Racconto in musica 217: Vieni in una grotta (Anna Castiglia- Le chiese sono chiuse)

Arriva sempre il giorno in cui, per scelta o per necessità, ci si ritrova a rompere una tradizione, ma quel giorno non è oggi e Tremila Battute si appresta, senza un valido motivo a giustificare la scelta se non la consuetudine consumistico/religiosa, a festeggiare in Natale con un racconto ad hoc. Siccome però anche nel rispetto di tradizioni dal significato ormai sfumato come il compleanno di Gesù si può trovare qualcosa di utile, approfittiamo della ricorrenza per rispettare una promessa fatta qualche mese fa, ovvero di parlare della musica di Anna Castiglia.

Classe 1998, cresciuta in una famiglia piena d’arte (padre comico e speaker, madre attrice teatrale e sorella gemella artista circense), Castiglia l’ho scoperta da poco e non tramite la partecipazione a X Factor, evento che le ha dato sicuramente un boost di visibilità, bensì attraverso la partecipazione a un talk all’interno dell’edizione 2025 de Il tempo delle donne, dove rappresentava la nuova leva cantautorale “al femminile” insieme a Emma Nolde (di cui abbiamo parlato già due volte) e Anna Carol. Da quella chiacchierata e dai due brani suonati per l’occasione è nato l’interesse verso la sua musica, raccolta nella sua quasi totalità nel disco del 2024 Mi piace (pubblicato in collaborazione fra l’agenzia di booking OTR Live e ADA Music Live, la branca del gruppo Warner con un occhio aperto sul panorama indipendente), ma il percorso che l’ha portata a quelle dodici canzoni è lungo e pieno di spostamenti.

Catania, Torino e Milano sono le tappe attraverso cui la musica e la carriera di Castiglia si sono evolute, passando (come spiega in questa intervista) dalle cover nei locali nella città siciliana al salto definitivo nell’industria musicale, passando per la gavetta cantautorale nel capoluogo torinese, dove l’offerta di spazi per gli artisti emergenti si è coniugata allo studio: diplomatasi in canto, danza e recitazione alla Gipsy Musical Academy, dal 2020 inizia a far parlare di sé attraverso la selezione nel progetto di mentorship organizzato dal Reset Festival di Torino (fra l* artist* coinvolti c’era anche Eugenio Cesaro, frontman degli Eugenio In Via Di Gioia che qui conosciamo bene), esperienza seguita lo stesso anno dall’apertura al concerto dei Tre Allegri Ragazzi Morti allo sPAZIO 211 del capoluogo torinese. Il 2021 le dà soddisfazioni personali importanti come la vittoria del premio Nuovoimaie organizzato dal CPM di Milano, attraverso cui gira l’Italia in tour, e la selezione fra l* finalist* del Premio Lunezia a Roma, ma nello stesso anno dimostra di essere attentissima anche alla dimensione collettiva e sociale.

Canta Fino A Dieci è il collettivo transfemminista che Castiglia fonda insieme a Irene Buselli, Rossana De Pace, Valeria Rossi (in arte Cheriach Re) e Francesca Siano (in arte Francamente) con l’obiettivo di creare un ambiente di sorellanza e cooperazione e l’ambizione di ottenere l’equità di genere nel mondo della musica, un impegno che Castiglia porta avanti collaborando (insieme a realtà come Equaly) a campagne più ampie come, virando sull’attualità recentissima, My Voice, My Choice, un’iniziativa popolare che chiede al Parlamento Europeo di prevedere un meccanismo finanziario fra gli stati membri che permetta a donne e persone con utero di accedere a un aborto sicuro e libero anche se nel loro paese resta illegale. Al fianco di altre artiste come la stessa Siano, Giorgieness e Giulia Mei la cantautrice ha promosso l’iniziativa indossando magliette ai concerti e in generale mettendoci la faccia, alimentando il passaparola che ha portato in questi giorni al passaggio alla Plenaria del Parlamento Europeo a larga maggioranza: la strada è ancora lunga, ma vale la pena di festeggiare quando se ne ha la possibilità.

Fra il 2021, anno di fondazione del collettivo, e oggi Castiglia si trasferisce a Milano, dove studia canto pop/rock al Conservatorio Giuseppe Verdi, si esibisce su numerosi palchi insieme alle compagne del collettivo (Apolide Festival, Eurovision Village), come apertura a concerti di numeros* artist* (Carmen Consoli, Max Gazzè, Michele Bravi fra l* altr*) e ovviamente in solo, passa le selezioni di X Factor col brano Ghali (che, ci tiene a specificare nell’intervista linkata piùin alto, non vuole essere un attacco alla musica trap) e arriva, nel 2024, alla pubblicazione del già citato primo disco Mi piace. E vogliamo parlarne un po’, visto che i passaggi della carriera fanno brodo ma a parlare dovrebbe essere la musica? Castiglia coniuga nei dodici brani un sapore cantautorale molto nineties e l’amore per il jazz, duetta con Ghemon in Whitman e passa al dialetto catanese in U mari, esprime delicatezza in brani come Gli stessi e Sale dentro per poi affilare la lingua e lanciarla spedita verso le strofe accelerate di Ghali e Le chiese sono chiuse: si accorgono della qualità del lavoro anche al Premio Tenco, dove Castiglia vince per la migliore opera prima, e forse per festeggiare o più semplicemente perché la musica è la sua vita la cantautrice si regala in questo 2025 due feat importanti, rileggendo Le chiese sono chiuse e U mari con l’aiuto rispettivamente de I Patagarri e dei Selton.

L’abbiamo già citata più volte, ma non poteva che essere Le chiese sono chiuse la canzone a cui ispirarci per questo Natale tremilabattutoso. La quarta traccia diMi piace ci getta nuovamente in un’ambientazione pandemica, fatta di chiese chiuse “finalmente frequentate tanto quanto i ristoranti, i teatri oppure i bar”, ma quel periodo da cui saremmo dovut* uscire migliori Castiglia riesce a tratteggiarlo con ironia contagiosa. Anche il protagonista del racconto si trova, come l’autrice del brano, a intessere un rapporto diretto con Gesù, anche a scapito di un mondo esterno che nel frattempo caracolla in avanti: potete scoprire le conseguenze di questo inconsueto rapporto più in basso, subito dopo il mio augurio di buon ascolto, buona lettura e, sperando che possiate approfittare di questo periodo per ricaricare le pile e che non sia fonte di ulteriore stress, buone feste.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero l* artist* accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Vieni in una grotta

Ho riabbracciato Gesù quando hanno chiuso anche le chiese, perché ho scoperto insieme a lui i vantaggi della frugalità. Di tutte le cose che avrebbero potuto mancarmi non avrei mai pensato alla religione, ma il Natale senza messa mi è sembrato molto più triste che senza cene coi colleghi, con gli amici e la compagnia di teatro, quelle per cui dovevo risparmiare un mese prima allungando il gin tonic con l’acqua fingendo di averne preso un altro. E dire che a messa non ci vado dalla cresima.

Gesù non mi chiedeva soldi in cambio del suo amore, mentre ogni altro rapporto sembrava essersi spento con le transazioni che lo alimentavano. Senza aperitivi a cementare i rapporti i colleghi erano solo insopportabili; senza alcol, ché anche quel gin tonic eterno in fondo bastava a rendermi brillo, le chiacchiere con gli amici sembravano banali; il teatro su zoom abbiamo provato a farlo, ma senza la spinta di quei venti euro al mese per l’affitto della sala da giustificare l’impegno è venuto meno. Gesù invece era gratis e non mi annoiava parlare con lui, né lui si annoiava di ascoltarmi, a differenza del prete che mi dava la penitenza mentre ero a metà degli atti impuri da confessare.

Quando le chiese hanno riaperto, insieme agli uffici, ai bar e ai teatri, ho scoperto che la fede e la reclusione aiutavano il mio morale e la mia capacità di arrivare a fine mese. Fuori dai quaranta metri quadri in cui avevo stipato la mia vita la gente sembrava azzannarsi a vicenda, dentro invece pregavo e facevo yoga perche, così mi ha detto Gesù, certe pratiche gliele hanno rubate gli orientali ma il copyright resta suo. Non dovevo più chiedere ai miei genitori prestiti per pagare l’affitto, non dovevo più spendere soldi per l’abbonamento al mezzi pubblici e, soprattutto, non dovevo più annacquare i gin tonic che mi concedevo come premio per la ritrovata forma fisica, ché lo yoga in casa rende più di una qualsiasi attività all’aperto. Quando ce n’è stato bisogno ho lottato con le unghie e con i denti per mantenere lo smart working, perché non avevo più fiducia nel mondo e il mio mondo era la fede: in qualcosa di semplice e controllabile, intimo e confortevole, a misura d’uomo.

Mentre io non cambiavo e scoprivo che coi soldi risparmiati potevo permettermi qualche sfizio, tipo il servizio delivery della spesa, il mondo intorno non smetteva di ruotare. Con Gesù continuavo a chiacchierare di tutto, tranne di ciò che succedeva fuori dalla porta. Poi le bollette hanno cominciato ad aumentare, e ho scoperto che da qualche parte c’era una guerra che ignoravo; al rinnovo l’affitto è aumentato, e ho scoperto che la zona dove abitavo era molto più chic di cinque anni prima; il mio lavoro si è fatto più tecnologico, e ho scoperto che potevo essere rimpiazzato da una IA. Mentre vedo sgretolarsi le mie sicurezze un altro Natale si avvicina, e quando chiedo a Gesù cosa devo fare lui ripete parole che non sentivo più dall’infanzia: vieni in una grotta, al freddo e al gelo. Quanto invidio la sua capacità di adattamento.

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Racconto in musica 216: La casa la pulirà Rosa (I Camillas – La canzone del pane)

Spesso (forse non così spesso) mi chiedo se queste lunghe premesse e gli articoli introduttivi non siano controproducenti. Essendo una (aspirante) rivista letteraria dovremmo occuparci solo dei racconti, lasciare spazio solo a loro e sradicare l’approfondimento musicale? Le persone che frequentano questo luogo virtuale sono interessat* alle mie chiacchiere, passano oltre o vengono respinte da esse? Si può veicolare la musica senza parlarne per così tanto spazio (in fondo agli inizi lo facevo, poi la mania del completismo…)? Quale che sia la risposta giusta, oggi è uno di quei giorni in cui il problema si risolve da sé perché lasciamo quasi tutto in mano a Matteo Aschedamini nel tornare a parlare de I Camillas.

Matteo è entrato da poco nella famiglia di Tremila Battute, ma ha già deciso di ritornare sul luogo del delitto. Classe 2004, laureando e appassionato tanto di narrativa quanto di poesia, lo abbiamo accolto con questo suo racconto ispirato dai Vintage Violence e siamo sicuri che lo rivedremo ancora da queste parti. Per l’occasione gli abbiamo chiesto anche di occuparsi di presentare l’ahinoi ormai disciolta band (noi lo avevamo già fatto), e lui è riuscito a trasmettere la passione per la musica de I Camillas senza sbrodolare alla nostra maniera.

