico o artistico in generale), ma da sceneggiator* la cui libertà creativa è probabilmente limitata da richieste di adesione ad analisi algoritmiche o, nel caso peggiore, sono conniventi al sistema e scrivono i loro progetti con già l’intenzione di piacere a tutt* per poi non essere ricordati da nessun*. Non so a quale delle due categorie appartenga Molly Smith Metzler, di cui non ho visto Maid ma scopro da Imdb che ha lavorato anche a Shameless (sei episodi) e Orange is the new black (tredici episodi), e non avendo visto il suo spettacolo teatrale del 2011 Elemeno Pea (da cui la serie è tratta) non so quanto le richieste della grande N possano aver rovinato o meno il materiale originario, ma direi che è il caso di presentare i personaggi per cominciare a darvi un’idea del contesto:

  • Devon DeWitt (Meghann Fahy), donna alcolizzata in via di guarigione che a seguito della diagnosi di demenza precoce del padre decide di rintracciare la sorella minore, con lo scopo di costringerla a fare la sua parte nel prendersi cura del genitore;
  • Simone DeWitt (Milly Alcock), sorella minore di Devon, che si è rifatta una vita come assistente personale di una ricchissima donna nella gestione di un ente filantropico per la cura dei rapaci e, comprensibilmente, non ha la minima intenzione di tornare a casa;
  • Michaela Kell (Julianne Moore), la ricchissima donna appassionata di rapaci, i cui modi nel tenere le persone (e Simone) intorno a sé la fanno sembrare una non si sa quanto pericolosa guru new age;
  • Peter Kell (Kevin Bacon), il ricchissimo marito di Michaela (nonché il vero ricco della situazione), affabile padrone di casa che sembra anche lui succube della moglie.

Ce ne sarebbero molt* altr* di personaggi rilevanti all’interno delle cinque puntate, ma limitiamoci per il momento a questo gruppo ristretto. Fin dalla prima puntata (di cinque) la serie centellina informazioni, dandoci solo quelle necessarie a portarci dove vuole la sceneggiatura, ma quasi mai dove veniamo portati è dove finiremo il viaggio: non vi tolgo nessuna sorpresa (ma se volete evitare spoiler probabilmente questo articolo non fa per voi) dicendovi che la magnetica Michaela, coi suoi “hey hey” di saluto e l’imperturbabile sorriso, comincerà sempre meno ad assomigliare alla caricatura di guru di una setta, che Simone smetterà di apparire l’innocente manipolata che Devon vede in lei e che la stessa Devon, nella parte del metro morale della vicenda (già, nonostante la relazione con un uomo sposato, la sessuomania che ha preso il posto dell’alcolismo e un certo vittimismo di base, quest’ultima cosa prerogativa di più o meno tutt*), finirà per empatizzare a turno un po’ con tutt*, cercando di far finire nella maniera più democristiana possibile una vicenda che l’ha vista irrompere nella stessa come la campagnola con modi rozzi che, senza un motivo logico, viene comunque accolta nell’ovile dell* ricch*. E Peter? Lui entra in gioco dalla seconda puntata, porta recriminazioni e rivelazioni e combina qualche cazzata utile a movimentare la situazione, portando la vicenda da indagine sui generis su una setta al dramma familiare fino a una sorta di sterile accusa del patriarcato.

BFF?

Questo tourbillon di eventi, nel corso del quale scopriamo sempre di più su ognuno dei personaggi e sulle loro motivazioni, è portato avanti tramite l’astutissima tecnica “il personaggio si comporta in maniera X se la sceneggiatura lo prevede”, mandando in vacca qualsiasi approfondimento psicologico. Prendiamo Simone: all’inizio è una giovane donna in carriera che potrebbe essere plagiata dalla sua titolare; poi viene fuori l’immancabile TRAUMA e, previo comodo attacco di panico, ci appare come la creaturina fragile che la sorella vuole in effetti proteggere; poi viene fuori che tramite un percorso psicologico non ha più neanche bisogno di prendere gli psicofarmaci che ha preso per anni, e che i motivi per cui non vuole tornare a casa dal padre alcolizzato (interpretato da Bill Camp) sono del tutto legittimi; poi la sua storia d’amore con lo scapolo d’oro Ethan Corbin III (Glenn Howerton), fino a un attimo prima il suo sogno per il futuro, viene cancellata per motivi quantomeno futili visti da fuori (e visto che la costruzione dei personaggi è quella che è non vale la motivazione “ma per lei era importante”). Il tutto mentre il suo rapporto con Michaela viene contraddistinto da alcuni tira e molla generati dalle rivelazioni sbagliate nel momento sbagliato e in un contesto in cui intanto entrano in gioco anche l’amante infedele di Devon (Josh Segarra) e un suo possibile nuovo partner (Trevor Salter), sotto lo sguardo divertito e rassegnato del personale della casa che, mentre si occupa dei preparativi per il gran gala dell’associazione benefica di Michaela, riesce nella grande impresa, nonostante sembrino in tant*, di non essere mai presenti quando succede qualcosa di rilevante e/o potenzialmente misterioso.

“E se alla fine decidessimo che è tutta colpa sua?” “Genio!”

Guardare le cinque puntate di Sirens fa incazzare per vari motivi (non ultimo lo spreco di un cast con nomi grossissimi: Moore sembra la pallida copia del suo ruolo in May December): per come la serie continua a scartare di tono a seconda della svolta di trama che introduce ad esempio, o per come inserisce dell’ironia forzata che sa di battuta stantia da tormentone (le tre amiche sceme di Michaela che parlano all’unisono, l’amante di Devon che viene continuamente etichettato come infermiere del padre quando anche un sasso avrebbe capito che non lo è). La pietra tombale però a mio parere (SPOILER DEFINITIVO) è il tentativo di far apparire giusta la decisione di Devon di sacrificare la propria vita per prendersi cura di un padre la cui demenza è frutto di anni di alcolismo, anni in cui ha probabilmente portato la moglie al suicidio e sicuramente causato danni psicologici enormi a entrambe le figlie ma che ora, siccome serve alla trama, viene mostrato come l’anziano fragile ed empatico che non è mai stato, come se una malattia che ti impedisce di ricordare le cose (particolare, anche questo, che viene trattato in maniera illogica: ho perso il conto delle volte in cui viene lasciato solo nonostante la sua condizione, anche dopo che lo ritrovano sul bordo di una scogliera) ti facesse anche magicamente diventare buono: un finale ricattatorio e manipolatorio che dovrebbe in qualche maniera far apparire moralmente migliori i poveri, come se Sirens avesse delle reali rivendicazioni sociali da portare al suo arco. Io non ho avuto un alcolista menefreghista e incapace di fare il genitore in famiglia, ciononostante ho tifato per Simone fino a quando non ho capito che non c’era nessuno per cui tifare se non la parola FINE.

Non vi sembra così tenero questo adorabile vecchietto che stava lasciando morire di fame la sua figlia minorenne?

Eppure sono qui a scriverne. Me ne guardo bene dal consigliarvela, ma a ragion veduta dovrei guardarmi bene dal consigliare anche The lady. Penso che l’importante sia la consapevolezza, e io quando ho cominciato a vedere la webserie di Lory Del Santo sapevo esattamente a cosa andavo incontro, godendo di ogni incredibile mancanza sotto tutti i punti di vista. Con Sirens invece sono partito curioso, stimolato dai nomi forti del casting, e ci ho messo un po’ a capire che invece del classico dramedy sui ricchi che ultimamente va per la maggiore avevo davanti solo una versione pompata di soldi di The lady: riuscire a scrivere qualcosa fregandosene totalmente dei caratteri dei personaggi e della plausibilità delle scelte narrative è un arte, e se siete dispost* a scendere a patti con questo con Sirens potreste addirittura divertirvi. Incazzarvi anche, ma divertendovi. Se no andate su YouTube (per vedere The lady non vi serve neanche un abbonamento a Netflix, soldi che potrebbero finanziare altre operazioni simili) o, se non vi affascina il trash, guardate Adolescence.

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Racconto in musica 204: San BrianEno (Planet Opal- I’ve heard Brian Eno in the McDonald’s fridge)

Evidentemente mi piace farmi del male. Non intendo fisicamente, anche se un’azzardata manovra lavorativa unita alla pressione troppo blanda del pulsante di sicurezza su un macchinario mi ha appena “regalato” un mese di infortunio e il pollice sinistro bello conciato, ma… come dire? Culturalmente? Giornalisticamente? Bloggariamente? Quello che intendo è che sono passati meno di sette giorni da quando ho ammesso (non per la prima volta) di avere una carenza di conoscenze tecniche quando mi trovo a parlare di musica elettronica, e oggi che faccio? Ovviamente parlo di una band che fa musica elettronica, anche se i Planet Opal meriterebbero più la definizione di ibrido fra due mondi, così come fortemente ibridata è la loro musica, fatta di circuiti e pelli.

