Qualche domanda sulla scrittura,  parte due: Ilaria Petrarca e Mattia Grigolo

Tremila Battute compie cinque anni! Come festeggiare? Un grande regalo di compleanno ce lo ha fatto il Circolo Masada, che fino a giugno ci ospiterà una volta al mese per parlare con autor* della rivista delle loro pubblicazioni, dei loro racconti e, ovviamente, di musica e letteratura (tenete d’occhio la pagina Facebook per essere aggiornat* sul calendario): un altro abbiamo deciso di farcelo/farvelo contattando autori e autrici che qui apprezziamo un sacco, facendo loro alcune domande che ci ronzavano in testa da un po’ riguardo al loro rapporto con la letteratura, con la scrittura e con tutto ciò che gira intorno all’ispirazione, al metodo e al modo in cui scrivono coloro di cui abbiamo adorato i libri.

Per questo secondo appuntamento abbiamo contattato Ilaria Petrarca e Mattia Grigolo, che hanno gentilmente risposto ai nostri quesiti.

Da quanto scrivi?

IP – Qualche anno.

MG – Tecnicamente mi sono messo a scrivere narrativa a sedici anni. Tenevo un diario su cui scrivevo racconti. Di ciò che mi accadeva in quel periodo non mi andava di scrivere. Preferivo alterare la realtà. Il primissimo racconto che ho scritto me lo ricordo ancora: c’era un castello e della gente che ci fumava dentro dell’erba. Ho iniziato a scrivere con più costanza a vent’anni, ho pubblicato su qualche rivista: Daemon Magazine, Frenulo a Mano, ho vinto un concorso di Minimum Fax, sono andato a ritirare il premio che ero ubriaco, avevo passato la notte provando a dormire su un pavimento di una cucina a Torino. Poi non ho mandato più nulla in giro. Ho fatto giornalismo per tanti anni. Nel 2020, in piena pandemia, ho mandato un racconto a te, per Tremila Battute, s’intitola Io e Franchino, come la canzone di Riccardo Sinigallia. Da lì è cominciata tutta un’altra storia. Sei stato l’inizio di un grande cambiamento.

Quando hai pensato la prima volta “sono brav* a fare questa cosa”?

IP – Scena: corso finesettimanale di scrittura di racconti. Giro di presentazioni dei partecipanti, ciao mi chiamo Petrarca ma non sono parente di, lavoro coi numeri, non so chi è Gordon Lish. Il docente mi bolla subito come “comparsa pagante”… come dargli torto? Be’, l’istinto è di alzarmi e fuggire, ma siccome ho pagato in anticipo faccio la parte della sansevieria che si ingolfa di sostanze tossiche restando comunque dritta e verde. Per tutta la durata delle lezioni muoio dentro in silenzio, finché arriviamo alla parte pratica. Ci viene chiesto di riscrivere il finale di un racconto di Tobias Wolff, un nevrotico litigio coniugale in stile minimalista. Imbastisco un finale ambiguo, butto fuori un tot di ricordi tossici miei personali, il docente lo legge e: “quasi mi piace più dell’originale” dice. In quel momento da comparsa mi sono sentita protagonista.

MG – Penso di essere bravo a fare questa cosa, ma è una montagna russa. Non sono tra le persone con più autostima che conosco. Faccio una gran fatica. Invecchiando, però, ho maturato anche una sorta di menefreghismo che mi aiuta molto: un tempo non avrei mai indossato i cappelli che indosso ora. Comunque: è una montagna russa, oppure una risacca.

Hai un metodo di scrittura?

IP – Sì. Pianifico la trama per mesi mentre i personaggi mi si rivelano a poco a poco: cosa desiderano, in cosa difettano, come parlano e quali abitudini hanno. Nel frattempo, scrivo a seconda dell’ispirazione finché, come in uno stereogramma, dai frammenti emerge una figura. Allora mi siedo e inizio a fare sul serio.