“C’è qualcosa nella musica de I Camillas (Zagor/Mirko Bertuccioli, Ruben/Vittorio Ondedei, Michael/Enrico Liverani, Theodore/Daniel Gasperini) che sembra aprirsi e chiudersi intorno a noi come una porta girevole. Ti avvicini e swoosh, sei chiuso dentro, e intorno tutto prende a girare, un tizio ti prende per le spalle e ti fa la linguaccia. Il loro stile, giocoso e dal doppio modulo dolce-amaro, buffo-serio, crea mondi paralleli per chi li ascolta. La musica è canzonatoria, la voce narra, gli strumenti si riscoprono materiale da disegno, matite che tracciano le forme dei micro-spazi delle loro canzoni. Ogni brano è una stanza minuscola con una finestra aperta sul giardino. Un esempio lampante di questo modo di fare musica è La macchina motivazionale. Una sola parola ricorre e ricorre: “Dai!”.

E con il solo “Dai!” dicono tutto quello che devono dire: salgono, scendono, cadono, si rialzano. Non è raro sentirli fare versi (vedi Bisonte), spernacchiare, fare smorfie, ululare. Perché I Camillas con la musica ci giocano sempre, anche — e soprattutto — quando sono seri. Il gioco è parte della loro etica e della loro grammatica. Dal 2004, quando Zagor e Ruben hanno fondato il gruppo a Pesaro, I Camillas sono passati per Colorado e Italia’s Got Talent, hanno scritto libri e, soprattutto, hanno prodotto rituali poetici solo lontanamente etichettabili come concerti. Purtroppo, nel 2020 il gruppo ha perso la voce di Zagor, venuto a mancare durante la crisi del Covid-19. Ma non rattristiamoci troppo: come dicono I Camillas: Sanguinare non è una cosa proibita (Sbranato).

Un gruppo sciolto non è un gruppo finito, è un gruppo in uno stato fisico diverso. Il loro album di maggior successo, Le politiche del prato, evoca un ambiente quasi fiabesco, con uno stile che sembra sbucare da un’Alice nel Paese delle Meraviglie indie e sghemba. C’è quel senso di erba altissima, di oggetti parlanti, di lucciole intelligenti. È un mondo prativo, come se nei fili d’erba nascessero antenne. Questo racconto cerca di simulare La canzone del pane, e aprire sulla pagina anche solo un piccolo scorcio, per dare un’occhiata alla vita del prato, in mezzo all’erba alta.”

Da quel piccolo scorcio che Matteo apre si vede molta vita, perché il racconto che ha tratto dal testo evocativo ma stringato de La canzone del pane allarga molto l’obiettivo, tanto da lasciare incuriositi riguardo alle dinamiche del piccolo paesino in cui all’improvviso, una mattina, succede il finimondo. A voi il piacere di scoprire l’elemento scatenante del pandemonio, a me quello di augurarvi buon ascolto e buona lettura.

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La casa la pulirà Rosa, di Matteo Aschedamini


Tre ore sul tetto volarono via insieme alle reggicalze che erano finite su di un tiglio e pendevano bianche ed inequivocabili.

Il Commissario L’Innamorata considerò tre volte l’ipotesi del suicidio. La prima come tesi, la seconda come antitesi, la terza come sintesi.

Marinello lo chiamò da sotto. “Commissario! È ancora là sopra?”

L’Innamorata rabbrividì. Dove si trovava?

Scese al piano di sotto. Marinello chiuse la porta della casa e chiese: “Signor Commissario, manderemo qualcuno a fare le pulizie non appena avrà confermato che non si sono portati via altro.”

“Altro! E che cazzo si dovevano portare via di altro?”

Marinello strinse come un asparago le braccia lungo i fianchi, e chiese ancora a bassissima voce, quasi impercettibilmente: “Le pulizie della casa?”

“La casa non la pulisce nessuno. La pulirà Rosa. Punto.”

“Ma…”

Il Commissario, boccheggiando, scese per strada. Tutto il paese si era attorcigliato come un pezzo di intestino intorno al cortile. I villani spiavano senza senso del pudore verso l’interno della casa. Le donne bisbigliavano in cerchio, facendosi con le mani portatrici di una verità e poi di un’altra ancora.

Il Commissario prese la parola. “Ora, chi ha rapito mia moglie”, disse tremando, “io per adesso non lo posso sapere…ma giuro su Dio, Dio che mi è testimone, che costui…”

Marinello, intuendo che il suo superiore stava per minacciare i civili, si scaraventò davanti alla platea e concluse: “…Ha le ore contate!”

L’Innamorata fece per riconquistare la parola, quando davanti ai suoi occhi vide un secondo presagio di morte: Camillo, il pazzo del paese, che camminava lungo la via con al guinzaglio una volpe.

“Camillo!”, berciò il Commissario, “Camillo lei deve lasciare andare quella povera bestia!”

Camillo non intendeva, e continuava a passeggiare, sorridendo.

“Camillo, non è autorizzato a portare in paese un animale selvatico! Mi ha capito?”

Camillo ancora non capiva; fermatosi per schivare una cacca depositata sul selciato, si chinò e diede una carezza alla volpe.

L’Innamorata divenne rosso. Gocce scendevano dalla sua fronte disegnando lunghe linee verticali. Marinello, per innocenza, non si avvide di ritirare al Commissario l’arma da fuoco. La folla reagì solo alla canna, nera e dura, che scivolava davanti ai loro occhi. Indietreggiarono tutti di un metro.

Dopo un gran botto, la volpe cominciò a guaire. Camillo afferrò l’animale e si mise a correre. Un altro colpo echeggiò nel vuoto. Il Commissario volò al suolo insieme a Marinello. La folla li assorbì.

Nessuno si curò di vedere come stava Camillo, tanto che quello era già sparito. Quando arrivò alla sua tana, lasciò libera la volpe. A passi ingarbugliati raggiunse il gabbione ed estrasse dal giubbotto un sacchetto di carta con un filone di pane bianco.

“Rosa?”, disse sollevando il tendone, “hai fame?”

Rosa non rispondeva.

“Starai certamente meglio, per adesso pensa a mangiare qualcosa. Ti ho portato del pane…”

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Favolisti spaventosi psichedelici: Fairyland codex dei Tropical Fuck Storm

Come finisce su Tremila Battute la musica di cui parliamo? Ci sono molti modi, come diceva una canzone degli Afterhours di parecchi anni fa, e il più comune passa per qualche promoter che mi invia in digitale le nuove uscite della settimana: fuori da lì, però, è anarchia pura. Solo quest’anno ho ascoltato doom messicano perché ho visto il nome della band su una maglietta a un festival, punk coreano mentre mi informavo sui locali di musica live di Seoul e synthwave tedesca perché la band era stata nominata nel commento alla recensione di un film action, e non sempre sono incontri fortunati. Quando poi arrivano le classifiche di fine anno, apriti cielo: le mie carenze d’attenzione mi fanno perdere un sacco di cose, così con gli ultimi giorni dell’anno partono recuperoni clamorosi, ovviamente (che per me significa nella maniera meno ovvia possibile) basati sul caso o sull’infatuazione momentanea, che nella stragrande maggioranza significa “il nome mi affascina”. È la stessa tattica con cui spesso faccio gli acquisti non ponderati al Fantacalcio, che so non essere la miglior formula del mondo ma oh, spesso il Fantacalcio lo vinco quindi per me funziona, e proprio per dimostrare che funziona oggi qui si parla dei Tropical Fuck Storm e del loro Fairyland codex (Fire Records), cominciato ad ascoltare perché… dai, come si fa a non dare una chance a un gruppo che si chiama TROPICAL FUCK STORM?

I TFS (acronimo comodo che utilizzano pure loro sulla pagina Bandcamp, quindi mi sento legittimato ad utilizzarlo) sono una band australiana di quattro elementi formata da Gareth Liddiard (chitarra e voce), Fiona Kitschin (basso e voce), Erica Dunn (chitarra, tastiere, synth e voce) e Lauren Hammel (batterie e programmazione), e fanno le cose matte. Ognun* di loro ha dei progetti musicali precedenti ai TFS e io mi immagino che la band sia nata dopo una sbronza collettiva in cui si è deciso di unirsi nel sacro nome delle cose matte, non per forza quelle più matte che vi possano venire in mente ma abbastanza matte da far drizzare le antenne a uno come me (anche se non penso di essere stato citato nella conversazione durante la sbronza collettiva). Per capire un po’ di che parliamo con questo loro quarto disco immaginate di shackerare un po’ di psichedelia sixties assortita, proprio quella dei figli dei fiori, suoni grossi abbastanza da ribaltarvi quando vogliono, una punta di Mars Volta e aggiungiamoci pure del blues, per poi condire il tutto con la voce di Liddiard che spesso sbraita come fosse un predicatore ubriaco e quelle di Kitschin e Dunn che passano dal melodioso all’isterico a seconda del brano. Pront* a buttare giù il beverone?

Io mi sono innamorato già alla prima canzone (avete mai ragionato su come sono cambiate le disposizioni dei brani nei dischi? Quando si vendevano e per ascoltarli te li dovevi prima comprare raramente la prima traccia diventava uno dei miei brani preferiti, adesso che ti devono tirare dentro subito mi capita spesso il contrario), perché Irukandji syndrome ha tutto: un giro di basso trascinante, un’atmosfera minacciosa senza essere apertamente cupa, chitarre che ululano quando devono, un assolo matto come e peggio di quelli spesso inopportuni di Omar Rodriguez Lopez (ma qui più che mai opportuno) e la voce di Liddiard che in una litania serrata mostra uno scenario degno di Escher, sui cui troneggia la medusa del titolo in versione sibilla gigante che ci lascia col messaggio “things won’t end so well for you”. C’è del lisergico in una partenza del genere, ma le dosi i TFS le gestiscono con parsimonia, permettendosi di andare all’eccesso solo con Dunning Kruger’s loser cruiser, dove davvero si salta su una versione sbilenca dello Yellow Submarine e ci si lascia trasportare a ritmo di marcetta fra liriche isteriche e suoni usciti da certe cose degli Animal Collective o dalla Dismaland di Banksy, dove il disagio che provi è mitigato dalla meraviglia.

E poi? Dopo una partenza al fulmicotone, bissata dal ritmo ossessivo intervallato da sfoghi chitarristici di Goon show, i TFS fanno la cosa meno ovvia: rallentano, quasi si fermano, poi accelerano, sterzano, rendono la scaletta dei brani una continua sorpresa e non sempre la sorpresa è piacevole (l’algida melodiosità di Stepping on a rake mi ha convinto solo a tratti, e fra quei tratti il momento sul finale in cui le distorsioni prendono il sopravvento), ma è già una sorpresa che ci sia tutta questa varietà. Prendi la title track, otto minuti di bucolica psichedelia sixties montati su un testo che comincia salmodiando la frase “Village in hell is waiting for you” e prosegue fra improvvise svisate allucinatorie; prendi Bloodsport, un incastro di strumenti che sembra orchestrato dai Butthole Surfers ma poi ti accorgi che è molto più organizzato di quanto sembra, che gli basta essere sé stessa dall’inizio alla fine senza bisogno di altri effetti speciali per catturarti e cavolo, ma quanto trascinano la voce di Dunn e il basso di Kitschin?; prendi Joe Meek will inherit the Earth, che butta nel calderone una versione TFS del trip-hop mischiandolo ai Doors mentre le tre voci, alternandosi, dipingono il solito quadro fosco e allucinato. Parliamone, davvero: è un disco che ha pure la copertina più azzeccata possibile per ciò che contiene, come si fa non volergli bene?