L’ho scoperto al WooDoo Fest 2023 (lo stesso dove mi sono goduto l’esibizione di Whitemary) il duo composto da Giorgio Assi (sintetizzatori e voce) e Leonardo De Franceschi (batteria e percussioni), ora diviso fra Bergamo e Berlino ma nato artisticamente in Corsica. È lì infatti che i due si segregano nell’estate 2018 per ventuno giorni, provvisti dell’attrezzatura che entra in un’utilitaria e della voglia di creare musica nuova in mezzo ai boschi: ne nasce il primo germe di Cartalavonu, chiamato come il paesino dove è stato scritto, che esce nel 2021 per Dischi Sotterranei e mostra il mix musicale eterogeneo di Assi e De Franceschi. E qui è dove dovrei mostrare la mia competenza e dirvi a cosa assomiglia, come suona, cose così no? E io invece mi limito a dirvi che è musica che instilla gioia e voglia di muoversi, i suoni elettronici che si amalgamano con un drumming preciso e schematico, farcito di momenti perfetti da club e altri più riflessivi ed eterei (Ci siamo chiusi fuori): in mezzo agli alberi del WooDoo Fest, quando i Planet Opal hanno già fatto uscire anche un disco remix dello stesso Cartalavonu (a cui partecipa fra l* altr* mister Post Nebbia Carlo Corbellini) e hanno già iniziato a suonare in giro per l’Italia e per il mondo (aperture per Cosmo e Peter Hook dei New Order, festival come Sherwood, MiAmi e Apolide, date a New York, Ljubljana, Rennes e Bruxelles), la loro musica mi cattura e me li fa cercare nei giorni seguenti. Li ascolto, mi piacciono, mi distraggo e per un po’ me ne dimentico, anche se una scheda di ricerca della loro pagina Bandcamp rimane sempre aperta sul mio smartphone. Il trillo in mente mi scatta poche settimane fa, in maniera casuale ma perfetta, perché il 9 maggio è uscito il loro nuovo disco Recreate patterns, release energy, sempre per i tipi dall’occhio lungo di Dischi Sotterranei.

Registrato da Gregorio Conti, uno a cui vogliamo un mondo di bene per la sua militanza in Bangarang!, Verbal e attualmente OTU, il secondo disco dei Planet Opal è l’espansione del mondo già ricco della band verso territori che abbracciano la psichedelia (Montagne a colori, Indigo skies), allargano le maglie delle strutture ritmiche portando da continui cambi d’atmosfera (Connection overdrive) a bizzarri showcase percussivi (Cilindrata ritmica) ed è sempre vitale, energico, ammantato di riflessioni sociali in alcuni degli stringati ma efficaci testi (Georgie boy, delivery boy!). Per un paio di giorni non ho ascoltato altro e spero presto di ribeccarli live dove, vale la pena ribadirlo, la loro energia è travolgente.

I’ve heard Brian Eno in the McDonald’s fridge è la sesta traccia di Recreate patterns, release energy, un brano che alterna strofe ritmate e ritornelli più dilatati e ariosi, con la voce che ipnotica in due frasi crea un mondo: “I’ve heard Brian Eno in the McDonald’s fridge, I don’t know what he says but has a meaning to me”. Potevo non trarne la bizzarra storia di un rapporto tramite gli schermi di un Mac fra un ragazzo e il guru della musica d’ambiente? Come al solito trovate il racconto subito dopo la canzone che lo ha ispirato, e come al solito vi auguro buon ascolto e buona lettura, invitandovi anche ad andare a votare per i referendum!

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero l* artist* accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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San BrianEno

Sono convinto che i rapporti umani non si debbano basare solo sulla logica. Abbiamo un’aura, chiunque di noi ce l’ha. E ci influenza. Ecco perché so che il mio vicino, nonostante la faccia simpatica e i modi gentili, vuole uccidermi. È stressante vivere così, con una costante minaccia al piano di sopra. Per fortuna ho degli amici che mi consigliano per il meglio, ma a volte sembra che mi diano ragione giusto per darmi ragione. Senza ascoltarmi davvero. In quei momenti anche la loro aura non è tanto bella.

Brian Eno invece mi ascolta sempre. Brian Eno vive nella cella frigorifera del Mac Donald’s vicino casa, perché mi ha detto che vuole fare un’esperienza nuova, diversa. Ci parliamo attraverso lo schermo per le ordinazioni, poi quando sento che la fila fa un brusio ci spostiamo allo schermo sopra il bancone. Forse sarebbe più comodo dal drive, ma non ho un’auto. Sullo schermo dove appaiono i numeri delle preparazioni in corso lui risponde ai miei messaggi, non sapevo perché non lo facesse direttamente su Whatsapp ma le cose che mi scrive sono così intelligenti e profonde e partecipi che me la sono fatta andare bene così, anche se è scomodo.

Vado spesso da Mac Donald’s. Cibo veloce, qualità decente, nessuno ti guarda davvero perché a nessuno frega davvero qualcosa di te. È la mia area di relax, l’annullamento dell’aura. A parte quando fai la fila per ordinare. Posso fare quello che mi pare intanto che mangio, senza che nessuno venga a chiedermi se voglio ancora qualcosa. Posso cercare la discografia di Brian Eno ad esempio, perché io mica lo sapevo chi era. Prima di parlarci al Mac io non l’avevo mai sentito nominare. È venuto fuori fra una chiacchiera e l’altra che era un musicista, è molto umile. Una volta, dopo molte insistenze da parte mia, ha detto Ascolta Music for airports, se vuoi. A me Music for airports ha rotto il cazzo da subito, ma mi sono guardato bene dal dirglielo. Brian Eno sembra una persona molto sensibile.

Solo una persona molto sensibile si rinchiuderebbe in una cella frigorifera per lavorare a un nuovo disco, pensavo. Diceva che gli servivano gli stimoli della working class, i rumori della vita vera. Il disco dovrebbe chiamarsi Macmusic, che mi sembra un titolo bello forte anche se un po’ didascalico, e mi piace appoggiarlo nelle sue scelte perché a Brian Eno interessa davvero quello che penso e gli interessa davvero quello che provo e così a me interessa interessare a lui. Ho molta fiducia che il suo nuovo disco non sarà una rottura di cazzo come Music for airports, se mai uscirà.

Ieri infatti Brian Eno mi ha confessato che è morto. È nella cella frigo perché è morto, e temo che questo possa avere ripercussioni sulla sua carriera. Mi ha detto che non scrive su Whatsapp perché gli viene scomodo. Mi hanno tagliato il braccio destro, mi ha detto. Gli ho chiesto perché glielo hanno tagliato e lui ha risposto Eh. E lì ho capito.

Ho mangiato San BrianEno.

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Le diverse identità delle Æntropica nel disco d’esordio Stagioni asincrone

Il racconto conclusivo della raccolta di racconti Volevo essere Vincent Gallo di Sergio Oricci, che è anche quello che dà il titolo al libro, parla di un trentenne che, affascinato dal percorso di metamorfosi nel proprio padre affrontato dall’artista Roberto Cuoghi, decide di trasformarsi nell’attore Vincent Gallo. Compra i suoi costosissimi vestiti, cerca di dimagrire, si acconcia i capelli come lui e ascolta ossessivamente la sua musica. Mi è venuto in mente questo racconto al primo ascolto di Stagioni asincrone delle Æntropica, in particolare a causa della prima traccia Il mare nuovo, perché la prima cosa che ho pensato è stata “loro vogliono essere Franco Battiato“. Non “suonare come”, esserlo proprio: nel modo di cantare (e negli effetti sulla voce), nei suoni vagamente retrò, anche in un certo modo di scrivere i testi.

La verità però è che io di Battiato ho ascoltato pochissimo, e le influenze di Carlo Olimpico (voce principale, cori, chitarre, bassi, tastiere, sampler, loop, sequencer e programmazioni varie) e Valentina Mariani (voci, cori, percussioni e darbouka, nonché autrice di quasi tutti i testi) si rivelano ben più ampie lungo i dieci brani del loro disco d’esordio autoprodotto, con sonorità che spaziano principalmente fra gli anni 80 e i 90. Realizzato a partire dal lockdown tramite continui interscambi ma riadattando anche idee preesistenti di Olimpico (l’idea originaria di Esuli risale al 2014, quella di Il guado addirittura al 2005), Stagioni asincrone passa in maniera fluida dalla new wave ad un rock che lascia rimembranze dei C.S.I. (o, tornando a Battiato, del periodo in cui si accompagnava alle ottime Lilies On Mars), divagando ogni tanto in altre direzioni con esiti altalenanti.