MG – Onestamente no. Non so cosa significhi avere un metodo di scrittura. Scrivo ovunque, ma mi trovo meglio alla mia scrivania. Scrivo se ci sono persone intorno a me, mio figlio che gioca o che guarda la tv. Scrivo con la musica oppure senza. Forse questo è un metodo di scrittura. A volte cambio font e rileggo tutto, a volte cambio il livello dello zoom nella cartella. Mi aiuta, è come se fossi un altro lettore, un altro me.

Ti è capitato di avere il blocco dell* scrittor* e/o pensare “non ho più un cazzo da dire”?

IP – No, però mi è capitato di pensare “dillo meglio, Ila!”

MG – Non mi è mai capitato di non avere più niente da dire. Spero non succeda mai. Faccio comunque di tutto perché non accada, per avere sempre qualcosa da raccontare. Il blocco dello scrittore spesso, è una costante. Ho decine di file in coma.

Hai una bacheca dei rifiuti modello Stephen King? Se sì (o se no e hai una buona memoria) quanti ne hai ricevuti?

IP – Certo che sì! Percentuale di rifiuti: 57% dei racconti – ma ammetto qualche invio “ambizioso”. 

MG – Qualche anno fa ce l’avevo, per i racconti. Poi ho smesso. Sono andato a riaprirla ora: siamo circa 60/40.

Quale autor* quando lo leggi ti fa pensare “ecco, io non sarò mai così brav*”?

IP – Valentina Maini e un altro.

MG – Torno alla seconda domanda: non sono la persona con più autostima che conosco. Però sono anche una persona a cui piace la propria scrittura, il modo che ho di intenderla. Non sempre, ma spesso. Comunque, David Foster Wallace.

Qual è il testo che hai pubblicato su rivista, o che magari non hai mai neanche pubblicato, di cui sei più orgoglios*?

IP – “La candidata sintetica” (Enne2, numero 0), perché lo trovo ancora efficace e sintetizza temi ricorrenti nella mia scrittura: maternità, ibridazione, conflitto, politica.

MG – Su questa nessun dubbio: Dei Gabbiani stanno morendo, che è uscito sul numero 36 di ‘Tina. Lì, quando l’ho riletto la prima volta, ancora una bozza, mi sono detto: madò. Sono certo di non aver più scritto così bene come in quel racconto.

Ilaria Petrarca è nata a Roma nel 1983. Dottorata in Economia, ha lavorato per anni tra il Nord Europa e il Nord Italia prima di tornare a vivere a Roma. Ha frequentato corsi di scrittura ed editing letterario mentre pubblicava racconti e recensioni di libri. Nel 2023 ha vinto il Premio Dante Arfelli con il romanzo Null island, successivamente pubblicato da Readerforblind e finalista al Premio Zeno 2024.

Mattia Grigolo è cresciuto nella provincia milanese e vive a Berlino. Ha fondato la rivista letteraria «Eterna», il magazine di approfondimento «Yanez» e cura laboratori di scrittura con l’hub creativo Le Balene Possono Volare. Suoi contributi sono apparsi su diversi periodici e siti online. Nel 2022 ha esordito con il romanzo breve La raggia (Pidgin). Nel 2023 pubblica Temevo dicessi l’amore (Terrarossa Edizioni), la sua prima raccolta di short stories, che include due racconti vincitori del Premio Zeno 2022. Nel 2024 esce il romanzo Gente alla buona (Fandango), vincitore del Premio Zeno 2024. Cura la collana «Stormo» per Pidgin Edizioni ed è nel Comitato di Valutazione della rivista ‘Tina, fondata da Matteo B. Bianchi.