Non ricordo dove fosse Fairytale codex nella classifica di fine anno che ho letto, né quale magazine estero l’avesse stilata, né il novero completo dei dischi che ho ascoltato in questo 2025, ma prima ancora di arrivare alla pinkfloydiana (con extra furia compresa nel pacchetto) e conclusiva Moscovium avevo già deciso che per quanto mi riguarda quello dei Tropical Fuck Storm è uno dei dischi dell’anno. Se leggendo queste righe avete condiviso parte dell’entusiasmo il link al loro profilo Bandcamp lo trovate qui sopra, io intanto mi studio la loro discografia perché non è detto che quest* matt* australian* non ritornino presto da queste parti.

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Racconto in musica 215: Dammi un cuore (Campos – Dammi un cuore)

Ognun* di noi vive in una bolla, e se si vuole filosoficamente ridurre ai minimi termini la vita di una persona potremmo dire che questa è contraddistinta dalla costante lotta fra il tentativo di rompere questa bolla, aprendoci all’inaspettato, e di rimanerci aggrappat* con le unghie e con i denti, nutrendoci di consuetudine e nostalgia. Non voglio fare un’analisi sociologica (anche perché non ne ho i mezzi, per quello vi rimando alla newsletter Capibara di Gabriele Palumbo), ma attraverso questa banalizzazione possiamo interpretare anche le linee musicali su cui viaggia Tremila Battute, che si alimenta di artist* che ho scoperto anni fa, di nuovi ascolti basati sul grufolare in giro per il web alla ricerca di cose che allarghino e mettano alla prova la mia zona di comfort (tipo il noise pazzo alla giapponese) e, ovviamente, dei suggerimenti musicali di chi collabora a questo blog coi propri racconti. Questo equilibrio oggi pende verso l’interno, rimestando nella bolla, perché siamo addirittura alla parte due di un discorso già iniziato parlando qualche anno fa di Tommaso Tanzini e che riprende oggi disquisendo dei Campos, resident band alla cui musica si è ispirata Luana Ansaldi per il suo racconto.

Partiamo da Luana, trentaseienne sarda a cui al momento la disoccupazione, per fortuna o purtroppo, lascia il tempo di coltivare quella che assieme a lettura e disegno è la grande passione di una vita: la scrittura. La coltiva principalmente attraverso la pubblicazione di storie che spaziano fra la fan fiction e il fantasy sulla piattaforma Wattpad (la trovate con il profilo Antares1989), e a Tremila Battute ci è arrivata, riprendendo il tema della bolla, grazie alla curiosità di scoprire sempre nuov* artist* e, nel caso specifico, nuova musica. Sogna di diventare una scrittrice professionista e ci tiene ad augurare a chi come lei ha questo sogno nel cassetto di poterlo realizzare, e chi siamo noi per non unirci all’augurio?

Parte di questa storia, come detto, l’ho già raccontata, ma un recap è d’obbligo. Tutto inizia nel 2011 a Pisa, con l’incontro musicale fra Simone Bettin (voce e chitarra) e Davide Barbafiera (elettronica e percussioni), la cui idea di progetto basata sulla commistione di suoni sintetici e acustici resiste al corso degli anni e al trasferimento di Bettin a Berlino tramite lo sviluppo di alcune tracce a distanza. Qualcosa cambia nel 2014, e quel qualcosa è l’ingresso della bassista australiana Dhari Vij nella formazione, un innesto che dà ulteriore linfa vitale alla band e li porta alle prime esibizioni dal vivo nei club della capitale tedesca. È in questo momento che il gruppo sceglie definitivamente Campos come nome ufficiale rispetto alla prima scelta, Viva, che diventa comunque il titolo del primo disco: registrato nel corso del 2015 e masterizzato dal dj e producer tedesco Jan Driver, Viva esce nel 2017 per l’etichetta di Barbafiera Aloch Dischi. Io mi accorgo di loro allo storico (per me, sempre questione di bolle) festival A night like this proprio nel luglio di quell’anno, stregato dalla delicatezza e dall’energia delle loro canzoni, caratterizzate da ritmiche convulse che evocano i panorami dell’America del sud, mi compro il disco (che nella cover omaggia le divise del portiere messicano Jorge Campos, le cui gesta hanno ispirato il nome del gruppo) e mentre io me lo passo in heavy rotation nelle orecchie loro non rimangono per niente fermi.

Il tour di Viva porta un cambio di formazione, con l’avvicinamento al basso fra Vij e Tanzini (già fondatore dei Criminal Jokers con Bettin e autore di due album solisti prodotti da Barbafiera), un cambio di etichetta con l’ingresso nel roster della Woodworm e pure un cambio di idioma, dall’inglese all’italiano. Il 2018 non li vede subito attivi dal punto di vista discografico, bensì da quello cinematografico: Barbafiera prende parte nel ruolo di co-protagonista al film Il ragazzo più felice del mondo di Gipi, e l’intera band viene coinvolta tramite un piccolo ruolo e la presenza della loro Freezing come tema principale della pellicola. Neanche il tempo di godersi il tappeto rosso della Mostra del cinema di Venezia però che è già tempo di tornare ad imbracciare gli strumenti, perché il 9 novembre dello stesso anno esce Umani, vento e piante, un disco che forse per effetto del titolo trovo più bucolico, vicino al folk contaminato dei C+C= Maxigross, ma che non perde la sua forte connotazione ritmica, soprattutto in brani come Take me home e Madre moderna.

Nel 2019 i Campos partecipano al bando di Per chi crea, programma promosso dal Ministero dei Beni Culturali e gestito da SIAE che destina il 10% dei compensi per “copia privata” a supporto della creatività e della promozione culturale dei giovani under 35 residenti in Italia, risultando fra i meritevoli di un contributo per la registrazione del nuovo disco, Latlong, che esce sempre per Woodworm a fine 2020. L’equilibrio fra suoni elettronici e acustici resta pressoché invariato, così come il gusto folk che a volte produce brani più morbidi e minimali, che siano incentrati sul binomio chitarra-voce come Blu o su un efficace incastro fra chitarra, basso e lievi percussioni di Mano: da applausi il finale, che prima ammalia con le allegre note di Paradiso, poi piazza una ghost track dance-punk che sfoga in un paio di minuti scarsi tutta la voglia di pogare che non sapevamo avessero. L’anno dopo Barbafiera cura la direzione artistica dell’album La vita nuova, omaggio all’opera di Dante Alighieri prodotto da Woodworm in collaborazione con La Scuola Normale Superiore di Pisa in occasione del settecentenario della morte del poeta, e i Campos sono ovviamente della partita con la canzone A ciascun’alma presa e gentil core, poi nel 2022 il videoclip di Figlio del fiume, diretto da Erika Errante, viene candidato ai Videoclip Italia Awards: sono gli ultimi movimenti della carriera del trio, e se sui loro social tutto tace ci piace pensare che sia perché li snobbano a fronte di serate passate in sala prove, intenti a comporre le canzoni che comporranno il loro quarto disco.

Dammi un cuore è la decima e penultima traccia di Latlong, un brano con una sghemba componente ritmica rotolante che nei ritornelli, complice la componente elettronica, si apre in un’atmosfera ariosa e avvolgente. Luana, stimolata a trarre un racconto dalla canzone (possiamo considerarlo il primo racconto di Tremila Battute scritto su commissione?), è riuscita a coniugare benissimo il testo in una storia di integrazione dai riflessi fantasy: potete leggerlo subito dopo la canzone che lo ha ispirato, buon ascolto e buona lettura.

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Dammi un cuore, di Luana Ansaldi


Kael non ricordava la prima volta in cui aveva respirato.
Gli avevano sempre detto che il suo petto si muoveva “quasi” come quello di un umano, ma non abbastanza. Troppo lento, troppo silenzioso, come se l’aria non sapesse decidere se entrare o uscire, se tenerlo in vita o lasciarlo svanire.

Camminava scalzo tra gli alberi. Aria su aria, pietra su pietra.
I piedi gli bruciavano per il freddo, ma a lui piaceva. Era una sensazione chiara, concreta e reale.

«Dammi un cuore» mormorò alla foresta, come se essa potesse ascoltarlo. «Uno vero.»

Aveva provato a immaginare come fosse sentire le emozioni degli umani: il petto che si stringe, il calore che si arrampica sulla pelle, la rabbia che vibra.

Per lui quelle sensazioni erano soltanto ombre. Il mondo lo sfiorava, ma non lo attraversava davvero.

«Voglio la noia che non ho provato.»
Lo ripeteva spesso, da solo, ridendo piano.

Gli altri desideravano avventure, lui desiderava la normalità. Un pomeriggio senza paura, una conversazione senza segreti, un nome che non dovesse spiegare.

«Voglio le colpe che non ho scontato.»
Gli avevano insegnato che la sua sola esistenza era un errore, nato da due mondi che si odiavano. Ma dov’era la sua colpa, se ne portava il marchio addosso senza averlo scelto?

«Voglio il dolore che mi è mancato.»
Non quello fisico, quello lo sentiva fin troppo bene. Voleva il dolore umano, quello che cambia una persona, che la rende vera.
Il dolore che dà un senso.

«Voglio la vita che non ho vissuto.»
Quella frase gli tornava in mente ogni volta che vedeva gli altri ragazzi ridere nelle piazze delle città umane, o i giovani mostri che si allenavano sotto la luna.
Quella era vita, lui invece era… un intervallo.

Spostò le dita sulla pelle del braccio, seguendo le vene sottili, troppo chiare per essere umane, troppo fragili per essere mostruose.
«Per tornare a respirare» disse piano come un voto, «non credere di potermi migliorare.»


Kael camminò a lungo, fino al limitare della foresta. Oltre gli alberi vide per la prima volta la luce del fuoco del summit in lontananza.
Umani e mostri riuniti nello stesso luogo. Qualcosa di impossibile. Qualcosa che bruciava come un segno nel cielo: forse lì dentro c’era qualcuno che sapeva cosa significasse essere divisi in due.

I suoi piedi si mossero da soli, non poteva più tornare indietro. Forse qualcuno dentro quel luogo avrebbe potuto dargli ciò che cercava da una vita: un cuore che battesse per davvero.