Uno dei pregi del disco (che è poi una delle cose che apprezzo di solito io, e non è detto che tutt* la pensino come me) è proprio la grande varietà. Il finale spinto da club che dà all’intimismo elettronico di Neve di maggio più carattere, la bruma cantautorale che avvolge Zeno di suggestioni alla Guignol, la carica rock di La sete che si fa forza sia delle distorsioni che delle tastiere, tutti questi sono elementi che rendono l’ascolto un’esperienza multiforme che attira l’orecchio. Non sempre però sono le cose buone a tenere sveglia l’attenzione, perché il trip hop di Ulisse viene maneggiato con poca ispirazione e Il guado parte male con un giro d’accordi che sembra rubato a What’s up delle 4 Non Blondes, prosegue stanca con momenti di dilatazione distorta che ricordano alla lontana i primi Marlene Kuntz e finisce dopo sei minuti abbondanti che sembrano troppi. Il problema maggiore però sono i suoni: se a livello di composizione il duo fa spesso un buon lavoro (coadiuvato in alcuni brani da Roberto Pontis, Fabrizio Ferrario e Roberto Rettura), gli strumenti rimandano senza appello al passato senza cercare (o comunque senza trovare) un appiglio coi nostri tempi, e se è pur vero che la retromania è sempre dietro l’angolo quella delle Æntropica sembra una scelta dettata dall’ancoraggio a quei tempi passati più che da un tentativo di rinnovamento di certi stilemi.

Una scrittura dei testi interessante, che coniuga enfasi poetica e spinte sociali (Mariani è giornalista e poeta con idee sui diritti umani e civili legate all’etica transfemminista, cosa che si nota anche dalla decisione unanime di coniugarsi al femminile come band) non basta a rendere Stagioni asincrone più di un buon passatempo per inguaribili nostalgici, che forse apprezzeranno più di me la new wave di Controvento, canzone dedicata a Giuseppe Pinelli (uno dei due testi scritti da Olimpico) che sia nel modo di cantare che nella musica rimanda ai Litfiba pre El diablo. Alla fine del racconto di Oricci il protagonista, convinto di assomigliare ormai in tutto e per tutto a Vincent Gallo, esce con una ragazza che lo trova somigliante a Joaquin Phoenix e si ritrova a chiedersi se Roberto Cuoghi ce l’avesse fatta ad assomigliare a suo padre: auguro alle Æntropica di avere idee più chiare su ciò che vogliono essere nel secondo disco, perché buone abilità tecniche e di scrittura non bastano se ti rifai in maniera troppo simile a modelli lontani nel tempo che, cristallizzati nel ricordo, diventano ineguagliabili.

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Racconto in musica 203: senzaparole (Kruder & Dorfmeister – Speechless)

Ho già raccontato più volte del mio rapporto complicato con la musica elettronica. Iniziato sotto i “migliori” auspici da ascoltatore appassionato della Deejay Parade (ricordo che chiedevo a mio fratello le canzoni che erano state messe al Celebrità, discoteca del novarese che ho scoperto solo recentemente non essere quella di cui parla Max Pezzali nella terribile La regina del Celebrità, quando lui aveva l’età, la patente e una compagnia con cui andarci e io no), è stato contraddistinto da un rigetto velocissimo che mi ha tenuto lontano per anni da qualsiasi forma di musica che non uscisse (se non parzialmente) dai classici strumenti del rock. Poi col tempo ho ascoltato (e in alcuni casi ho dovuto ascoltare) progetti che mi hanno fatto capire che The rhythm of the night di Corona e in generale tutta la musica dance commerciale che sentivo nelle rare sortite in discoteca era solo la punta di un iceberg che sarebbe stato probabilmente meglio ribaltare (anche se il magnifico Ex machina di Valerio Mattioli mi ha insegnato a dare la giusta importanza al corpo e a diffidare dell’intento puramente cerebrale della scena IDM, della quale abbiamo comunque ospitato dei componenti), ma era già difficile a quel punto riuscire a esplorare quel vasto mondo per capire le differenze fra house, techno, jungle, drum’n’bass e tutto ciò che è venuto e verrà, figuriamoci recuperare chi quel mondo lo aveva animato e reso sfaccettato. Per questo motivo io il duo Kruder & Dorfmeister l’avevo forse sentito nominare solo di striscio prima che Cristina Pasqua mi proponesse di scrivere un racconto basato su una loro canzone, e guarda un po’ oggi sono loro i dj della nostra discoteca improvvisata.

Cristina non avrebbe bisogno di presentazioni visto che l’abbiamo già importunata poche settimane fa, chiedendole di rispondere ad alcune domande sulla scrittura. Editor freelance che vive e lavora a Roma, abbiamo avuto la fortuna di conoscerla personalmente grazie alla comune militanza in quel gran bel progetto che è multiperso (qui un po’ delle sue microprose) vero e proprio collettore di appassionat* e sperimentator* di microfiction. La sua carriera da autrice inizia nel 2001 con Diciassette (2001, Odradek Edizioni), prosegue con fughe (2023) e forasacchi (2024), entrambi pubblicati da pièdimosca rispettivamente nelle collane Ossa e Glossa, si espande con la partecipazione alle antologie multiperso (2022, pièdimosca) e L’ordine sostituito (2024, déclic) e arriva al romanzo con Forbici (2024, Lorusso), scritto a quattro mani con Alessandro Pera. Innumerevoli sono poi o suoi contributi su riviste (citiamone un po’ in ordine sparso: DegradoSuper Tramps Club, Gelo, Nazione Indiana, Il cucchiaio nell’orecchio… e questo limitandoci a una rapida ricerca su google), tanto che il racconto che ci ha donato si incunea in un florido periodo di uscite che l’ha vista ieri uscire su Morel – Voci dall’isola e la vedrà anche mercoledì su Border Liber. Ci segnala che il suo codice fiscale è PSQCST67B65H501R  e noi ci sentiamo in dovere di riportarlo.

Ci piace sempre quando l* autor* si prendono la briga di raccontarci la musica che hanno scelto, e Cristina ha accolto la proposta di toglierci le castagne dal fuoco e parlare in prima persona del connubio fra Peter Kruder e Richard Dorfmeister.

“Kruder & Dorfmeister’s story is not just a story of refusal and renunciation. As the two started making music together in the early 1990s, there was hardly anything that the two didn’t do “wrong”, and therefore, exactly right.
La storia di Kruder & Dorfmeister non è solo una storia di rifiuti o rinunce. Quando hanno cominciato a fare musica insieme, nei primi anni ’90, sembrava che facessero tutto “sbagliato” – ed è proprio per questo che facevano tutto nel modo giusto.
(fonte: Original Bedroom Rockers Studio | ABOUT | https://kruderdorfmeister.com)

Soffiamo sulle duemila candeline di una torta e facciamo un salto indietro. Primi anni novanta, due ragazzi, due campionatori AKAI, uno Space Delay della Roland, un mixer impolverato e tre verbi all’infinito – ascoltare, sentire, trasformare. Quel che ne affiora è un suono nuovo, ruvido, che non ha nulla a che vedere con la maniera. Se dovessi pensare a un odore penserei a quello che t’allaga dopo la pioggia – l’asfalto bagnato, le zolle smosse, un gusto ferroso sulla lingua. Reinventare, cambiare di segno pur non perdendo un cromosoma del codice genetico del brano di provenienza. Useless (Depeche Mode, Ultra, 1997) non va a morire, i Depeche Mode s’acquattano, si stirano, si flettono, si piegano e s’increspano, ma restano sempre lì, e anche se non sono più del tutto loro, sono loro, i Depeche, e altro dai Depeche, sono Kruder&Dorfmeister che rileggono Useless, dove l’altro è la capacità di allargare una trama, inserire una digressione, allentare la tensione, creare la suggestione di una eco. Controcorrente, al riparo dal circuito delle grandi etichette, inclini a collaborazioni e progetti, hanno creato un suono personale, sperimentale inventando un nuovo linguaggio che non funziona come i tanti linguaggi parlati del mondo, ma piuttosto come un linguaggio del corpo: universale, globale, unificante – «which does not function like the many spoken languages of the world, but rather as body language: universal, global, unifying».”

Speechless è la terza traccia delle K&D Sessions, doppio album di remix che il duo viennese ha pubblicato per la propria etichetta Studio K7 nel 1998 e che stanno portando live in giro per l’Europa con una band di musicist* (ad aprile sono stati al Fabrique di Milano, locale di cui teniamo a segnalare la folle politica di far pagare una birra di merda nove euro, mentre il 16 novembre saranno alla Sala Santa Cecilia di Roma). Nell’operazione di manipolazione sonora operata dal duo il brano di Count Basic assume una carica ansiogena assente nell’originale, acuita dallo splendido video che trovate più in basso (e che mi ha convinto, e spero di mantenere questo proposito, a non mangiare più pollo in vita mia): il racconto di Cristina mantiene alla perfezione questa carica, operando sul ritmo delle parole e scegliendo la seconda persona in maniera da immergerci nell’atmosfera del club dove l* protagonista vaga come all’interno di un corpo, rimandando al film Viaggio allucinante di Richard Fleischer che l’autrice cita in esergo. Non vi resta che sprofondare anche voi nel locale al ritmo di basso, batteria e parole, a me non resta invece che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero l* artist* accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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senzaparole, di Cristina Pasqua

ricognizione: ‘clubbing’ non è una voce presente nel vocabolario Treccani. La parola ‘club’ ha il significato di ‘circolo’ o ‘associazione’, e ‘clubbing’ generalmente si riferisce all’attività di frequentare locali notturni (discoteche, night club).