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Salire sul carro dei vincitori: Anora

Probabilmente è stato il 2015 l’anno in cui ho capito che le cose non dovevano per forza andare sempre nello stesso modo. Me ne sono accorto in ritardo, perché Birdman di Alejandro González Iñárritu non l’avevo visto al cinema e ho dovuto aspettare una visione post-premiazione come miglior film per rendermi conto che… come dire… non era il film che mi aspettavo potesse vincere come miglior film agli Oscar. Dov’è la storia edificante? Com’è che più che un dramma sembra una farsa? L’avevo adorato, Birdman, ma niente mi toglieva dalla mente che potesse rimanere un’eccezione meritevole all’interno di un sistema che, lungi dal dire che premia brutti film, privilegia sicuramente storie che hanno un certo pathos. Da lì in avanti però mi sembra di poter affermare, da semplice appassionato quale sono, che Hollywood ha fatto un po’ fatica a capirci qualcosa: accanto a film istituzionalmente portatori sani di un MESSAGGIO come Il caso Spotlight, Moonlight e Green book si sono seduti Parasite ed Everything everywhere all at once, che pure un messaggio lo avevano ma veicolato attraverso uno stile che tutto è meno che istituzionale. Ne sono felice? Sì, anche se ogni tanto il sistema impazzisce e l’academy premia CODA – I segni del cuore che poverino, io non voglio per forza mettergli la croce addosso senza averlo visto, ma ho sentito meno polemiche per il Pallone d’oro a Matthias Sammer (qui mi capiranno solo gli appassionati di calcio).

Ho pensato subito a questo cambio di paradigma vedendo Anora, in tempo per poter dire “l’ho visto prima della premiazione!” ma non certo per poter affermare “ci ho creduto quando ancora nessuno pensava potesse vincere”. Potremmo parlare per ore di come il favorito di un mesetto fa, Emilia Perez, sia stato mediaticamente affossato per motivi non strettamente cinematografici (c’è da dire però che la “lotta” fra le due pellicole andò alla stessa maniera anche al Festival di Cannes), ma non avendolo visto avrei poco da dire: so solo che la pellicola di Sean Baker è proprio quel tipo di film che, vedendo lo storico degli academy awards, di solito non solo non vince ma neanche ci si avvicina alla statuetta, magari giusto la candidatura come contentino ma senza mai, MAI essere considerato un possibile outsider. E invece.

Di che parla Anora, per quell* che non hanno ancora incrociato un articolo che promette di spiegare dettagliatamente il film (senza che ci sia niente di particolare da spiegare)? Parla proprio di Anora (Mikey Madison), una giovane spogliarellista di origini russe che arrotonda al di fuori dell’orario di lavoro come escort, e del suo incontro nel locale dove si esibisce con Vanja (Mark Ėjdel’štejn), danaroso e frivolo cliente che scopre ben presto essere il figlio di un oligarca russo. Vanja coinvolge Ani (il nome con cui si presenta a tutt*, perché quello vero non le piace) nel suo mondo fatto di spese pazze e feste dove droga e alcol si sprecano, e noi con lei finiamo a correre di qua e di là, con un ritmo e una leggerezza che dimentica tutte le possibili implicazioni morali di ciò che stiamo vedendo e mostra semplicemente i due e il loro gruppo di amic* fare l* ventenni e godere della loro gioventù con mezzi che probabilmente nessun* ventenne che legge questo blog ha a disposizione. Ma tutto ciò che è bello finisce (o così dicono quell* sagg*), Vanja deve tornare in Russia per iniziare a lavorare col padre all’azienda di famiglia (e resta nel non detto, visti i tempi in cui viviamo, di cosa si occupi l’oligarca russo) e Ani rischia di tornare alla vita di tutti i giorni, pur con il conto in banca più florido. A meno che Vanja, sposandosi, acquisisca la cittadinanza statunitense e resti ad abitare lì, nella sua villa lussuosa, mandando affanculo quegli stronzi dei suoi genitori (parole sue): e dove si può fare questo in pochissimo tempo?

Viva Las Vegas! (l’ho fatto pure io)

Sembra la storia di Pretty woman (citato apertamente in alcuni punti), vero? Solo più stracciata, scevra di tutto quel luccichio da fiaba che ti aspetti da una commedia romantica. E Anora pure resta nei ritmi della commedia, anche quando i poco comprensivi genitori di Vanja scoprono cosa ha fatto il loro figlioletto, ma di romantico resta ben poco quando entrano in gioco i faccendieri armeni T’oros (Karen Karagulian) e Gařnik (Vače T’ovmasyan) e il loro sottoposto Igor (Jurik Borisov), incaricati di mettere le cose a posto prima dell’arrivo della coppia dalla Russia: da lì inizia infatti un film di Guy Ritchie, solo senza gangster londinesi e tipi uno più pazzo dell’altro ma con quel tocco di umanità in più.