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Racconto in musica 214: Indietro (Kaada – How to construct a time machine)

Nelle ultime settimane mi è capitato di andare spesso al cinema, complice un’infornata di film interessanti che non ho recuperato nemmeno interamente causa distribuzione ballerina (mi manca perlomeno Together apparso solo in qualche multisala in periferia, per non parlare del Kinghiano The long walk misteriosamente mai uscito nella data prevista nonostante l’internet giuri tuttora di sì). Fra questi ero particolarmente curioso di vedere The smashing machine, il tentativo di Dwaine “The Rock” Johnson di diventare un attore vero che non fa solo fumettoni dalle trame tutte simili, innanzitutto perché dietro all’operazione c’era uno dei fratelli Safdie (Benny), autori di quella bomba di Diamanti grezzi che, se non vi fosse capitato di vederlo, fiondatevi subito a recuperarlo. La faccio breve: The smashing machine non è male, The Rock merita il plauso per la sua prova attoriale, ma al film in generale manca qualcosa nel coinvolgere lo spettatore nelle vicende di Mark Kerr, il lottatore di MMA sulla cui vita è basata la pellicola. Ben più soddisfazione ho ricevuto da The ugly stepsister, rivisitazione della favola di Cenerentola ad opera della regista norvegese Emilie Blichfeldt, in cui suggestioni body horror (non aspettatevi però il The substance sbandierato in promozione) si mischiano a riflessioni sul ruolo della donna non banali, il tutto condotto con tono irriverente e un gran senso del ritmo.

Ma perché inizio questo articolo parlando di cinema? Perché i fratelli Safdie storicamente si sono avvalsi nelle loro (ancora poche) opere delle musiche di Oneohtrix Point Never, sperimentatore elettronico molto interessante che però in The smashing machine era assente (sarà con l’altro fratello Safdie, Josh, nell’imminente Marty supreme), mentre quel tocco allo stesso tempo molto presente ma funzionale al racconto, nonostante l’elettronica mal si dovrebbe sposare con un’ambientazione ottocentesca, l’ho trovato in The ugly stepsister a opera di Kaada, il protagonista della settimana qui sulle schermate di Tremila Battute.

Ma da dove spunta e cosa fa John Erik Kaada? Classe 1975, il giovane John Erik si forma al piano, impara a suonare il suo primo synth a dieci anni e prima dei venti fa già parte di una band acid-avant garde jazz, i Cloroform, che ammetto essere l’unica parte della sua carriera che non ho recuperato nelle ultime due settimane. Con i Cloroform (composti da lui al pianoforte, Øyvind Storesund al basso e Børge Fjordheim alla batteria) pubblica tre album fra il 1998 e il 2000, e per mantenere la scansione di un disco all’anno nel 2001 esce una versione remixata dell’ultimo album, Do the crawl, ad opera dello stesso Kaada: Scrawl, pubblicato come (quasi) tutti gli album della band dalla Kaada Records, è uno dei due dischi con cui inizia la carriera solista del poliedrico e stakanovista compositore, che nello stesso anno pubblica anche Thank for giving me your valuable time inizialmente sotto EMI. Facciamo un minimo di recap perché già qua si rischia di fare casino: Kaada ha venticinque anni, una band jazz, ha pubblicato un disco di remix, il suo primo album solista mischia elettronica e sample di musica anni 50/60 e  ha pure iniziato a lavorare come compositore di colonne sonore. Voi cosa facevate a venticinque anni?

Nel secondo quarto di secolo della sua vita Kaada non si ferma e anzi allarga, rilancia, tanto che per ripercorrere ciò che ha fatto ci vorrebbe lo stesso tempo. Kaada al jazz e alla musica elettronica aggiunge la musica classica, mischia tutto e sforna altri sette dischi, spaziando dall’intimistico al magniloquente senza perdere un gusto pop che riemerge soprattutto in And if in a thousand years, ultima prova discografica uscita nel 2023 per l’etichetta Mirakel; coi Cloroform prosegue a spron battuto fino al 2007, poi forse capisce anche lui che non può fare tutto (o fa molto altro sotto traccia) e la band si prende una pausa fino al 2016, anno dal quale riprende la produzione con i dischi Grrr (Kaada Records) e Overtredelse (2021, Mirakel); nei primi anni duemila attira l’attenzione di un altro sperimentatore matto che risponde al nome di Mike Patton, che oltre a ripubblicare sotto la sua Ipecac il primo disco solista di Kaada e altri suoi album successivi ci collabora due volte, facendo uscire a nome di entrambi Romances (2004) e Bacteria cult (2016), in cui l’atmosfera onirica creata dagli strumenti (spesso autocostruiti, giusto per aggiungere complessità al tutto) dell’uno si sposa con le sperimentazioni vocali dell’altro; e poi le colonne sonore, che spaziano fra i generi (non vi viene la curiosità di vedere la serie norvegese ZonbieLars, incentrata su un undicenne mezzo zombie? A me sì) e arrivano fino a quel The ugly stepsister da cui siamo partiti, in cui Kaada sfodera un inaspettato amore per i synth anni 80 e li rende l’accompagnamento musicale perfetto di una vicenda che si svolge uno o due secoli prima che siano inventati. Lo so, vi abbiamo dato dato un botto di informazioni in pochissimo spazio e probabilmente vi abbiamo stordito: per capire meglio non vi resta che ascoltare, andando sul suo profilo Bandcamp, dove troverete una parte di tutto ciò che ha realizzato negli anni.

How to construct a time machine è la quarta traccia di And if in a thousand years, un brano delicato che con una grana più lo-fi avrebbe potuto benissimo passare per una delle bucoliche sperimentazioni retrofuturiste dei Boards of Canada. Il racconto che troverete sotto non nasce ispirato dalla canzone, ma l’ho scritto ben prima di conoscere la musica di Kaada: mi è sembrato però che l’atmosfera del brano si adattasse perfettamente a una storia in cui l’invenzione della macchina del tempo viene trattata con sufficienza, per cui non mi resta che lasciarvi valutare se questo matrimonio s’aveva da fare o meno augurandovi, as usual, buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero l* artist* accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Indietro


Abbiamo inventato la macchina del tempo. Si può solo andare nel passato di cinque secondi, ma è comunque un risultato. Non è da tutti invertire le regole dello spazio e del tempo.

È grandioso, ho esclamato quando abbiamo verificato l’esperimento.

Meglio che un palo nel culo, ha commentato il mio collega. Difetta di entusiasmo, forse crede debba reagire così un vero scienziato.

Nemmeno la responsabile all’ufficio brevetti è rimasta impressionata. Ha consultato le carte, cincischiato con lo smartphone mentre spiegavo l’allaccio del sistema tramite un dispositivo non più grande di un orologio da polso.

Sì, ha detto, ma sono solo cinque secondi. Che cosa cambi in cinque secondi?

Le piccole cose, ho risposto. Una parola sgarbata, la frenata un attimo in ritardo, tutti quegli atti che quando ci pensi dici “vorrei non averlo fatto”.

Sì, ha detto, ma restano cinque secondi. Io quando rispondo male ci metto delle ore ad ammettere che avevo torto, e anche così faccio fatica a dirlo.

Ha ragione, ha detto il mio collega, che difetta anche di empatia nei miei confronti.

Io comunque lo brevetto, ho risposto. Poi mi sono pentito del mio tono piccato, ma ormai erano passati diversi minuti e stavo guidando verso casa.

È un disastro. Chiedi i fondi di qui, di là, tante strette di mano ma pochi soldi. Siamo riusciti a produrre qualche esemplare per il lancio, ma per la pubblicità necessaria ci siamo già indebitati.

Qui finiamo in galera, ha detto il mio collega, che almeno non mi ha lasciato solo sulla barca che affonda.

I commenti sono sempre gli stessi: troppi soldi per comprarlo, troppo breve lo spazio di tempo. Nel brainstorming per il lancio qualcuno ha proposto di utilizzarlo per tornare indietro subito dopo l’orgasmo, riprovandolo all’infinito.

Ha per caso un’opzione loop?, ha chiesto.

No, ho risposto, e poi temo che creerebbe dipendenza.

Manca un mese all’uscita. Nessuno crede che la gente lo utilizzerà, ma io sogno un mondo in cui le persone imparino dai propri errori, che siano in grado di reagire prontamente a un gesto di nervosismo. La mia è un’utopia di gentilezza, hanno detto al brainstorming, e la gentilezza non vende.

Possiamo sempre venderci il brevetto, ha detto il mio collega. Accanto a lui c’è uno dei nostri principali investitori, lo sguardo tagliente da squalo. Mi chiedo cosa potrebbe fare con la nostra tecnologia avendo più tempo per la ricerca, più fondi da investire. Più tempo verso cui ritornare.

Forse andare a fondo non sarà il più grosso dei nostri problemi.

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Alla ricerca di un’identità: Figli dei film di Gionata

Qualche anno fa ho avuto la fortuna di incrociare la strada dei Violacida, una piccola band di Lucca di cui seguii la carriera per un breve periodo. Il loro primo disco, Storie mancate (2013), mi sedimentò nelle orecchie piano piano fino a meritarsi il primo posto nella classifica di fine anno (una cosa divertente che non faccio più, a parte quando me lo chiede Alessandro Busi), e l’anno successivo, complice un passaggio a Milano per il MiAmi quando ancora aveva un costo accettabile, riuscii a organizzargli una data in quel di Vigevano. Passò un po’ di tempo, arrivò il 2016 e con lui La migliore età, nuovo disco della band che vedeva un cambio nella formazione iniziale e che mi piacque un poco meno, il che non mi impedì di riuscire a organizzargli un altro concerto, stavolta a Novara. Ho il vago ricordo di aver saputo che i Violacida si sarebbero sciolti proprio quella sera, ma la mia memoria è una merda e potrei essermi sognato tutto (potrei confondermi coi meritevoli Dondolaluva, che mi annunciarono la dipartita della band quando li intervistai mentre giravo l’Italia in bicicletta): quel che è certo è che questo scioglimento avvenne, ed essendomi affezionato a quel loro sound tanto semplice quanto coinvolgente che mischiava pop, suggestioni sixties e indie rock mi misi a seguire da lontano le avventure sonore dei membri della band che continuarono a fare musica. Antonio Ciulla ad esempio, autore di tre album di cui uno, Album dei ricordi, creato durante la pandemia con i contributi audio di svariat* amic*; e poi Gionata Rossi, che dei Violacida era la new entry, il cui terzo disco Figli dei film esce in questo finale del 2025.

I dischi precedenti di Gionata li ho ascoltati, ma ammetto di averlo fatto abbastanza superficialmente: c’era un certo gusto per il lo-fi che avrebbe potuto farmeli apprezzare di più, ma ciò che mi arrivava alle orecchie come primo segnale era il sound retro-indie di cui ho imparato perlomeno a diffidare dopo che con quella formula Tommaso Paradiso ci ha fatto i big money. Quegli elementi sopravvivono nelle dieci canzoni di Figli dei film, ma ho trovato nel suo nuovo album una profondità maggiore, una gamma di suoni più ampia che potrei associare a una maturità artistica, un’identità definitiva raggiunta, se non fosse che A) quando mai l* artist* smettono di maturare? B) gli ascolti poco approfonditi di cui sopra mi impediscono di fare discorsi da saccente di stocazzo C) i testi mettono spesso al centro proprio la difficile ricerca di un’identità.