I think it’s very exciting. We’re going to see things no one has ever seen before. Not just something under a microscope. Think about it.
Richard Fleischer, Fantastic Voyage, 1966

All’ora, mezzanotte e un quarto di lancetta, oltrepassata la bocca di ferro del cancello, superate spalle larghe e Collodi, la mano tesa all’entrata, scendi lungo la lingua sversa del camminamento. Oltre la bocca spalancata del bancone, una mano tesa sulla sinistra, ti serra il passo e schiaccia il budello bituminoso, buio come un esofago, e oltre ancora, impedito da un’epiglottide di plastica, s’apre in cistifellea un cortile di contenimento, l’aria densa, solida e opaca di fumo. Da lì, dal giardino, si sbuca dritti nello stomaco – i denti acuminati del palco in fondo e, addossato dall’altra parte, il fegato, lungo e nero, interrotto solo da luminescenza di vetrobicchieri, granelli di sale e gialloscorzadilimone, la gabbia dei tecnici di luce a malapena rischiarata alle tue spalle. Note anticorpi ti aggrediscono pigre, il giro di basso si ripete, voce eco e voce sussurrata, sgomita per entrare la batteria, stringe e aumenta, si ripete, il charleston si fa sabbia, sale, piano, e lento s’ingrossa, tracima, l’onda diventa tempesta, si sfalda, arretra, aumenta e cresce, s’incunea la voce, prima solo un soffio, un refolo poi si fa vento sferzante fino a che
all’improvviso
si interrompe

riparte

e ancora s’ingrossa, e i bassi ti squassano dentro, entranoescono, entranoescono, tracciano una geometria di linee spezzate, segmenti di pause, riprese, ancora pause ed entrano i fiati ed è di nuovo sabbia spazzata deserto e dune, al vento una palma si piega, si rialza, riparte, e si fa onda, diventa mare, s’ingrossa, prende vigore, s’attesta, un sospiro soffiato, un’altra raffica, e il basso continua, imperterrito sempre, non smette, mentre tutto cambia e resta uguale, mentre lo stomaco ti mastica e la vista ti s’appanna, mentre ti perdi e ritrovi, sali e scendi, cerchi e non trovi la voce, cerchi e non trovi, cerchi e sei muto, cerchi ancora, ma sei senzaparole.

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Racconto in musica 202: Noi ricostruiamo (Dalila Kayros – Susneula)

Settimana scorsa al Salone del Libro di Torino (in occasione del quale mi sono preso la licenza di saltare il racconto settimanale, pratica di cui sto abusando da un po’ troppo tempo) con var* conoscenti è partita una conversazione che riguardava vacanze e musica. Magari qualcuno la fa già questa cosa, ma ipotizzavamo la possibilità (totalmente ipotetica) di organizzare viaggi a tema musicale, portando l* turist* nei luoghi migliori per ascoltare musica o per fare un’esperienza musicale particolare, tipo andare in una sala prove di Tokyo alle tre del pomeriggio ad ascoltare una serie di band fra cui una thailandese (true story). Sarebbe una bella attività, probabilmente poco remunerativa e destinata al fallimento come tante cose belle, ma ragionandoci sopra mi è venuto da espandere il concetto e pensare a quali posti del mondo potrebbero invece farsi forza della loro scena musicale per attirare turist* (per quanto l’overtourism spinga ormai tanto luoghi a tenere lontano l* turist*): in fondo tanto del fascino di Berlino non deriva anche dai suoi club? Il primo posto che mi è venuto in mente, semplicemente perché non ci sono mai stato ed è la musica che mi sta attraendo come ulteriore leva per farmelo visitare, è la Sardegna, perché non trovo una scena musicale che si fonda più di quella sarda su un connubio di profonde radici tradizionali e innovazione stilistica: da lì arriva anche Dalila Kayros, ovvero la nostra resident woman della settimana.

La virtù originale è stata Iacopo “Iosonouncane” Incani, recuperato con colpevole ritardo e poi visceralmente amato, poi è arrivato il successo dirompente di Daniela Pes a rimettere in breve tempo la Sardegna sulla mappa musicale nazionale e nella playlist di Tremila Battute: nel 2013 però, anno in cui il primo sviluppava in gran segreto la prima svolta della sua carriera e la seconda doveva ancora laurearsi in canto jazz, l’isola vedeva uscire il primo disco di Dalila Usai, il nome che si nasconde dietro il moniker Dalila Kayros, e senza che ne avessi contezza c’erano già in Nuhk (Den Records) molti degli elementi che faranno la fortuna dell* su* contarrane*: la musica elettronica, le atmosfere cupe e oniriche e l’utilizzo del sardo come lingua d’elezione. Ciò che contraddistingue già le prime canzoni di Dalila Kayros, oltre all’interessante connubio fra il tribalismo percussionistico di Antonio Zitarelli (già attivo nei Mombu con Luca Mai, vecchia conoscenza di Tremila Battute coi suoi Zu) e la componente elettronica che si districa fra ambient e industrial, è l’utilizzo variegato della voce (Usai nelle brevi bio trovate online non per niente si definisce ricercatrice vocale), un vero e proprio strumento aggiunto che nella lingua sarda trova un suono forte e ruvido che ben si associa alle atmosfere che intende creare.

È difficile ricostruire una carriera quando si è scoperta un’artista da un paio di mesi scarsi, per cui spero mi perdonerà Usai se salto in avanti citando solo velocemente l’autoprodotto Transmutations [I] yin side (2018) e Animami (2022, disco con cui si apre il sodalizio con la sempre attenta Subsound Records), album che vedono l’ingresso di Danilo Casti come “partner in crime” nella composizione e registrazione delle musiche e che espandono ulteriormente il mondo sonoro, vocale, linguistico (oltre al sardo anche l’inglese fa capolino) e finanche spirituale del progetto Dalila Kayros, essendo ognuno dei due album anche un modo di esplorare la propria interiorità (in questa intervista apparsa su The New Noise l’artista ne parla approfonditamente), perché la mia esplorazione del suo mondo sonoro è stata retroattiva e partita dal felice invio da parte di un ufficio stampa del suo ultimo disco, Khthonie. Idealmente sospeso fra forze creatrici e distruttrici, intriso di tradizione così come di suoni moderni e innovativi, l’ultimo disco di Dalila Kayros è uscito a inizio aprile sempre per Subsound ed è un viaggio unico nel suo genere seppur collegabile alle sperimentazioni vocali e sonore di Incani e Pes: l’atmosfera a tratti angelica e più spesso sulfurea, i synth cupi e debordanti e quella voce che va dove vuole, fra grida raggelanti e vocalizzi, contribuiscono a creare nove brani magici e inquieti più che inquietanti. Mitza si apre come una filastrocca nera che non può che finire in un caos viscerale di cupezza elettronica, Leviatan unisce in un unico ibrido cibernetica e folklore, Terranera alterna momenti di calma in cui la voce si espande ad abbracciare il cielo a corse forsennate in cui il battito della terra ci inchioda al suolo e Corpus sonorum, mioddio, è una di quelle canzoni che si prendono tutto il tempo necessario a crescere d’intensità per arrivare a strapparti il cuore e farti venire voglia di piangere di fronte alla potenza della voce di Usai che si eleva, raggela e poi urla in italiano con tutta l’emotività possibile la sua lezione per l’elevazione (quanto è banale e limitata la parola elevazione, ma è l’unica che riesco a trovare senza fare un discorso che renderebbe questa parentesi lunga otto pagine e non arriverebbe comunque a niente), citandovi all’interno anche Judith Butler. Ci sarebbe da parlare degli altri brani, dei video delle sue canzoni, dei make up creati da Sofia Usai che attraverso l’immagine espandono il mondo sonoro di Dalila Kayros e della collaborazione pluriennale con la band metal Syk, ma spero di avervi incuriosito abbastanza da andare a esplorare in prima persona.

Susneula è la settima traccia di Khthonie, nonché la più lunga del lotto: otto minuti in cui Usai armonizza e terrorizza mentre i synth operano oppressivi in sottofondo, prendendosi rare pause in cui il lato più industriale e sferragliante della sua musica trova libero sfogo. Ascoltandola mi si è fissata in testa l’immagine di un ciclone che arriva inesorabile non a distruggere ma a rivoluzionare, e saltando di pensiero in pensiero ecco formarsi la storia di una comunità in cui il Ciclone è parte integrante della vita, una sorta di divinità da temere, accettare e adorare in egual misura. Trovate la storia di chi ci deve avere a che fare più in basso, subito dopo la canzone che l’ha ispirata: a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

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Noi ricostruiamo

Il Ciclone arriva sempre una volta l’anno, mai nello stesso periodo, mai d’inverno, spesso all’inizio dell’estate. È capitato che arrivasse ad autunno inoltrato, quando gli stolti iniziano a pensare che forse il Ciclone risparmierà loro la sofferenza necessaria.