Sean Baker ha ringraziato Quentin Tarantino in uno dei suoi discorsi sul palco degli Oscar, e non solo perché Madison l’ha scritturata senza nemmeno sapere di cosa avrebbe parlato il proprio film dopo averla vista in C’era una volta… a Hollywood: è evidente che lo stile e il ritmo delle pellicole di Tarantino hanno influenzato Baker (se ho tirato fuori il nome di Ritchie è perché, quando si sente in forma, probabilmente è l’emulo con più personalità propria sul campo), ma allo stesso tempo il regista di Anora riesce a metterci tanto del suo, portandoci in un mondo strano e indefinito in cui i gorilla sono sensibili (Borisov è perfetto nel proprio ruolo, spaesato eppure acuto nelle sue analisi), i faccendieri sembrano non sapere esattamente come fare il loro lavoro (se ve li state immaginando come sgherri mafiosi non avete ancora visto T’oros litigare in un locale con un gruppo di giovani che, a suo dire, hanno perso i bei valori di una volta, come un qualsiasi anziano) e Ani, lungi dall’essere spaventata dalla situazione in cui si ritrova catapultata, lotta con le unghie, con i denti e con i calci (letteralmente) per la legittimità del suo matrimonio, in equilibrio precario fra un amore che viene difficile immaginare così forte (innamorarsi in quindici giorni, sembra il titolo di un’altra commedia romantica) e un calcolo economico che maschera molto bene.

Mai sottovalutare l’amore e l’interesse economico di una donna

Madison è una forza della natura nel ruolo di Anora, e per quanto possa dispiacere per Demi Moore l’Oscar se lo è meritato tutto: è un contenitore di energia impossibile da fermare, viaggia al ritmo serrato del film e ogni tanto sembra quasi che il film faccia fatica a starle dietro. Se Anora funziona così bene è però merito di tutto, da un cast totalmente in palla (meritano una menzione, fra quelli non elencati in precedenza, almeno il gruppo di amic* di Vanja e Diamond, la collega stronza di Ani interpretata da Lindsey Normington) a una sceneggiatura e un montaggio che fanno volare il film senza che si perda un dettaglio (il battesimo! La mazza nel negozio di dolciumi!), tutto compresso in un film che dura due ore e passa come se ne durasse una e ti fa gridare ancora, ancora! Io gli altri film in concorso non li ho visti, e magari The brutalist e Conclave avevano le loro carte da spendere, ma sono stato tanto contento di leggere questo risultato agli Oscar il lunedì mattina e mi sento parzialmente rimborsato delle sconfitte di Martin McDonagh, uno che soprattutto con Gli spiriti dell’isola ha portato in gara un tono non da statuetta e infatti non l’ha vinta.

Forse fra dieci anni ci ricorderemo di Anora come ci ricordiamo di Crash – Contatto fisico, uno di quei film che vince e a distanza di tempo ti chiedi come abbia fatto, ma ora godiamoci Sean Baker e cavolo, andiamo a rovistare fra i film che ha fatto durante la sua lunga militanza nel cinema indipendente in attesa che diriga un Fast and furious a caso (pare sia davvero il suo sogno). È un film divertente, perfettamente calato nella sua ambientazione (Baker sul palco ha ringraziato anche le sex worker con cui ha parlato per mettere a punto la sceneggiatura), che ti lascia col fiato sospeso in attesa di un finale che temi di conoscere già ma speri comunque, contro ogni pronostico, di veder andare diversamente. Ho solo un appunto da fargli: caro Sean, quando metti un pad in mano a un attore assicurati che sappia almeno un minimo cosa sta facendo, perché vedere Vanja schiacciare tasti a caso mentre gioca online (cosa di cui non mi sono accorto solo io, anche se da questo articolo si scopre un interessante inside joke) è una stilettata al cuore di ogni videogiocatore che si rispetti.