Non ci sono grandi rivelazioni nei testi del disco, ma sentimenti condivisibili da una buona fetta di trentenni come il buon Gionata e probabilmente anche da chi ha qualche anno in meno o in più: la mancanza di prospettive, la difficoltà nel capire i propri sentimenti, la nostalgia di un’età in cui ci sentivamo più liber* (senza magari nemmeno esserlo stat* davvero) e di un futuro che non si è mai concretizzato. Potremmo scomodare Mark Fisher ascoltando il testo de Il futuro è un ricordo lontano, ma non ci sono analisi sociologiche in queste canzoni bensì un punto di vista sempre personale e viscerale, addirittura banale in certi momenti (non avere soldi per la moda ma averli per sbronzarsi da Mc Donald’s, non certo il posto più economico dove bere una birra, ha senso solo per esigenze di rima) ma comunque capace di colpire nel segno. Voler “tornare a qualche anno fa/ quando c’era più tempo per perdere tempo” è un’esemplificazione perfetta della sindrome da Peter Pan, ma nella stessa Lavorare stanca Gionata capisce che la colpa più grande è pensare solo a sé stessi: su questo crinale fra la necessità di diventare davvero adulti e quella di non perdere per strada ciò che si era si gioca molto del disco, con l’autore che al bivio per capire cosa fare nella vita è diviso fra il volere tutto e il non volere niente (Ossessione) e quasi spera in una dissociazione che, permettendogli di guardarsi da fuori, gli dia modo di capire in che direzione andare (Lascia che sia). C’è spazio anche per l’amore, gioioso e vitale in Groviglio e ormai al termine in Burnout, ma i legami sono flebili e pure nella felicità si specifica che “non ci diremo mai ti amo” (e forse proprio quella viene intesa come una ricetta per la felicità): in fondo come si fa a legarsi veramente a qualcuno se si fa ancora fatica a conoscere sé stessi?

Se nei testi è la mancanza di una direzione a imperare, sul fronte musicale Gionata trova invece una linea coesa pur non sacrificando la varietà. Che a tirare le fila siano una linea di piano (Lavorare stanca), magari coadiuvata efficacemente dalla batteria (Lascia che sia, Buena sorte), oppure la chitarra tutta tonalità alte di Burnout (con un ritornello che si apre in maniera melodiosamente magnifica) poco importa, perché l’effetto finale è sempre piacevole, cantautorato indie che non inventa niente di nuovo (Lascia che sia nasce dall’idea di “italianizzare” Let it be dei Beatles, ma nel suo andamento da marcetta io ci vedo più gli Oasis di The importance of Being Idle) ma ha una sua personalità e riconoscibilità. Piazzare due lenti chitarra voce (Canzone di pioggia, l’elemento più lo-fi del gruppo, e Ossessione) prima della chiusura con la title track fa finire il disco in tono un po’ minore, pur non riuscendo a sminuire il lavoro compiuto tramite un’abbuffata di arrangiamenti semplici ma efficaci, in cui le linee di basso spiccano pur nella loro funzionalità e quando emergono gli archi (Buena sorte e la già stracitata Ossessione) lo fanno in maniera naturale.

Ciò che mi aveva colpito a suo tempo dei Violacida era la capacità di essere originali facendo cose semplici, una formula molto più complicata da trovare di quello che sembri: con Figli dei film Gionata riprende quel discorso interrotto, facendolo alla sua maniera e dimostrando che attraverso la musica si può trovare un’identità anche quando si ignora di averla.

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Racconto in musica 213: La Pimpa è di Bergamo (Vintage Violence – Metereopatia)

C’è un luogo dove non esistono regole, ma solo eccezioni, però sta nella canzone di un artista che difficilmente vedremo mai da queste parti (e penso che a entrambi stia bene così): qui le regole invece ci sono, ma l’inchiostro di quelle non scritte è sempre più simpatico e fra queste c’era la regola “niente doppioni”. Paganini non ripete, si dice, ma qua nessuno si chiama così e alla fine ci siamo ripetuti più volte, iniziando da Edda per poi farci prendere la mano e riproporvi più canzoni di Daniela Pes e di Emma Nolde: quando Matteo Aschedamini ci ha proposto un racconto ispirato a una canzone dei Vintage Violence potevamo quindi dirgli di no? No (nel senso che gli abbiamo risposto sì), ed eccoci qui oggi a riparlare della band che arriva da quel ramo del lago di Lecco.

Ma prima presentiamo Matteo, conosciuto alla presentazione di un libro in quel di Milano e salito velocemente e con entusiasmo sul carrozzone della musica bella che fa la fame. Nato a Crema nel 2004, legge tutta la letteratura che riesce a far entrare fisicamente ed economicamente in casa e crede nel matrimonio tra prosa e poesia. Cerca di imparare il russo sia per ottenere la laurea che per poter leggere in lingua le poesie di Robert Roždestvenskij, e fin qui lo sforzo non lo ha soverchiato. La sua canzone preferita è The adults are talking dei The Strokes ma il suo cuore e il suo Spotify battono in particolare il ritmo delle canzoni di Johnny Cash. Nella vita, oltre alla laurea, ha l’obiettivo di scrivere libri pazzi tenendo fede alla parola di Gianni Rodari brillantemente esposta in La grammatica della fantasia, e noi da insider sappiamo di almeno un paio di suoi progetti che sembrano molto succulenti: tenetelo d’occhio, e in attesa d’altro leggetevi questo suo racconto su Topsy Kretts.

Che dire invece dei Vintage Violence (Nico Caldirola alla voce, Rocco Arienti alla chitarra, Roberto Galli al basso e Beniamino Cefalù alla batteria) che non abbiamo già detto qui qualche anno fa? Molto in realtà, perché sono passati quasi cinque anni dal racconto natalizio che ci ispirò la loro Natale lavavetri e al conto di tre album (Psicodramma, autoprodotto nel 2004, Piccoli intrattenimenti musicali, uscito nel 2011 per Popolar, e Senza paura delle rovine, con il quale nel 2014 iniziano il percorso che ancora li lega a Maninalto!) e un Ep (Cinema, 2007 per Goodfellas) si sono aggiunti Mono (2021, e non ci eravamo fatti sfuggire l’occasione di parlarne) e Violenza primordiale (2022), best of democratico in cui le canzoni sono state scelte direttamente da noi fan. Quel “noi” sta ovviamente a indicare che se cercate obiettività da parte nostra sui Vintage Violence non la troverete, o almeno troverete la sincera convinzione che di band così unite, impegnate politicamente e socialmente, capaci di unire testi intelligenti e un’attitudine live esaltante dovrebbero essercene di più (e un po’ cerchiamo di segnalarvele proprio qui su Tremila Battute, e farvele ascoltare nella playlist dedicata sul maledetto Spotify), e se questo commento vi pare una sviolinata non possiamo fare niente per convincervi del contrario, a parte invitarvi a una delle date del loro tour che partirà il 23 gennaio dalla Santeria di Milano. Noi saremo lì, ad ascoltare le loro canzoni (fra cui Il nuovo mare, Sono un casino e Contro la società securitaria, singoli usciti fra il 2023 e il 2025) e a pogare, e non avremo bisogno di spiegarvi perché da anni si definiscono “una via di mezzo fra De André e i NOFX“.

Metereopatia è la seconda traccia di Senza paura delle rovine, una delle loro canzoni più amate che ai concerti non può mai mancare (e il cui video Cesare Cremonini ha copiato spudoratamente, vale la pena di ricordarlo), in cui attraverso immagini futuristiche e semicatastrofistiche di navi interstellari pronte a portarci altrove e la nuova sede del Vaticano spostata sulla bocca di un vulcano la band esprime alla sua maniera tutto il disagio che la Lombardia è capace di esprimere nel suo lato più securitario e improntato alla fatturato (sarà un caso che proprio a loro sia spettata la cover di Marte dei Punkreas, all’interno della versione “revisited” dell’iconico Paranoia e potere della band varesotta, con la sua strofa “l’importante è il fatturato e non la vita”?). I protagonisti del racconto di Matteo questo disagio lo affrontano a modo loro, sfrecciando in macchina nella nebbia bergamasca fra una nutria da investire, un cartello stradale da rubare e qualche colpo da sparare con la scacciacani in piena campagna, mentre dall’autoradio la voce di Nico continua a scandire il mantra “Metereopatia, portami via dalla Lombardia”: potete entrare in questo frammento della loro vita andando più in basso, subito dopo la canzone che ha ispirato queste vicende e i miei auguri di buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero l* artist* accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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La Pimpa è di Bergamo, di Matteo Aschedamini


Il Bastardo guida ondeggiando.

Sfreccia sulle strade sterrate fuori Bergamo, scende verso Lurano, giù in una coltre di nebbia che si divora costellazioni di fabbriche squadrate e cascine. Il Bastardo ci vede come un falco, di tanto in tanto spegne di colpo le luci della Punto per prenderci per il culo.

“Non fare il coglione!”

Luci accese, cascine di nuovo tagliate in solitari muri di mattoni rossi e cancelli di Vattelapesca I.N.C. Una torretta di guardia, sulla cima nidi con parlamenti, senati e tribunali di aironi. Nulla di visibile per via della nebbia, salvo le carogne delle nutrie, creature di Dio sprovviste del senso del pericolo stradale.

Burro siede sul sedile del passeggero. Ha in mente di fare un colpo: furto di segnaletica stradale.

La zona è già stata setacciata. Il Bastardo ha circumnavigato gli incroci dei soliti posti di blocco, infilandosi in una strada di campagna. Prima, però, andiamo a sparare qualche colpo con la scacciacani. Burro la tira fuori dal vano della portiera e la carica.

“Lo fai tu il primo colpo?”

Il Bastardo esce dalla macchina. La terra è fangosa e fredda. Il cielo è freddo e fangoso. Ondeggia mentre allunga il braccio verso le stelle.

“Attenzione Saturno, adesso ti colpiamo!”

“Mi ha sfondato un timpano, cazzo!”

Poi la macchina riparte, la strada si intreccia coi canali scavati dalle nutrie. Il Bastardo tenta di accopparne una, la nutria salta quando mancano solo istanti prima che il muso della Punto la spinga a terra, spiaccicandola.

Burro ha puntato un dare la precedenza fuori da un ristorante. Il Bastardo si getta all’attacco, trascinandosi dietro la fedele pinza, Burro parte al galoppo dietro la sua ombra. Raggiunto il cartello lo scuotono energeticamente, poi il Bastardo fa leva con il suo peso e Burro strappa con le pinze un tocco di ferro che teneva la sbarra immersa nel cemento. L’asta su cui è adagiato si spezza e il cartello cade fra le mani del Bastardo.

In silenzio volano verso la Punto, gettano il cartello nel baule e lo coprono con un telomare della Pimpa (La Pimpa è di Bergamo!).

Poi andiamo al Mc a mangiarci un panino.

Siamo lì da mezz’ora quando il Bastardo si alza di colpo, si tiene le guance fra le mani, poi si schiaffeggia.

“Cazzo! Mi sono dimenticato le pinze. Sono di mio padre, devo andare a riprenderle.”

La nebbia non si è alzata, serpeggia bassa e intensa come una gastroenterite. Il Bastardo risale Pognano, Lurano, Brignano, scaraventandosi nel vuoto cosmico.

Siamo a poche centinaia di metri dal ristorante cinese, praticamente arrivati; vedo il palo orfano di cartello, poi i fanali spiegati di una macchina che non rallenta mi riempiono gli occhi. Una capriola su un fianco, un’altra ancora. I vetri sparigliati per terra, le pinze poco distanti.