I meteorologi dicono che è colpa del cambiamento climatico: gli si dà retta sì, gli si dà retta no. L’inquinamento è un grosso peccato ma il Ciclone è volubile, si altera più per le piccole cose che per quelle enormi. Da queste parti dicono: il Ciclone cambia idea come una zoccola che non sa stare al suo posto, e a volte basta questo per attirarlo e farlo infuriare.

Il Ciclone lo si sente arrivare: la temperatura scende, le foglie cominciano a cadere. Ai primi segnali si inizia il digiuno: niente carne di maiale per una settimana. Poi si passa a sacrifici maggiori, giorno per giorno. Ci si astiene dalle droghe, ci si astiene dall’alcol, si sgozzano venti galline, cose di questo tipo. Più il Ciclone si fa aspettare, meno costanza si mette nei sacrifici: gli impuri capiscono di aver compiuto atti troppo terribili e che la punizione sarà comunque adeguata, per quanto possano chiedere scusa, e il non ricordarsi cosa si è fatto rende solo maggiore la vergogna.

Quando il Ciclone arriva non si sente altro che il Ciclone per ore. Quando la sua forza è al massimo, però, quando il suo centro è vicino e aguzzi l’orecchio, che tu sia fra i puri o gli stolti sentirai una voce senza parole illustrare la bellezza di un mondo senza peccati, senza Ciclone, e quella voce è così bella che puoi riuscire ad immaginarlo, quel mondo, e immaginandolo riprometterti di iniziare a costruirlo.

Dopo il Ciclone arrivano gli architetti, coi loro assurdi piani di edilizia consapevole, edilizia compatibile. Solo i deboli si armano per resistere al Ciclone, solo coloro che non sanno più ascoltare la sua voce, che scappano lontani per non sentirla risuonare nelle proprie orecchie. Da queste parti dicono: quando tutte le case saranno considerate sicure, allora quello sarà il giorno in cui il Grande Ciclone spazzerà via la nostra superbia per sempre. Da queste parti dicono: noi ricostruiamo, ogni volta, e così sia.

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Essere madre domoggi: Cronache dell’età fertile di Barbara Di Gregorio

Alle tre di quel pomeriggio, la Ministra dei Beni culturali si presenta alle colleghe e alla stampa conciata alla moda delle figlie di carne: per la prima volta in pubblico senza corsetto, né reggiseno, né trucco, il suo corpo fa bozzi da tutte le parti nonostante la generosità della felpa a sacco d’immondizia che ha addosso; la pelle è macchiata, si vedono i pori, le labbra hanno lo stesso colore dei denti; i capelli corvini, pochi, piatti, sono bagnati e pettinati all’indietro come per dare maggiore risalto a quello scempio di faccia. Ma gli occhi brillano come punte di coltello su giornaliste e colleghe riunite per lei nella sala stampa della Questura. Eccola che monta in piedi sul tavolo: nella stanzetta cala un silenzio di morte appena solleva il felpone sulla pancia svuotata: una piega molle di cellulite e di grasso nasconde fino al cavallo dei pantalonacci da tuta.

Ho contratto l’SP-32 più di vent’anni fa e sono stati i vent’anni più belli della mia vita, dichiara col suo tono da comizio sindacalista nei vicoli. Perché li ho passati insieme a una creatura meravigliosa. Mio figliO!

Boato in sala: è la prima volta che una rappresentante del governo pronuncia in pubblico quella O senza senso, avallando l’escamotage linguistico recentemente esploso sul web per ammantare di dignità e di diritti i virus generati da carne.

La vice questora interviene a riportare il silenzio. Beni culturali continua: Avete capito che sto parlando del virus, il giovane virus trasferito alla disinfezione stanotte dopo l’incivile retata alla mia proprietà.

Incivile!, grida la Ministra della Salute, si sbraccia verso la vice questora che fa finta di niente e resta con le mani dietro la schiena.

La civiltà è sana solo se cresce, continua l’altra alzando la voce di un tono. Se si evolve. E per evolvere dobbiamo solo aprirci al cambiamento: quando vent’anni fa sono rimasta infettata non lo avevo certo deciso. Passeggiavo nel bosco, e mi si è parato davanti un animale talmente nobile che non ho potuto averne paura. All’inizio non voleva nemmeno farsi toccare: era più spaventato di me. Sono stata io a inseguirlo, io a toccarlo per prima, io a guidarlo dentro di me…

Che io ricordi non ho mai iniziato a parlare di un libro inserendo direttamente una citazione dello stesso, ma questo estratto del racconto La Ministra del No, uno dei sei che compone la raccolta Cronache dell’età fertile di Barbara Di Gregorio, mi è sembrato perfetto per indicare subito e meglio di mille parole tono e temi del libro. In queste poche righe infatti compaiono tante delle tematiche affrontate nel racconto in particolare e nel libro in generale (maternità, cura del corpo, linguaggio, diritto di scelta), ma si capisce anche chiaramente la fortissima componente ironica con cui è confezionato il tutto, perché Di Gregorio strappa risate mentre ci fa ragionare e riesce a mantenere un equilibrio perfetto fra queste due anime.

Bizzarra la storia editoriale dell’autrice, ma emblematica di ciò che può accadere a qualunque giovane autor*: nel 2007, dopo la pubblicazione di alcuni racconti su rivista, viene selezionata da Mario Desiati per far parte del novero di scrittori e scrittrici dell’antologia Voi siete qui di Minimum Fax, ancora oggi ricordata per il suo valore seminale nel sottolineare l’importanza delle riviste letterarie nello scovare e far crescere nuove voci; nel 2011 esce il suo primo romanzo per Rizzoli, Le giostre sono per gli scemi; poi, il nulla. Arrivat* al 2025 il panorama è completamente cambiato, molte delle riviste che avevano fatto da “sponsor” per la pubblicazione in Voi siete qui non esistono più e si sono perse le tracce di molt* dell* autor* di quell’antologia fra cui la stessa Di Gregorio, che nel frattempo ha fatto scivolare nell’oblio un secondo romanzo che non convinceva né lei né la casa editrice e ha fatto altro per anni, cercando di arrivare a fine mese invece di entrare a far parte dei salotti letterari. Parte di queste informazioni le ho avute capitando per caso alla presentazione di questa raccolta a Book Pride, dove l’autrice è stata intervistata da quel Matteo B. Bianchi che, oltre a curare una delle riviste sopravvissute fino a oggi (‘tina), ha fatto da collettore con la casa editrice Fandango per concretizzare il ritorno sulle scene di Di Gregorio, che arrivata a un’età in cui l’orologio biologico e la pressione della società impongono di farsi certe domande ha iniziato a ragionare sulla maternità e sulla sua scelta pienamente convinta e felice di non avere figli. Avrebbe potuto venirne fuori un saggio, un romanzo drammatico, magari anche un’autofiction: l’autrice invece è tornata alla forma racconto, e ha deciso di raccontare l’attualità perlopiù attraverso lo spostamento in realtà alternative che assomigliano alla nostra se non per qualche scarto più o meno brutale.

Signora, dov’è suo marito? Si è allontanata? E lo ha lasciato solo? Si rende conto che il signore è a rischio moderato già da settimane, perché avete voluto risparmiare e noi lo capiamo, lo sa che a partire da domani le probabilità di distacco dell’utero salgono al 65%?

La donna allontana il telefono per buttarsi in faccia acqua fredda, l’infermiera – o quello che è – continua: Gli uomini nella condizione di suo marito sono fragili! Anche psicologicamente! Il sostegno dei familiari è fondamentale su tutti i fronti! Non sarà una di quelle che cercano di farli esplodere apposta e poi chiedono il risarcimento danni alla clinica! Noi abbiamo somministrato il trattamento nel rispetto di tutte le norme di sicurezza previste! Lei ha firmato una liberatoria, rimandando il ricovero, questo se lo ricorderà, spero!

Veramente l’ha firmata lui, riesce a infilare la donna.

A lei non importa niente!

Sto poco bene.

E invece a noi importa! Perché qui c’è di mezzo una vita umana, primo, e secondo perché la struttura un altro cretino che fa big bang non se lo può proprio permettere!

Scusi?

L’infermiera sembra rientrare in sé: Scusi lei se mi sono lasciata prendere. Vediamo tante brutte cose qui dentro. Ce l’ha almeno un’idea, di dove sia suo marito?