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Racconto in musica 195: Saman (Ólafur Arnalds – Saman)

Vi ricordate di Björk? Sembra sparita dai radar, ma in realtà è semplicemente andata tanto avanti da lasciarsi indietro il pubblico mainstream e fare esattamente quel cazzo che vuole, cosa che mi sembra comunque facesse abbastanza anche quando il mondo (me compreso) si è accorto di lei e dell’Islanda. Nel 1994 Björk ha appena conosciuto il successo internazionale da solista e si appresta a spaccare tutto, e il governo islandese (presumo, ammetto di non essermi addentrato più di tanto in questa storia) le dà il compito di selezionare un tot di artist* per creare una raccolta musicale atta a celebrare il cinquantesimo anniversario dell’indipendenza islandese: fra quest* lei seleziona una canzone dei Victory Rose, che di lì a qualche anno diverranno piuttosto famosi anche loro col nome di Sigur Rós. Ora stacchiamo a qualche anno più tardi, al 2008 per la precisione, quando Björk continua a fregarsene delle mode e la stella dei Sigur Rós, ancora brillante, comincia a non passare più su Mtv perché il mercato ha un bisogno spasmodico di qualcos’altro: in questo periodo esce il primo disco di un pianista, anche lui islandese, che la band in parte lanciata da Björk decide di portarsi in tour, dandogli sicuramente una mano a mostrare il suo talento che, comunque, già non era sfuggito ai radar degli esperti di musica. Quel pianista e compositore è Ólafur Arnalds, e tutta questa bella storia di supporto fra musicist* islandesi è stata scovata nei meandri di Wikipedia solo per voi, amic* di Tremila Battute!

A far arrivare Arnalds su queste schermate invece è stata Giulia Mammana, foggiana classe 1989 nata da madre leccese e padre siciliano. Visto che i confini delle sue origini sono fin troppo stretti lei decide di allargarli, laureandosi prima alla University of St. Andrews per poi vivere da nomade fra Londra, Bruxelles, Milano e Cardiff. Appassionata di thriller e mistery novels, che divora famelicamente, Giulia ha lavorato come copywriter in tre lingue diverse e oggi scrive racconti e poesie sia in italiano che in inglese, come questo pubblicato a inizio mese su Liberi di scrivere.

Chi è invece Ólafur Arnalds? Di certo non uno di cui possiamo ripercorrere la carriera in maniera cronologica, non perché sia lunghissima ma perché è variegata, piena di scarti che allargano sempre più la sua sfera musicale pur lasciandola incentrata sull’amato piano. E dire che non era nemmeno lo strumento con cui ha iniziato, figuriamoci il genere: nel 2003 suona la batteria nella band hardcore metal Fighting Shit, inizia a suonarla anche nei metallosi Celestine (tuttora attivi) e, giusto per variare un po’, si avvicina al piano e alla composizione. Per qualche anno resta con i piedi in due staffe apparentemente distanti anni luce, registrando intro e due outro per l’album Antigone del 2004 degli Heaven Shall Burn (li ricordo per la violentissima sigla del programma Extreme South Punk su Radio Lupo Solitario, scusate momento amarcord), restando dietro le pelli nell’album d’esordio dei Celestine del 2008 (At the borders of arcadia, sei brani i cui titoli compongono la scritta “Despair and witness the ruin of God and me”) e lavorando al suo esordio solista che esce lo stesso anno ed è di… musica classica contemporanea. Eulogy for evolution, pubblicato dall’inglese Erased Tape Records che lo aveva messo sotto contratto l’anno prima, è l’ambizioso esperimento di un artista fuori dal comune che si prefissa di musicare il viaggio della vita, dal momento della nascita a quello della morte, affidandosi al suo piano, agli archi, a una spruzzata leggerissima di musica elettronica e alle sue emozioni senza dimenticare le proprie origini distorte, che emergono prepotenti in un frammento post metal nella traccia finale 3704/3837, frammento che si disintegra velocemente arrivando alla conclusione quasi come fosse un addio al proprio passato: da qui in avanti Arnalds è un altro, anzi molti altri.