Nell’abitacolo in soqquadro il Bastardo non c’è. Si è catapultato fuori e corre con la scacciacani in mano.

Riesco a intravederlo mentre grida “Eureka!”, alza le mani con la scacciacani in una e le pinze nell’altra e penso: Metereopatia…Portami via dalla Lombardia…

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Guerra ai giovani? Il dipinto delle nuove generazioni in After the hunt e Eddington

Forse siete stat* ad una delle manifestazioni in supporto della Global Sumud Flotilla. Forse ci siete stat* a Milano. Forse eravate accanto a me per una certa parte del percorso, magari mentre salivamo un po’ increduli a piedi la rampa di accesso alla tangenziale, e avete visto immagini come quelle che ho visto io: un gruppetto che recupera frammento per frammento la bottiglia di birra che gli è caduta per terra, l’attivista che cancella dal guardrail una scritta contro Meloni dal sapore antisemita e sessista, il signore che porta un riccio al sicuro visto che aveva invaso la carreggiata, e in generale l’atmosfera di gioia che superava anche la rabbia per la condizione della striscia di Gaza in quei giorni (non che la situazione sia migliorata davvero di molto col cessate il fuoco, andando quest’ultimo a singhiozzi che fanno decine se non centinaia di morti ogni volta). Poi certo, non sono cieco o sordo, il coro “Palestina libera dal fiume fino al mare” l’ho sentito ed evitato di cantare, un gruppetto di tre/quattro persone vestite completamente di nero con tanto di passamontagna me le sono trovate abbastanza vicino lungo il corteo (non facevano nulla di particolare, sempre a onor del vero) e ho visto anche, seppur da lontano, arrivare le camionette a idranti spiegati in tangenziale (dai due ai cinque minuti di operazione): comunque troppo poco perché la narrazione collettiva etichettasse quelle manifestazioni come violente, ma sappiamo benissimo che è ciò che è stato raccontato nella maggior parte dei casi.

Siamo stat* giudicat* irresponsabili, colpevoli di minare col nostro comportamento la buona riuscita delle trattative per il cessate il fuoco allora in fase avanzata, e forse non ci si poteva aspettare di più in un contesto dove era rappresentata ogni generazione ma che contava molto su collettivi studenteschi e sull* giovani in generale, tantissim* giovani. E quando mai l* giovani hanno capito qualcosa della vita?

La stessa svalutazione delle istanze delle nuove generazioni l’ho colta in due film recenti (e di cui volevo parlare da almeno due settimane, ma poi la pigrizia ha vinto), After the hunt di Luca Guadagnino e Eddington di Ari Aster, che pur partendo da basi e generi completamente diversi mostrano contraddizioni e divisioni all’interno degli USA, un compito lodevole svolto in certi momenti con l’istinto retorico di chi vuole insegnare una lezione senza averla capita appieno.

Panni scomodi e pronomi indigesti

Com’è come non è ultimamente io e Guadagnino ci frequentiamo spesso. Non ho apprezzato particolarmente Chiamami col tuo nome (pur avendo una compagna cremasca, che avendoci vissuto accanto si chiede quale sia il fascino dei fontanili che hanno fatto svoltare il turismo locale dopo essere apparsi nella pellicola), eppure sono finito al cinema a vedere Bones and all e ho pure recuperato Challengers, uscendo dalle visioni sempre con entusiasmo molto tiepido. After the hunt aveva al suo arco perlomeno un tema interessante, una denuncia di molestie nel contesto dell’università di Yale nell’era del post MeToo, dove una docente di filosofia in odore di promozione (Alma Imhoff, interpretata da una Julia Roberts mai così efficacemente respingente) si ritrova a gestire il “sorella io ti credo” (con poca convinzione) davanti alla studentessa Maggie Price (Ayo Edebiri) mentre intimamente pensa “collega (Henrik Gibson, interpretato da Andrew Garfield) io non le credo mica troppo”.

“Coraggio, dimmi ancora come ti senti emarginata mentre fai la vita da bohemiene coi soldi dei genitori”

È un bel film After the hunt, forse il migliore di Guadagnino visto finora. Ti fa alzare dalla poltrona con la voglia di parlarne, sviscerarlo da cima a fondo, perché la sceneggiatura di Nora Garrett non fa sconti a nessuno e la regia è elegantemente ansiogena, piena di momenti in cui ti piazza a un centimetro dai volti dell* protagonist* mentre portano avanti una battaglia dialettica che sulla carta non dovrebbe esistere: sorella io ti credo, si diceva, o no? Il trittico vagamente morboso composto da Roberts, Edebiri e Garfield nasconde abbastanza segreti da farti sospettare che ognun* di loro non la racconti giusta, eppure il motore centrale della vicenda, la violenza subita, perde presto la sua importanza di evento singolo per diventare esempio di un problema molto maggiore: il fatto che l* giovani non reggano più la pressione.

Ci sono momenti di un paternalismo estremo in After the hunt, dall’uso con evidente disprezzo dei pronomi (ah, questa teoria  del gender!) all’attacco filosofico a una generazione incapace di lottare davvero per le proprie istanze, elementi che evidenziano quanto al duo Garrett/Guadagnino la cultura Woke non vada proprio giù. Intendiamoci, la generazione dell* professor* non ne esce meglio, infettata da viscido arrivismo e problemi personali mai risolti, tanto che nemmeno il saggio e pacato marito di Alma (Michael Stuhlbarg) esce indenne da questa opera di distruzione sistematica di ogni legame di empatia coi personaggi: i loro difetti però sono frutto di una maturazione, andata storta ma pur sempre maturazione, mentre le proteste e le battaglie identitarie di Maggie e compagn* vengono dipinte come il riflusso di una generazione che non sa ancora cosa vuol dire la vita vera, quella vita dove evidentemente dopo che ti hanno molestata devi fare tesoro dell’esperienza e pensare “ehi, questo mi aiuterà a crescere!”

“Ma che, davero?”

Guadagnino ha l’intelligenza di fermarsi prima che la tesi del film diventi “sorella, io non ti credo”, perché After the hunt è un complicato meccanismo di azioni e reazioni in cui è impossibile trovare sant* ed è proprio lì che sta il suo fascino, nel metterti in una posizione scomoda privo di tutti gli elementi per giudicarla, assalito dal ticchettare ansiogeno di una lancetta e dalle musiche sempre efficaci di Trent Reznor e Atticus Ross: è un peccato però che in sede di promozione sia stato evidenziato il “non tutto ha lo scopo di metterti a tuo agio” che Alma sussurra con cattiveria all’orecchio di Maggie, mentre la risposta di quest’ultima risulti invece uno dei pochi momenti in cui si evidenzia che nemmeno l’ingoiare acriticamente ogni esperienza negativa in virtù di una supposta “corazza” da crearsi sia la risposta giusta. Mi è capitato di ascoltare su Radio 24, all’interno del programma mattutino Uno Nessuno CentoMilan, un breve dibattito sulla genitorialità in cui si parlava di come il modello dell* genitor* amic* abbia fallito, creando giovani che vanno in crisi alle prime difficoltà, critiche a cui Leonardo Manera rispondeva evidenziando che quest* “genitor* amic*” sono diventat* quello che sono a causa dell’educazione ricevuta a loro volta, e che se consideriamo sbagliato il loro modello educativo dovremmo farci due domande anche sul modello educativo che l* ha portat* a sceglierne uno diverso: il tema sotteso ad After the hunt in fondo non è così dissimile, peccato solo che prima di evidenziarlo ci tenga a smontare la generazione che ci seppellirà come una banda di mollaccion* che sa solo pesare le parole.

Aster sull’orlo di una crisi di nervi

Il regista in un momento di profondo scavo interiore

Qui a Tremila Battute vogliamo molto bene ad Ari Aster. Hereditary ci era piaciuto alla follia, Midsommar, seppur più zoppicante, lo abbiamo portato come esempio degli obiettivi che può perseguire il cinema horror del futuro, ci siamo fatti andare giù anche Beau ha paura, che nel suo strambo procedere ti faceva dire “be’, questo non me lo aspettavo”. Quando ho visto che al cinema c’era questo nuovo Eddington, di cui avevo già sentito parlare in concomitanza della sua partecipazione al Festival di Venezia, ho approfittato di un pomeriggio libero per andare curioso a vedere se l’ex enfant prodige del cinema horror avesse cominciato a risalire la china o, come sembravano indicare i più, avesse preso velocità rotolando verso il basso.

Protagonista della pellicola è Joe Cross (Joaquin Phoenix), sceriffo male in arnese di una piccola cittadina sperduta nel sudovest degli USA. C’è la pandemia in corso e le proteste di Black Live Matters stanno iniziando a montare, ma anche senza andare verso sfighe globali Cross è già messo male di suo, con la moglie Louise (Emma Stone) condizionata da un trauma di gioventù e spinta verso il complottismo dalla madre Dawn (Deirdre O’Connell, splendidamente odiosa) mentre il sindaco Ted Garcia (Pedro Pascal) continua a mietere consensi con suo sommo smacco, segno di trascorsi fra i due mai risolti e che aspettano solo una miccia per esplodere. Così, dopo un inizio lento in cui la realtà della cittadina ci viene svelata piano piano, fra una mascherina malmessa e accenni sempre elusivi a vicende del passato, la tensione fra Cross e Garcia esplode in un conflitto solo sulla carta politico: lo sceriffo decide di candidarsi a sindaco, mettendo in moto eventi che andranno ben oltre le sue misere aspettative.

“Calmati, ora la metto la mascherina” “No, tu te la metti subito!”

Se c’è un motivo per cui vale la pena seguire Aster oggi è per la sua capacità di spiazzare; se c’è un motivo per NON seguirlo è a causa della sua incapacità di pianificare dove vuole andare a parare. Eddington parte come una specie di western moderno in cui sono incistate tutte le storture degli USA contemporanei (quelli del primo Trump, ma tanto abbiamo già fatto il giro e ci siamo ricascati dentro), e sembra porsi l’obiettivo di raccontare una storia che tenga alta la tensione mentre nel frattempo mette alla berlina tutta una serie di prese di posizione, sia progressiste che conservatrici: poi la trama comincia ad andare in pezzi insieme al suo protagonista (Phoenix deve trovare sincero godimento nel farsi assegnare dal regista ruoli sempre più meschini e degradanti), continua ad accelerare verso il disastro e finisce a tavoletta contro un muro di nichilismo al grido di “è tutto una merda!”, ficcando nella mente dello spettatore un senso di disfatta che coinvolge ogni cosa, dalle big tech alla green economy, dalle vittime di abusi alle proteste di piazza. E, ovviamente, ci vanno di mezzo pure l* giovani.

La morte di George Floyd e i successivi moti di protesta vengono utilizzati da Aster solo per mostrare il ridicolo che c’è nelle istanze delle giovani generazioni, borghesott* bianch* che si riempiono la bocca con discorsi che si ritorcono su sé stessi e pensano sia importante inginocchiarsi per terra in mezzo a strade vuote nel culo del niente. È un ritratto impietoso e sleale perché, come in After the hunt, anche qui nessuno è innocente, ma gli adulti vengono presentati come persone che hanno uno scopo, lodevole o meno che sia (plauso anche al viscido ma sensuale complottista interpretato da Austin Butler), o lo hanno perso strada facendo, mentre l* giovan* non sanno cosa dicono, starnazzano cose senza senso e fungono da momento comico quando vengono zittiti in malo modo, come capita a Brian (Cameron Mann) quando cerca di spiegare al padre perché le sue proteste a favore dei diritti delle persone nere sono contemporaneamente giuste e ingiuste a causa della sua bianchezza.