Cattiva madre

Protagonist* dei racconti di De Gregorio non sono sempre donne, a dispetto di quanto il titolo della raccolta lasci supporre, anche se sono sempre le donne al centro di tutto e la maternità l’argomento principe attorno a cui ruotano le vicende. Capita infatti che in Cattiva madre, come avrete probabilmente intuito dall’estratto qui in alto, sia un uomo a rimanere incinto e la donna protagonista la genitrice che non si cura dei suoi sentimenti, delle sue difficoltà e che si sente addirittura in qualche modo incastrata dalla scelta di avere un figlio, conseguenza del trattamento richiesto dal marito che fino all’ultimo lei spera non funzioni: il racconto, oltre allo spostamento di realtà minimo ma cruciale per immaginare una realtà alternativa, permette a Di Gregorio, e a noi lettori con lei, di operare anche uno spostamento del punto di vista, mettendo gli uomini a confronto con le “gioie” della gravidanza (di cui le donne troppo spesso non sono messe a conoscenza, come si evince da questa interessante intervista all’attrice Francesca Inaudi) e ad organizzare marce di protesta per il diritto alla maternità.

È uno dei pregi maggiori del libro quello di veicolare la narrazione attraverso punti di vista scomodi, operando uno spostamento che solitamente si richiede a chi ha un privilegio e che invece in questo caso ci fa ridere a denti stretti: possiamo sì ritenere ridicolo l’uomo col pancione che fa acquisti dettati dall’umore mettendo a rischio il ménage familiare, o il protagonista (il Marito: Di Gregorio spesso e volentieri fa a meno dei nomi propri) di L’animale maschio, che si reinnamora della moglie dopo aver pensato a una vita futura con l’amante solo quando la prima, a causa di un’anomalia genetica, si è ormai trasformata in una belva ed è stata portata in una riserva apposita, ma ogni sberleffo e ogni ironia devono fare i conti con quella vocina che insistente suggerisce “rideresti lo stesso a parti invertite”? L’apoteosi di questo approccio la si raggiunge con il già citato La Ministra del No, che in poco meno di trenta pagine riesce a suggerire ragionamenti sulle rivendicazioni del proprio corpo da parte delle donne (mai delegittimate: pur partendo da un’intenzione narrativa non femminista l’autrice non dà mai l’impressione di avere posizioni conservatrici, le piace semplicemente metterci in crisi) complesse e tutt’altro che banali, il tutto partendo da una realtà in cui gli uomini sopravvivono in segreto solo allo stato brado, le donne nascono dalle piante e la gravidanza “naturale” (cosa è più naturale nel momento in cui è la natura stessa a darti la vita?) è frutto di un virus che le donne sembrano non voler più contenere.

Nel mondo del fidanzato lei e la madre sono migliori amiche: non sa che l’unico momento in cui sono andate d’accordo è stato il periodo dei primi mesi con lui. È durata finché anche la donna è stata felice di aver acciuffato il tizio coi soldi, cioè finché se n’è andata a vivere da lui su a Milano e ha cominciato a rendersi conto del guaio in cui s’era ficcata. Adesso è solo la madre a sforzarsi di non dirle le sue cattiverie, di fare vedere che si preoccupa, almeno, e lei invece la odia più di quando andava al liceo perché è colpa sua e solo sua, se si è ridotta in questo stato pietoso. Colpa sua della madre: è stata lei fin dall’inizio a montarle la testa con la storia della figlia dell’ottico.

L’oro

Se con Migliori amiche l’autrice sfrutta l’ansia di maternità per sfociare in territori alla Black Mirror, negli ultimi due racconti torna invece gradualmente alla normalità, permettendosi uno sforamento paranormale in Se tutto va bene (il meno convincente del lotto) e aderendo completamente alla nostra realtà di tutti i giorni in L’oro, che senza “effetti speciali” riesce ad avvincere e a metterci negli ennessimi panni scomodi, quelli di una ragazza al settimo mese di gravidanza che cerca un modo per liberarsi sia del figlio che del ricco fidanzato senza perdere i privilegi che la relazione le ha portato. Cronache dell’età fertile è il classico libro per cui si può utilizzare la formula (solitamente usata a sproposito) “fa ridere ma fa anche pensare”, ed è pure scritto bene: auguriamoci di dover aspettare il meno possibile per incontrare di nuovo il frutto della penna di Di Gregorio.

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Qualche domanda sulla scrittura, parte quattro: Cristina Pasqua e Graziano Gala

Tremila Battute compie cinque anni! Come festeggiare? Un grande regalo di compleanno ce lo ha fatto il Circolo Masada, che fino a giugno ci ospiterà una volta al mese per parlare con autor* della rivista delle loro pubblicazioni, dei loro racconti e, ovviamente, di musica e letteratura (tenete d’occhio la pagina Facebook per essere aggiornat* sul calendario): un altro abbiamo deciso di farcelo/farvelo contattando autori e autrici che qui apprezziamo un sacco, facendo loro alcune domande che ci ronzavano in testa da un po’ riguardo al loro rapporto con la letteratura, con la scrittura e con tutto ciò che gira intorno all’ispirazione, al metodo e al modo in cui scrivono coloro di cui abbiamo adorato i libri.

Per questo quarto appuntamento abbiamo contattato Cristina Pasqua e Graziano Gala, che hanno gentilmente risposto ai nostri quesiti: qui, qui e qui trovate le puntate precedenti.

Da quanto scrivi?

CP – Se srotolo la linea del tempo, non è facile individuare ’l giorno, e ’l mese, e l’anno, e la stagione, e ’l tempo, e l’ora, e ’l punto. Ricordo che a un certo momento tutto scalciava e graffiava per uscire. Ne approfitto per ringraziare Achille Serrao, poeta, scrittore, caro amico di mio padre, che ai tempi frequentava casa nostra. Un giorno, incuriosito, mi chiese di leggere le mie cose e mi suggerì di trattare meglio i miei fogliacci sparsi, di conservarli con cura. Quando gli feci leggere Spirito di conservazione, lo trovò maturo e mi propose di farlo uscire su «Tratti», rivista della casa editrice Moby Dick. Era l’autunno del 1996. Questo è forse l’inizio.

GG -Le poesie da piccino. Come tutti. Poi molto vuoto, molto tempo vuoto: ora vedo ragazzx bravissimx ai vent’anni con possibilità di scrittura importante, che se non si lasciano sfiorire possono fare cose preziose già ai venticinque, ché oggi leggere alcuni giovanissimi può essere importante veramente per capire come girano le cose del mondo. Io sul serio – ammesso che di serietà si possa parlare – a ventisei, ventisette. A un certo punto ho pensato: sto male, sto male, sto male. O lo dico in qualche modo o affogo. O trovo i modi per dire cosa mi è successo o devo sparire per troppo dolore. Da lì sono successe le cose. Sono stato fortunato: questo è, così mi sento. Ogni tanto mi arrabbio, quando vedo qualche unto del signore messo lì senza veramente arte né parte, che tutti sappiamo bene perché stia lì. Poi dico zitto scemo, sei stato fortunato: zitto e dici pure grazie. E mi quieto tutto. Sono stato fortunato. Ho pubblicato per la casa editrice che sognavo quando avevo venti anni, va bene così. Ne ho trentaquattro: se non muoio presto magari qualcosa ancora succede.

Quando hai pensato la prima volta “sono brav*” a fare questa cosa?

CP – Mai. Finora non mi è mai capitato. Quando arriverò a pensarlo, forse smetterò di cercare, di scrivere.

GG – Io bravo non mi sento mai. Cane forse, cane. Mai mi dico bravo. Mai mi penso bravo. Infatti vivo malissimo. Sempre Calimero, sempre devi dimostrare, sempre devi provare che non sia stato un incidente. Però due momenti mi hanno fatto caldo al cuore, due tra i tanti – perché le persone che si leggono i libri miei poi il bene me lo fanno sentire e io vivo a colpi di bene: una volta a Berlino una ragazza dopo un firmacopie mi ha abbracciato e mi ha detto anch’io e io mi sono sentito che colavo a pavimento. Che andava bene così. Avrei voluto stringerla e piangere poco poco, però mi vergognavo. E poi la mamma: al paese mio noi siamo contadini. In dialetto li chiamano dispregiativamente scarufaterra, quelli con il naso nella terra. Mia mamma adesso nel paese le offrono i caffè: tiene il figlio che è andato al Tg2. Io ho lavorato ogni cristo di giorno per togliere a mia mamma la terra dalle unghie: io ho ripulito tutto. Non c’è misura di questo. Io so cosa sia costato. E questo quando mi sento malissimo mi dà pochino di respiro

Hai un metodo di scrittura?

CP – Credo la cova, ma non ne sono così sicura. Mi colpisce il refolo di una battuta, uno sguardo sbieco, un piccione, un portone che si chiude, le gambe nervose di una donna seduta in balcone a fumare. Suggestioni che risuonano, assorbo come spugna, finiscono chissà dove, iniziano a vivere di vita propria, cambiano di segno e significato. Quando il portone diventa cancello, il piccione s’alza in volo ed è un gabbiano o una delle gambe della donna sparisce lasciando un vuoto, nel cambiamento e nell’assenza, rilascio, inizio a scrivere.