Rimanendo fedele a una linea musicale che sta fra il pop e la musica classica, tendendo verso l’uno o verso l’altra a seconda dei casi, Arnalds non passa anno senza produrre qualcosa, che siano Ep, album, collaborazioni, colonne sonore o side project. Stabilire chi è significa scovare il filo che unisce gli esperimenti di Found songs (2009) e Living room songs (2011), composti da sette canzoni pubblicate inizialmente in maniera gratuita sul sito dell’etichetta al ritmo di un brano al giorno, i dischi in coppia col compagno di etichetta Nils Frahm, il duo elettronico Kiasmos formato con Janus Rasmussen, le rielaborazioni di brani di un certo Fryderyk Chopin nell’album del 2015 The Chopin project in collaborazione con la pianista Alice Sara Ott e l’incursione nella musica tradizionale islandese di Island songs (2016), sette brani per sette settimane registrati con musicisti locali, il tutto andando avanti e indietro senza pretese di completismo in una carriera che lo ha visto anche vincere un BAFTA per la colonna sonora della serie televisiva Broadchurch e includere un suo brano, A stutter, nelle soundtrack di due film agli antipodi come Taken 3 e Mia madre di Nanni Moretti. Ci piace pensare, in questo tourbillon musicale sempre uguale e sempre diverso in ogni iterazione, che ciò che spinge Arnalds in ogni progetto sia sempre la stessa motivazione, racchiusa in questa sua frase trovata sul sito Pianosolo: “La scena classica è un po’ chiusa per le persone che non hanno studiato musica per tutta la vita. Vorrei portare la mia influenza classica alle persone che di solito non ascoltano questo tipo di musica, per aprire le menti della gente”.

Non vi sarà sfuggito, se avete aperto il link soprastante, che lo spartito reso disponibile dallo stesso Arnalds inserito nell’articolo è quello di Saman, terza traccia del disco Re:member del 2018 uscito per Decca Records. Due minuti scarsi di leggiadria pianistica sporcati appena da scariche elettroniche lasciate a rotolare in sottofondo, un’atmosfera lieve e malinconica sulle cui note Giulia ha appoggiato le parole di una lettera, quella che una donna cerca di inviare alla sorella lontana per spiegarle la sua vita tramite grandi rivelazioni e piccoli accadimenti che forse sono più importanti del quadro generale. Potete leggere la storia di Saman ascoltando la canzone che porta il suo stesso nome un poco più in basso: a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero l* artist* accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Saman, di Giulia Mammana

Sorella,

Ci sono molte cose che devo dirti. Quando mi immagini indaffarata a raccogliere i piatti sporchi dai tavoli di un locale, immagini un’altra persona. La verità è che passo le mie giornate su un letto sformato, in un appartamento di cinquanta metri quadri di un quartiere residenziale un po’ fuori mano. Aspetto i clienti dalla mattina fino alle quattro del pomeriggio, e per tutto il tempo lascio che facciano quello che vogliono con il mio corpo mentre io penso alla spesa, alle altre commissioni da fare, alle pulizie di fine giornata. Non era così che immaginavo la mia vita, ma questo lavoro mi serve per pagare le bollette. Sono diventata troppo cinica?

So che avresti mille domande, che vorresti sapere perché te l’ho tenuto nascosto così a lungo. Ti chiedo pazienza, oggi voglio parlarti di qualcos’altro.

Ho incontrato un uomo. Faceva la fila alla cassa del supermercato sotto casa, da lì riuscivo a sentire il suo profumo, un’essenza di sandalo intensa che emanava dal suo collo. Aveva modi gentili con la cassiera, che scherzosamente chiamava ‘Ninè’.

“Hai solo quello, vuoi passare?” mi ha chiesto, indicando il pacco di crackers che avevo in mano.

“Grazie” ho risposto. Ci siamo guardati negli occhi per qualche secondo, senza che riuscissimo a distogliere lo sguardo. Che occhi, Maryam. Del colore delle foglie e della corteccia degli alberi.