Similitudini non tanto forzate

C’è una puntata di South Park di cui ho già probabilmente parlato: sono due episodi collegati in realtà, apparsi nella quindicesima stagione della serie (Stai invecchiando/La sindrome di Hamburger), in cui Stan Marsh al compimento dei dieci anni vola verso l’adolescenza vedendo merda ovunque: nella musica che ascolta, nei film al cinema, nei discorsi di chi gli sta attorno. Ari Aster mi pare in quella fase lì, circondato da un mondo che non capisce pienamente che, impaurito come il protagonista del suo penultimo film, cerca di distruggere con abbondanti dosi di sarcasmo: ha ancora la capacità di portarti dove non ti aspetti e la sorpresa è sempre una buona cosa, ma questo non è bastato per elevare a capolavoro Megalopolis e il fatto che Eddington sia meno sbagliato del film di Coppola non lo rende per forza migliore. Appena prima di entrare in sala ho scoperto che la sera stessa, proprio in quel cinema, il regista sarebbe stato presente alla proiezione, e avrei voluto davvero passare per dargli un abbraccio ma ero troppo depresso dalla sua visione desolante del mondo e delle nuove generazioni: mentre lui parlava, io per riprendermi guardavo South Park.

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Racconto in musica 212: Involtini primavera e riso Shangai (Kate Nash – Nicest thing)

Questa è un’altra di quelle introduzioni in cui sproloquio e mi interrogo sul concetto di “indipendente”? Eh sì, cavolo, lo è. Perché in fondo sono una persona semplice, a cui piacerebbe saper distinguire chiaramente il chiaro dallo scuro, però poi com’è come non è mi infilo sempre nelle zone di grigio e ci rimesto e allora alla fin fine tanto semplice forse non sono. Ma dicevamo, “indipendente”.

A me forse quello che interessa veramente è che chi appaia qui non sia la norma. Non lo sia in generale, ma che possa esserlo anche stat*: vivi sulla cresta dell’onda, vai a Sanremo, il pubblico ti acclama ma poi ti accorgi che sei Mikimix e sarebbe forse meglio ripartire dal basso come Caparezza, per poi ancora salire e scendere… insomma, il successo non è una discriminante tout court. Quante canzoni sentiamo in radio, sulle radio generaliste, canzoni di cui sappiamo ogni nota ma di cui abbiamo dimenticato l’autor*, perché con quella canzone soltanto hanno sfondato e poi puf, sparit*? One hit wonder mi sembra le chiamino, spessissimo brani pacco scritti da qualcun* che cerca in eterno di replicarne il successo senza mai più riuscirci, ma a volte a quel successo ci arrivi perché sei la persona giusta al momento giusto nel posto giusto e subito dopo non lo sei più, che poi mi sembra ciò che è capitato a Kate Nash leggendo di lei su suggerimento di Martina Ciullo, e guarda un po’ le due sono ospite musicale e letteraria della settimana.

Partiamo da Martina ovviamente (cioè, è ovvio per chi questo blog lo segue stabilmente: per l* nuov* arrivat* sappiate che partiamo presentando chi ha scritto il racconto, poi carrellata sulla carriera di chi ha scritto la canzone e infine breve presentazione del racconto: ora siete pront*), che ha risposto alla nostra richiesta di scrivere qualcosa per Tremila Battute con entusiasmo. Violinista professionista, ha studiato giornalismo e sceneggiatura, vive a Roma e scrive da sempre, una passione quest’ultima in cui risultati si vedono nel gran numero di racconti pubblicati su rivista: Topsy Kretts, Nazione Indiana, L’equivoco, Micorrize, Pastrengo (anche qui), Grande Kalma, Terranullius e sul quinto numero di Fumo Magazine. Noi ce li siamo letti tutti e vi invitiamo a fare altrettanto, che i link esistono per essere cliccati e se non lo fate rendete tristi loro e anche un po’ noi.

Emblematica della carriera altalenante di Nash è la pagina wikipedia italiana: gli inizi su MySpace, la Moshi Moshi Records che le fa uscire un singolo con una tiratura di mille copie nel febbraio 2007, la più grossa Fiction Records che la prende sotto la sua ala subito dopo, il successo lento ma inesorabile di Foundations, singolo che la proietta verso il primo album Made of bricks (uscito ad agosto dello stesso anno) e il Brit Award come miglior artista femminile, un secondo disco nel 2010 (My best friend is you) e fine della storia, pur con una carriera segnata come “in attività”. Che fine ha fatto dopo? E quanto ero distratto io in quegli anni, che del passaggio pervasivo delle sue canzoni (Pumpkin soup mi è ritornata in mente alle prime note, durante l’ascolto con anni di ritardo del primo disco) su MTV mi ero completamente dimenticato? Forse l’avevo addirittura scambiata per Lily Allen (paragone molto comodo, talmente comodo da essere definito pigro e sessista dalla stessa Nash), una che con lei ha condiviso gioie e dolori di quel breve periodo in cui essere londinese, leggermente fuori dalle righe e fare musica irresistibilmente pop sembrava una ricetta per il successo immarcescibile… ma anche il comodo viatico per essere bersagliate dalla pressa mediatica dei giornali scandalistici britannici.

Fatto sta che se già il successo non era proprio rose e fiori (il tour di Made of bricks la portò verso l’alcolismo e lo sviluppo di un disturbo ossessivo compulsivo), il percorso dal 2011 in avanti è un crollo verticale condito di improvvise risalite e tante, tante battaglie. Nash si fa affascinare dal punk, con Kathleen Hanna delle Bikini Kill (e Le Tigre, e moooolti altri progetti musicali) come esempio concreto sia per la musica che per l’attivismo, e inizia a sfornare canzoni e dischi che rispecchiano di più la sua natura, ma non convincono i discografici: Girl talk (2013) e Yesterday was forever (2018) li fa uscire a sue spese, il primo in un interregno in cui la Fiction Records sembra ancora poter estendere il suo contratto ma poi no, tanti saluti, è stato un piacere Kate. E vorrei potervi dire che lei ha affrontato tutto a testa alta, mentre fra una canzone e l’altra donava strumenti alle scuole, firmava petizioni e si spendeva in prima persona per far liberare le Pussy Riot dalle carceri russe e cominciava a denunciare il sessismo imperante nel mondo della musica, ma non è così: nel 2014 si sposta a Los Angeles dove scrive canzoni per altr* sotto contratto con la Warner, ma è un contentino che non le fa certo risvoltare la carriera e che abbandona un anno dopo, facendo ritorno a casa dei suoi a Londra, quando scopre che il manager l’ha lasciata in bancarotta e con una parte dei soldi rubati SI È PAGATO IL MATRIMONIO. Può andarti più di sfiga di così la vita? Può essere, ma Nash non si arrende e va avanti, continuando a spendersi in cause sociali a favore delle donne maltrattate e portando avanti anche il suo primo amore giovanile, la recitazione, che finalmente un po’ di soddisfazioni gliele dà.

Rhonda “Brittanica” Richardson è il ruolo che le viene proposto in GLOW, serie che forse avrete intercettato su Netflix incentrata sulla lega di wrestling femminile nata negli anni 80, ed è un’opportunità che Nash coglie al volo dimostrando ottime capacità recitative (non che fosse alla prima prova, e nemmeno ha smesso in seguito) e, già che c’è, riuscendo a disintossicarsi dall’alcol grazie al regime di allenamenti cui deve sottoporsi per la parte. Anche questo piccolo successo viene spazzato via in poco tempo però, tre stagioni per la precisione: poi c’è la pandemia, la cancellazione della serie, ma anche un nuovo disco all’orizzonte. 9 sad symphonies esce nel 2024 per l’etichetta Kill Rock Stars (la stessa che ha pubblicato anche le Bikini Kill, non a caso), ed è un disco spumeggiante e vitale, incentrato molto sulla sua voce, sul piano e su arrangiamenti pieni di archi. Le difficoltà non sono comunque finite e per pagarsi il tour Nash, che dall’esperienza di GLOW è uscita anche con una rinnovata coscienza del proprio corpo, decide di aprire un account OnlyFans e di finanziarsi attraverso la campagna “Butts for tour buses”, provocazione per alcun* o semplicemente scelta consapevole di un’artista che nel frattempo ha aderito a progetti per insegnare l’educazione sessuale nel mondo dell’industria musicale, per annullare il gender gap nei festival ed è pure andata a protestare davanti agli uffici di Spotify e Live Nation per criticare la ridistribuzione iniqua dei profitti. Insomma, la notorietà internazionale e i passaggi su MTV non possono certo impedire a un’artista del genere di apparire sulle pagine di un blog che professa il suo amore per la musica indipendente, perché Kate Nash indipendente in pensieri e azioni lo è da anni e lo dimostra anche col suo ultimo singolo Germ (acronimo che sta per “girl, exclusionary, regressive, mysoginist”, alternativa al TERF con cui vengono etichettate le femministe transescludenti di cui l’esempio più in vista è la scrittrice J. K. Rowling), dove attraverso un testo denso di statistiche e riflessioni riesce a dimostrare che escludere le persone trans non aiuterà il femminismo e che il vero pericolo, ANCHE PER GLI UOMINI, è la mascolinità tossica.

Nicest thing è l’undicesima traccia di Made of bricks, un brano in cui gli archi accompagnano malinconicamente la voce di Nash mentre enumera le sue aspettative per un amore che, si capisce chiaramente, non è destinato a sbocciare. Un amore finito è alla base anche del racconto di Martina, dove veniamo pian piano introdotti nella nuova routine di una donna, Cristina, e nell’atmosfera sospesa della sua casa dove, fra una birra alle nove e venti del mattino e involtini primavera ordinati per pranzo, si riesce a percepire tutto il dolore che l’autrice lascia abilmente in sottofondo, nascosto nel ricordo di momenti che non ritorneranno: potete leggerlo subito dopo il brano che lo ha ispirato, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero l* artist* accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Involtini primavera e riso Shangai, di Martina Ciullo


Davanti al frigorifero Cristina fece un respiro profondo e afferrò la seconda birra della giornata.

Il mercoledì aveva la prima ora in terza D, poi più niente.

Un orario sciagurato, l’aveva definito così a ottobre, mentre mangiava involtini primavera e riso Shanghai da asporto con suo marito.

Adesso, a fine aprile, con l’orario aveva fatto pace e suo marito non c’era più.

Era stata una bevitrice raffinata: sentori di piccola pasticceria, strazianti storie su figlie morte e bottiglie di Barolo sue omonime, percentuali di Pinot grigio e affinamenti subacquei.

Da quando era sola beveva solo birra e superalcolici, ma quelli solo dopo le due del pomeriggio. Durante il viaggio di nozze si erano scontrati con un uomo-sandwich che pubblicizzava “Happy Hour, 5 dollari, 2 pm – 6 pm”. Era rimasto un loro linguaggio segreto per i momenti difficili, si scambiavano una rapida occhiata, poi uno dei due mimava: dalle due alle sei.