GG – Mattina presto, a notte appena passata. Le cinque. Devo essere appena uscito dal sonno. Mi lavo le mani e la bocca: devo essere pulito, degno. E si va. Bisogna scrivere nei momenti di incoscienza, quando sei ancora debole, ferito. Io credo molto all’epica. Agli aedi. Io non scrivo. Io faccio da tramite. Mi possiede qualcosa. Quando leggo si capisce: io sono timidissimo, ma lì divento un altro. Non so spiegarti: so che lì sono vivo. Che mi sta succedendo una cosa. Che è un fatto serio, che mi riguarda. Che la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo. Io da piccino mi sono successe cose che mi dovevano cancellare il cuore: invece me lo sono tenuto, è rimasto. E dio o chi per lui mi ha premiato così: mi ha reso sensibile. Mi vengono a trovare i personaggi, mi dicono le cose. Giuda, Popoff, Mino. Ecco qual è il metodo mio: mi siedo lì e mi metto a disposizione. Occupatemi.

Ti è capitato di avere il blocco dello scrittor* e/o pensare “non ho più un cazzo da dire?

CP – Ancora no. A volte ci spero pure. Dico basta!, poi ricomincio. Il foglio bianco rassicura, è aria, respiro, possibilità. Riguardo alle cose da dire, anche se non sono un’appassionata di autofiction, basta annusare, guardare, toccare, esercitare i sensi.

GG – No, no. Io sono lento: se non tengo niente da dire non scrivo niente. Deve valerne la pena. Se a un certo punto non ci sarà più da dire staremo zitti. Faremo altro. Per arrivare a scrivere devo proprio non riuscire a tenere più la cosa dentro: mi deve bucare. Non mi sento scrittore. Professore a scuola, magari quello sì. Docente. E poi tengo questa fortuna. La custodisco come posso. Non è tempo di farsi ossessionare: abbiamo visto figure ben più serie e affermate cadere a precipizio. La gente che scrive dovrebbe andare a parlare con Marco Marino, con Fabio Stassi: sono persone che ti tengono nella realtà, grandi saggi.

Hai una bacheca dei rifiuti modello Stephen King? Se sì (o se no e hai una buona memoria) quanti ne hai ricevuti?

CP – Non ho una bacheca, ma ho una buona memoria. Convinta del fatto che la scrittura sia come il maiale, allevo da anni e anni con passione un corposo allevamento di rifiuti suini, una grossa scrofa con un’infinità di piccoli no al seguito.

GG – No, sarei cascato. Non ho proprio resistenza. Ci penso già da solo a rifiutarmi più volte al giorno. Però devo dire grazie a una rivista molto bella ormai non più esistente: Tuffi. Mi hanno scartato più e più volte. E io quanto ci tenevo, quanto. Ho pensato: devo fare vedere, devo mostrare che tengo ragione, che posso valerne un poco la pena. Quasi come fosse un puntiglio, una questione di principio. Da lì poi sono finito con un altro racconto su Risme e in qualche maniera tutto è iniziato. I rifiuti sono preziosi: quando faccio corsi di scrittura lo dico. Se motivati insegnano e fanno riflettere, ma a prescindere affamano, fanno sentire l’odore del sangue. Serve, specie a quelli che sono stati poverissimi come me. La scrittura alla fine una cosa è: lotta di classe. Non dimentichiamolo.

Quale autor* quando lo leggi ti fa pensare “ecco, io non sarò mai così brav*”?

CP – Tanto mi immergo nella lettura, tanto più mi commuove e rende felice la padronanza altrui della pagina, la costruzione o de-costruzione di trame, personaggi, ambienti, atmosfere, come si acciuffa il sapore di un’epoca, si ferma il tempo che scorre. Dimentica di me, mi prende la smania di leggere l’opera omnia di questa autrice o quell’autore. Lo stupore di Palomar di Calvino, l’architettura di Borges e Canetti, il miraggio di Morselli e Buzzati, la consapevolezza di Wharton, gli arabeschi di du Maurier, la vertigine che mi ha fatto sprofondare in Cortázar e Lispector, la mano ferma di Carver, la bocca sporca di Welsh, il distacco di Carrère. Ora sono stupefatta da Austin Wright. Dopo Tony & Susan, leggo Disciples in originale, penso alle porte girevoli, non ne esco più.

GG – Tantx: ti faccio l’elenco e finiamo domani. E con gioia. Io in ogni presentazione elenco almeno tre o quattro italianx viventx perché c’è il rischio che l’essere italiano e vivente implichi il non essere bravo finché uno non crepa: andate a pubblicare Elena Giorgiana Mirabelli, per esempio, una autrice pazzesca che non sto leggendo da troppo. E ne dico una sola. Per tornare alla domanda, ti faccio un esempio: Vasta, Il tempo materiale. Che dio. Ma pure, se vuoi un trapassato: La Capria, Ferito a morte: nessuno riscriverà mai più una cosa del genere. È lo zenit. Neppure ci si deve avvicinare. Ammirare, ringraziare di aver letto, quello sì. La scrittura è bella, perché non è una gara: è una cosa dove si prova a trovare il bello, il profondo, il guaio. Una terapia di gruppo.

Qual è il testo che hai pubblicato su rivista, o che magari non hai mai neanche pubblicato,  di cui sei più orgoglios*?

CP – Non saprei. A rileggere, dopo il giusto tempo, una volta piantumati e sedimentati, magari nessuno.

GG – Camillo: più veloc-ce di uno stril-lo / più leg-giero di uno spil-lo / colla pelle a coco-drillo. Camillo mio. Io sono un poco strano: mi siedo a terra, gioco con le costruzioni, parlo con le cose. Mi sono sempre vergognato. Ora non più. Camillo mio, che poi sono io. È uscito su Turchese: se oggi fossi un raccontista farei la lotta per andare su quella rivista. Passeranno quelli bravi da lì. Camillo: un bimbo speciale, forse non sempre al cento per cento, che parla coi cani e contratta per avere un certo numero di bacetti. Fa niente se non si diventa mai adulti, pazienza: l’importante e non morirci, per le cose passate. Poi ognuno sopravvive come riesce.

cristina pasqua pubblica Diciassette (Odradek Edizioni, 2001), fughe (pièdimosca | ossa, 2023) e le microprose forasacchi (pièdimosca | glossa, 2024). È presente nelle antologie multiperso (pièdimosca | glossa, 2022), L’ordine sostituito (déclic, 2024) e su blog e riviste online. Forbici (Lorusso, 2024), scritto a quattro mani con Alessandro Pera, è il suo primo romanzo edito. Editor freelance, vive a lavora a Roma.

Graziano Gala vive nella provincia lombarda, insegna storia e italiano in un professionale. Ha scritto racconti su riviste e litblog. Ha pubblicato per minimum fax Sangue di Giuda (2021) e Popoff (2024), la novella Ciabatteria Maffei (2023) per Tetra. È il curatore del Controdizionario della lingua italiana (Baldini+Castoldi, 2023).
Scrive per Treccani. È direttore artistico di Duerive, festival delle storie.

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Racconto in musica 201: Maxwell Street (Dry Cleaning – Every day carry)

Arriva un’età in cui cominci a dimenticare le cose. Non quelle importanti, quelle mi sfuggivano già vent’anni fa, insieme a cose meno importanti ma difficili da ignorare: ho fatto una settimana senza ricordare il nome di Scarlett Johansson, e mica a inizio carriera. Le cose che dimentico però, e che una volta mi restavano in testa di più, sono le piccole cazzate legate alle passioni: le battute di un film, i componenti di una band, il modo in cui hai scoperto quel tal disco (o il momento in cui l’hai acquistato, tipo quando trovai l’anziana madre del padrone del mio negozio di dischi di fiducia in cassa al posto suo proprio quando dovevo comprare Dall’impero delle tenebre de Il teatro degli orrori: non battè ciglio). Ora invece mi dimentico i nomi degli attori di un film visto il giorno prima (mi abbuono almeno quelli coreani), e mi ritrovo ad ascoltare una band come i Dry Cleaning pensando “ma questi come li avevo scovati?” Una recensione? Non penso. Consiglio di amici? No, sono io l’amico che li consiglia. Messaggio subliminale? Credo lo userebbero più per mettermi in testa l’ultimo singolo di Lady Gaga e convincermi a comprare i biglietti per il suo concerto (come sono già finiti? E io che avevo appena venduto un rene per comprarli!). Sia come sia, le canzoni della band non penso che le dimenticherò, e l’importante in fondo è quello.