“Non sei di qui, vero? Da dove vieni?” mi ha chiesto dopo, quando siamo usciti dal supermercato con i nostri sacchetti in mano.

“Dall’Iran”

“Che bel viso che hai”

Ho sentito le mie guance arrossarsi e una leggera fitta al petto.

Lavora al Centro d’Igiene di fronte casa, lo so perché lo vedo spesso uscire fuori a fumare. Mi affaccio dal balcone apposta per guardarlo. A volte l’ho visto intrattenersi con una collega bionda e mi ha preso come una morsa allo stomaco che non riuscivo a controllare.

La seconda volta l’ho incontrato una mattina al bar. “TI posso offrire un caffè?” mi ha chiesto. Ci siamo seduti a un tavolino che affaccia sulla strada e abbiamo parlato a lungo. Ho parlato anche di te, Maryam, dei tuoi sogni audaci da artista. Alla domanda “E tu, che sogni avevi?”, non ho saputo rispondere. Se lo chiedessero a te, sapresti cosa dire: che fantasticavo di sposare un uomo bellissimo e capace, che mi trattasse come una rosa delicata. Un sogno da bambina.

Poi, un giorno di pioggia, me lo sono trovato davanti alla porta di casa. Non ha detto una parola, mi ha solo mostrato il denaro. Si è spogliato con foga e abbiamo fatto sesso. Anche nell’urgenza, è stato gentile. “Posso rivederti?” mi ha chiesto dopo, prendendo una sigaretta dal pacchetto nuovo. Gli ho risposto: “Preferirei di no”. Non mi sono mai più affacciata dal balcone per guardarlo fumare.

Saman rilegge la lunga bozza di messaggio, impressa sullo schermo del cellulare. L’ha scritta nel corpo di un’e-mail, indirizzata a nessuno. Fissa lo schermo per qualche minuto. Forse la invierà un altro giorno, forse.

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Musica per organi cibernetici: Whatever, disco breve dei God Of The Basement

Sono sicuro che le mie orecchie avevano già incontrato i God Of The Basement in precedenza. Il loro nome, il mix electrorock che caratterizza la loro musica, tutto questo mi risuona nel cervello senza che però riesca ad arrivare alla fonte originale di questa visione sonora. Probabilmente non era scattata la scintilla, chissà se per l’idioma visto che fino allo scorso album la band, attiva dal 2016, prediligeva l’inglese per esprimere i propri concetti: Whatever, disco breve, uscito per il collettivo Stock-a Production il 7 febbraio, rappresenta invece il primo episodio in italiano, un passaggio che mi ha attirato e ha fatto fare al mio cervello il “clic” necessario a dare ai nove brani del disco tutta l’attenzione necessaria.

Dopo una breve Intro a base di gracidii elettronici e introduzione, nomen omen, del ritmo del brano che la seguirà veniamo gettati direttamente fra le braccia di Bivio, una corsa spezzettata di sample elettronici su cui la drum machine e la batteria percussiva di Alessio Giusti picchiano martellanti mentre la voce di Tommaso Tiranno salmodia in continuazione una libera riflessione sul rapporto complicato col divino, deviando, degenerando, avvicinandosi nella sua forma mutevole alle cose più sperimentali del Giovanni Succi solista e chissà che non sia stato questo elemento a farmi alzare un orecchio e dire “ah però, qui c’è trippa per gatti” (vetusto termine che magari si usa solo dalle mie parti per dire che l’interesse sembra ben riposto).

La musica dei God Of The Basement è un incubo per luddisti, un rullo meccatronico che avanza ignaro di tutto, la ripetitività come suo mantra ritmico, l’industria come base del suo suono. Anche basso e chitarra vengono trasfigurati in un processo che impaluda il primo fino a renderne quasi indistinguibili le note e trasforma in un mostro sferragliante la seconda in una maniera che renderebbe forse orgoglioso il primo Trent Reznor . Al mood imperante e ansiogeno si adegua anche la voce con testi sovrabbondanti, un mare di parole di cui a volte si perde il significato a causa di un mix che privilegia l’esperienza al senso, lasciando il cantato spesso a sgomitare con gli strumenti pur con le dovute eccezioni: basta ascoltare Acqua alla gola per trovare rimandi al dramma dei migranti, suggestioni su cui rimuginare più che critiche aperte, ma anche in Misera la musica lascia inizialmente più spazio alle parole, salvo comprimerle sempre più fra le distorsioni mentre Tiranno continua ad esclamare “questa sera è una sera del cazzo”.