Si spostò con la bottiglia sul divano beige, davanti al televisore spento.

Fingeva fosse normale fare ritorno alle nove e venti in quella casa buia dopo aver spiegato la geometria della sfera a dei tredicenni, stapparsi una birra – ah ah, una birra – e poi non fare più niente se non aspettare la fine del giorno.

Non apriva le imposte. Prima vivevano senza mai chiuderle, la casa avvolta in un ciclo di luce perpetua che si affievoliva la sera e li coglieva di sorpresa la mattina.

Lui avrebbe dormito anche con un faro da stadio puntato addosso. «Confessi!», urlava lei, a volte, per svegliarlo. Gli si metteva a cavalcioni mentre un fascio di sole lo colpiva in volto. Lui apriva gli occhi e subito era dentro al gioco: «Agente, posso spiegare…»

Fece ritorno in cucina, prese un’altra birra e se la scolò per intero davanti alla luminescenza grigia del frigorifero.

Devi mangiare, devi mangiare, devi mangiare.

Guardò verso la finestra, ma le imposte chiuse non le furono di nessun aiuto per capire quanta giornata le era rimasta da scontare.

Sentì un ticchettare felpato. Prese i croccantini del gatto e riempì la ciotola.

Suo marito li pesava a inizio giornata e poi li razionava, per assicurarsi che non ne mangiasse troppi. «Adesso siamo solo io e te», aveva detto lei al gatto dopo che lui era morto, «l’era delle restrizioni è finita», e aveva vuotato mezza scatola nella ciotola, facendola strabordare. Il gatto ne aveva mangiate poche, anche lui soffriva il fatto di essere rimasto vedovo. Le crocchette si erano prima seccate e poi ammollate, e lei aveva dovuto spazzarle via.

Con un movimento simile a quello che usava per portarsi la bottiglia alla bocca, controllò l’ora. Le undici e trenta. Come volava il tempo, quando si restava soli.

Compose un numero a memoria.

«Pronto», disse la voce dentro al telefono.

«Sono Cristina», soffiò lei, «mi fai il solito?».

«Involtino primavera e Riso Shanghai», tradusse la voce dall’altra parte, «venti minuti».

«Venti minuti», ripeté lei. Poi riattaccò e attese.

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Racconto in musica 211: Sparare al sole (Soumbalgwang – Sun)

Una delle prime cose a cui ho pensato quando ho deciso di organizzare le vacanze estive in Corea Del Sud è stata “devo trovare qualche locale in cui suonano”. La scena musicale di paesi così lontani ci arriva piena di approssimazione, così come presumo faccia la nostra esportando Laura Pausini in Sudamerica invece di, che so, gli OvO (che comunque un loro successo all’estero ce l’hanno comunque), e volevo scoprire in loco cosa c’è oltre il k-pop e le sigle dei k-drama. Ci avevo già provato in Giappone, e il risultato era stato un concerto pomeridiano in una sala prove con tre band locali e un trio strumentale thailandese (i Faustus): quest’estate ci ho riprovato, informandomi preventivamente sui locali in cui potevo trovare concerti ma, pensa un po’, ad agosto pure lì la maggior parte chiude per ferie. Ma non il Jebi Dabang, nel quartiere universitario Hongdae di Seoul (consigliatissimo come zona dove soggiornare). Non l’Ovantgarde, vicino alla spiaggia di Gwangalli a Busan. All’Ovantgarde ho scoperto addirittura un concerto dei Say Sue Me, fra le prime band protagoniste di questo blog… ma era il giorno prima che arrivassimo lì. Invece il Jebi Dabang organizzava concerti tutte le sere, ma non tutte le sere potevano andarci: quando l’abbiamo fatto siamo scesi al piano di sotto, in una minuscola sala dove, seduto su uno sgabello grosso come una mia chiappa, ho visto… una band che faceva cover di Jimi Hendrix. Bravi eh, ma comunque una cover band. È stato l’unico concerto che ho visto. Insomma, io mi ero fatto certe aspettative, e non sono state esaudite: comunque la prossima volta, se ci sarà una prossima volta, ci riprovo, e stavolta magari mi capita di finire a vedere una band come i Soumbalgwang.

C’è da dire che, oltre che sui locali (qui ne trovate un lungo elenco su Reddit, nel caso capitiate da quelle parti e vi vada della musica dal vivo), mi ero preventivamente informato anche su alcune band, scandagliando le date dei vari posti e andandomi poi ad ascoltare chi ci suonava (un livello di ricerca che fa molto serial killer). I Soumbalgwang, originari di Busan, sono saltati nelle mie orecchie così, e tutto ciò che posso dire su Kang Dong-soo, Kim Seong-been, Ma Jae-hyun e Park Seong-gyu (che è la formazione attuale, vi risparmio i nomi degli ex componenti dato che non vi so dire nemmeno chi suona cosa) è basato sulla loro musica, ché trovare informazioni in coreano non è così semplice. Attivi dal 2016, fanno uscire il primo Ep Huh nel 2019 con l’etichetta Osoriworks (che pubblicherà tutti i loro dischi) e, sarò onesto, non è granché: indie piuttosto blando, un accenno di garage rock nella conclusiva Dance dance e una personalità ancora in formazione. Il primo album arriva l’anno dopo, nel settembre 2020 post-intra-pandemico, e basta arrivare alla seconda traccia Sunshine per capire che Fuze ha una marcia decisamente diversa: il cantato diventa quasi screamo, l’atmosfera è solare ma molto più energica, qualche brano si butta sull’indie-folk ma la maggior parte sembra più prendere ispirazione dal punk hardcore, pur ammorbidendolo molto. Altro anno, altro giro di giostra e altro album: Happyness, flower esce nel 2021 e porta nuovi cambiamenti, mostrando una band pienamente consapevole dei propri mezzi e ancora più fantasiosa. Il quartetto vira sul post-hardcore e si candida ad alternativa coreana agli At The Drive-In che nessuno aveva chiesto ma di cui c’era bisogno, perché la voce è espressiva tanto nei sussurri quanto nelle (abbondanti) grida, le chitarre sono efficaci sia negli incroci melodici che nei momenti noise e basso e batteria fanno un amalgama denso e roccioso che dona energia anche a brani più morbidi come Eve. A questo punto la maturazione sembra raggiunta, il cammino sembra coerente anche nelle sue svolte più rumorose, ma nel 2024 i Soumbalgwang decidono che la luminosità non gli piace più.

Fire & light è l’ultimo disco della band coreana ed è un tuffo in un’oscurità densa, pur ammantata dell’energia affinata con le prove precedenti: l’andamento cadenzato di Black, la drammaticità delle chitarre in Hammer, lo spoken word alternato e/o sovrapposto alle urla di Room sono alcuni esempi del nuovo corso intrapreso, tutt’altro che indigesto e capace di mantenere alta la curiosità per il futuro. E vorrei tanto dirvi anche di cosa parlano i loro testi, qual è la loro visione del mondo e cosa li ha portati all’ultima svolta della carriera ma ehi, in diciassette giorni di Corea ho imparato che per ringraziare l* altr* automoblist* bisogna fare le quattro frecce e poco altro, di sicuro non la lingua e sì, i Soumbalgwang hanno i titoli in inglese ma cantano in coreano: fidatevi e ascoltateli comunque che sembrano dei bravi ragazzi oltre che degli ottimi musicisti.

Sun è la settima traccia di Happyness, flower, forse il brano in cui la carica punk-hardcore dei Soumbalgwang si esprime più chiaramente, due minuti e venti di furia gioiosa che, prendendo spunto dalla traduzione approssimativa del testo, ho provato a trasformare in racconto. L’ambientazione è ispirata al Gamcheon Village, una delle mete più visitate di Busan, quartiere popolare rivalutato attraverso murales e installazioni artistiche che in alcuni punti sembra il classico paese dei balocchi studiato per i turisti e in altri mantiene il suo carattere di luogo che non si sarebbe mai aspettato di entrare nei radar del turismo di massa: pare sia uno dei rari (se non l’unico) esempio di gentrificazione che non ha portato a un’espulsione economica degli abitanti, ma i protagonisti della storia sono comunque giustamente diffidenti verso questo tipo di operazioni e potete leggere le loro azioni e reazioni più in basso, subito dopo il brano e il mio augurio di buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero l* artist* accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Sparare al sole


Dicono tutti che è matto e lo dico anch’io, lo dico da una vita anche se non è che sia al mondo da così tanto, ma abbastanza da capire che se passi le giornate a guardare il sole o a indicarlo col dito o a urlargli contro allora con la testa tanto non ci stai. Lo dicono gli anziani, lo dicono i giovani, lo dicono quelli che si mangiano i soldi con le scommesse e poi si lamentano che a lui lo mantiene lo stato, che pure è vero e magari mantenessero me così, lo dice anche mio papà che è uno rispettoso e gentile ma quando si tratta di lui il massimo che riesce a dire è che be’, ci tiene lontano i turisti almeno da qua, che se no questa scalinata ce la troveremmo intasata di gente sudata col telefonino in mano.

(Ricordo che ci passavo le serate con mio nonno su quei gradini. Guardavamo le stelle tutti insieme, io, lui e i vicini, il matto no perché lui ce l’aveva solo col sole. Nonno aveva fatto la guerra, mentre guardavamo le stelle tirava fuori sempre gli stessi aneddoti, sempre e solo di notte e sempre e solo su quella gradinata. Quando gli chiedevo qualcosa durante il giorno si limitava a dire che per un po’ sembrava che avrebbero vinto gli altri, poi sembrava che avremmo vinto noi e poi si era finito così come s’era iniziato. Se non era notte e gli chiedevo se ne era valsa la pena mi diceva oooh, certo che sì!, poi indicava le case attorno e non aggiungeva altro).

Dicono che è matto e se ne sono accorti tutti, è finito anche su Internet e adesso da fuori dicono che ci fa fare brutta figura, che dovrebbe stare in una struttura, che il quartiere non è adatto per la sua situazione, ma è il nostro matto e a noi di fare brutta figura non ci interessa perché mio nonno faceva fare brutta figura, mio padre fa fare brutta figura e anche io faccio fare brutta figura se sto fuori da qua, dove invece sono una figurina da attaccare sull’album del cazzo di qualcuno che ha deciso che le nostre case sono caratteristiche e che siamo l’anima di un paese a cui non gliene è fregato mai niente di noi. E allora il nostro matto ce lo teniamo e ce lo coccoliamo, gli facciamo scudo attorno e siamo disposti anche noi a sparare al sole quando verranno a prenderlo, se ci verranno, se avranno il coraggio di presentarsi a dirci cosa dobbiamo fare ancora una volta. Che poi mica ce l’hanno il coraggio, no, va a finire che spaventano i turisti e poi quelli mica tornano più, e forse forse potremmo darglielo il nostro matto se servisse a mandarli via perché almeno non mi alzerebbero ancora l’affitto di sta bettola dove abito. Ma vuoi mettere la soddisfazione di non dargliela vinta?

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