A permetterci di parlare di loro è Andrea Scagliarini, nuova aggiunta al novero di scrittor* in gamba che noi andiamo a disturbare e loro non solo ci rispondono, ma ci mandano pure dei racconti. Virtuoso dell’armonica e artista blues dalla voce baritonale, ha sempre pensato di essere un musicista indipendente prima di diventare un insegnante nella periferia Sud di una grande città del Nord, il che lo rende la figura perfetta per un blog/aspirante rivista letteraria come il nostro. Mentre noi strimpellavamo male la chitarra, lui lavorava come orchestrale in Europa o sui palchi di importanti blues festival americani. Di notte legge, scrive, riscrive o studia musica. Vegetariano da sempre, si muove in bicicletta oppure a piedi. I suoi testi sono apparsi sulle riviste letterarie Narrandom, Racconticon, Pastrengo (anche qui), Enne 2 (sul numero 9), Nabu, Border Liber, Linoleum e Kairòs, e come al solito vi invitiamo a leggerli tutti. Nel 2025 è stato semifinalista al Premio Italo Calvino per Racconti.

A volte basta poco per creare una band con una forte personalità. Una chitarra ubriaca il giusto, un basso rotondo con maestria e fantasia, una batteria minimale che accompagna in maniera fondamentale e discreta: quando poi nel 2017 Tom Dowse, il chitarrista ubriaco che assieme a Lewis Maynard e Nick Buxton ha appena formato una nuova band, reincontra Florence Shaw, cantante con cui aveva condiviso gli anni al Royal College of Art di Londra, alla miscela si aggiunge una voce che dà al tutto una spinta ulteriore verso l’unicità. Perché i Dry Cleaning sono una band che avrebbe potuto essere come molte altre, una di quelle che recupera il post punk e si limita a rinfrescarlo, invece l* quattro musicist* riescono a creare qualcosa di unico e particolare, dentro alle logiche del genere ma dissimili da chiunque altr* (o almeno chiunque altr* abbiamo ascoltato, e ne abbiamo ascoltat* tant*). Quando Shaw accetta di prendere il microfono in mano alcuni brani sono già pronti, altri si aggiungono e il tutto porta a due Ep in due anni, Sweet princess (2018) e Boundary road snacks and drinks (2019), entrambi usciti per l’etichetta It’s ok e riuniti in un unico packaging lo stesso anno, che è quello della svolta: Shaw, reduce da una storia finita (male) proprio il giorno in cui il principe Harry annuncia al mondo intero il suo fidanzamento con Meghan Markle (una che è fonte d’ispirazione costante per l* artist*), nel 2017 scrive di getto il testo di Magic of Megan e come primo singolo la canzone funziona alla grande, dando modo alla 4AD di metterli sotto contratto e al grande (facciamo medio, dai) pubblico di accorgersi della musica e dei testi bizzarri della band, nonché della sensualità straniante dello spoken word di Shaw.

Perché già, quello che abbiamo omesso fino a qui è uno degli elementi fondamentali del suono dei Dry Cleaning, quell’appoggiarsi delle parole di Shaw sulle note con la sicurezza di chi lo spoken word l’ha creato e non lo utilizza semplicemente dopo che svariat* altr* artist* l’hanno sperimentato. Nei due Ep la voce è ancora inserita abbastanza nel mix, ma la 4AD (e John Parish che produce il disco) hanno l’intuizione di renderlo un elemento a sé, inserito eppure distante, morbido nel suo narrare testi che sembrano collage di immagini difficili da decifrare mentre sotto gli strumenti creano il contesto: musica fatta come fosse la colonna sonora di corti cinematografici, con tanto di voce narrante, questo dà quasi l’impressione di essere New long leg, il primo disco ufficiale che esce nel 2021 e che li proietta (non so quando, non so per quanto) alla vetta della UK Indie chart. La squadra non cambia quando nemmeno un anno e mezzo dopo esce Stumpwork (2022), ancora più affinato ma non per questo addomesticato, folle in maniera sotterranea, come un elemento che stona all’interno di un contesto perfettamente normale attirando la tua attenzione senza che tu sappia dire perché: questa è la sensazione che mi danno la tranquillità in cui avvolge il giro di basso di Anna calls from the arctic, o l’andamento claudicante di Driver’s story, marginali e sconclusionati frammenti di vita messi in musica e resi ancora più bizzarri (penso di aver usato molto questa parola nell’articolo) dai video realizzati per accompagnarli, brevi scene mandate in loop continuo di rane in un acquario, semafori pedonali e svariata altra accozzaglia di momenti dimenticabili. L’ultimo parto creativo della band è l’Ep Swampy, una di quelle uscite divertenti e divertite che fanno i gruppi che non hanno ancora finito di sperimentare: un paio di inediti, remix vari (quello di Hot penny day è una specie di viaggio in continuo cambiamento nella storia della musica elettronica) e la sensazione che il bello debba ancora venire.

Dovete sapere che Stumpwork nel 2024 si è pure vinto un grammy, quello per il miglior packaging (non sapevo che esistesse): dovete sapere anche che Every day carry, l’ultima traccia di New long leg, non è la canzone che ha ispirato il racconto di Andrea, e se volete sapere chi fosse l’artista che gli ha messo questo testo in testa (oddio che brutta frase. Ma perché non la cancello allora? Risposta: perché amo aprire parentesi) dovete tornare al 1991 e guardare chi ha vinto lo stesso premio portato a casa dai Dry Cleaning nel 2024. Per chiunque non sia appassionato di cacce al tesoro invece qui sotto trovate il racconto, che nella nuova suggestione musicale su cui io e Andrea abbiamo concordato per ragioni d’indipendenza lui ha trovato una concordanza principalmente di ritmo. Ringrazio l’autore per la disponibilità e per la sua penna sempre originale e piena di personalità, vi invito quindi a entrare con noi nel locale dove una donna con dei problemi da risolvere si trova a fissare dall’altra parte del vetro una donna che sembra averne di più grossi: buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero l* artist* accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Maxwell Street, di Andrea Scagliarini

C’è una donna sul marciapiede che mi guarda attraverso il vetro della tavola calda. Seduta al mio solito posto attendo una persona che non arriva. Odore di caffè e colazioni. Non c’è nessuno in giro, qui piove sempre. Odio questa città. Verso il latte e guardo da un’altra parte. Fingo di leggere il giornale. Ci sono notizie di morti, inondazioni, guerre, terremoti, emergenze umanitarie, riscaldamento globale, violenze domestiche. Lei è sempre lì. Forse si sta solo specchiando. I suoi capelli cominciano a bagnarsi. Ora si aggiusta le calze sollevando la gonna. Mi sembra di averla già vista, mi ricorda un’alcolista che si aggira nel quartiere. Ma non è di quelle che dormono per strada, che non si lavano o ti chiedono soldi con insistenza. Vorrei domandare al proprietario se la conosce, ma è impegnato a salutare un’amica. Alta, bionda, un impermeabile bianco, sicura di sé. Ha scosso l’ombrello e ora ricambia il saluto con un bacio su entrambe le guance. Suonano le campane della cattedrale cattolica, quella immensa con le guglie tra le nuvole e il transetto trasversale. Il mio tempo è scaduto. Lui oggi non arriverà.
Ogni giorno, lo aspetto. Qui, seduta al tavolo, al nostro posto. Qualche volta arrivava in ritardo. Fingevo rabbia o stupore. Entrava, si inchinava, sorrideva, balbettava una scusa o si giustificava come un adolescente fragile in cerca di attenzioni. Si trasformava in un attore di prosa e iniziava a recitare raccontando una storia che partiva da lontano. Imitava voci sconosciute con accenti esotici. Produceva rumori con la bocca, descriveva luoghi, porti, città, villaggi con le immagini e i colori del Mediterraneo. Passavano i minuti, il suo caffè si raffreddava. Alla fine, rimaneva in silenzio e guardava nel vuoto. «No, no, scusami. Ti ho mentito. Lo sai che quello che racconto non è mai vero». Lo osservavo con astio, trattenevo il mio odio e qualche volta gli prendevo la mano. Siamo stati vicini quasi un anno, ma non poteva durare. Lo sapevamo entrambi.
Ho scoperto che lui non esisteva. Sono andata a cercarlo dove diceva di abitare. Ho parlato con i proprietari dell’immobile, interrogato uscieri e vigilanti, ma nessuno lo conosceva. Nessuno lo aveva incontrato. Diceva di essere uno scrittore turco in esilio. Forse, non era vero, forse non era turco, ma mi piaceva quel suo accento duro e misterioso. E così come mi era apparso con discrezione, un giorno qualsiasi era uscito di scena con il suo campionario di racconti inverosimili portandosi dietro i soldi che gli avevo anticipato per pubblicare il suo primo libro di racconti. Neanche un biglietto d’addio.
Ha smesso di piovere. La pioggia che ha lavato i marciapiedi ha portato via tutto. Anche l’angelo sterminatore che parlava con il proprietario della caffetteria non c’è più, è volato via. Ormai, mancano pochi minuti. Mi tiro giù la gonna senza farmi notare. È ora di uscire, di camminare lungo una strada, di prendere il mio treno e non tornare più indietro.

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