Pur guardando al futuro Whatever, disco breve ha forti legami con gli anni 90. Certo l’industrial, riconoscibilissimo nella chitarra monocorde e ossessiva di Enrico Giannini che invade il ritmo da marcietta militare in Delirio, ma anche il dub/trip hop di cui si avvertono echi in Serpe al suolo ed è eseguito come da lezione (forse fin troppo aderente al canone) nella liquida Ogni cosa ha già il suo nome, dove il basso di Rebecca Lena ha modo di mostrare tutte le sue qualità.

Così descritto sembrerebbe un disco freddo quello dei God Of The Basement, ma non è così: c’è un’ironia di fondo che traspare dal gusto per i giochi di parole all’interno dei testi, a cui va aggiunta l’attitudine a non prendersi sul serio che può avere solo chi pensa un Intermezzo che si apre con voci bislacche che sembrano provenire dai peggiori bar di provincia e chiude con il pastiche lo-fi di Agata della pietà, in cui la gioia e la luce possono finalmente entrare, guarda un po’, nell’unica canzone in inglese del disco, lasciando poi che gracidii sonori chiudano il cerchio in previsione di un nuovo inizio. Non è un disco perfetto Whatever, disco breve, e come da titolo non dura nemmeno troppo, ma di sicuro questi nove brani non passano inosservati.

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Racconto in musica 194: Cuore di vetro (Lamante – Ed è proprio così)

Fra i mille articoli che vorrei scrivere e non scrivo (ho bigiato anche questa settimana, perdonatemi) ce n’è uno sulle canzoni che mi fanno piangere. Non ne farò un elenco ora, anche perché se no mi gioco l’articolo, ma almeno un paio di esempi li posso fare (forse uno l’ho fatto anche a corollario di questo racconto): il momento in cui Mladic dei Godspeed You! Black Emperor si oscura dopo un quarto d’ora di musica e il lungo sfogo finale di Sensitivo dei purtroppo da lungo tempo disciolti Kaleidoscopic. In una riconosco l’abilità inarrivabile dei GY!BE di costruire emozioni (uno dei brani che comporrebbero l’articolo è degli A Silver Mt. Zion, cioè più o meno le stesse persone che fanno qualcosa di simile ma cantando anche), nell’altra la capacità di tirare fuori tutta la propria anima a colpi di urla. A volte però non è così immediato capire cosa mi tocca, anche se alcuni di questi elementi possono essere presenti: perché quel modo di essere veri nel proprio sfogarsi c’è totalmente anche in quel “ti mangio” che Lamante urla a un certo punto in Non chiamarmi bella, e forse è proprio la semplice connessione con ciò che vuole esprimere che a me fa venire i lacrimoni agli occhi quando la sento. E toh, guarda un po’ (non l’avreste mai detto dal titolo, eh?), è proprio Lamante l’ospite musicale di questa settimana!

A permettermi di parlare di lei è Barbara Rendina, torinese classe 1980 tuttora residente nel capoluogo piemontese con la sua famiglia. Laureata in Lettere Moderne e in Scienze della formazione primaria, Barbara lavora come insegnante e nel tempo libero ama nuotare, cantare accompagnandosi (male) con la chitarra (da pessimo chitarrista che sa giusto fare quattro canzoni in croce riuscendo anche a cantare quasi la invidio) e perdere tempo… almeno quando non scrive, passione nata come esigenza personale e che l’ha portata negli anni a scoprire la bellezza insita nella fatica che comporta questa attività. In anni recenti ha pubblicato alcuni racconti in raccolte varie, noi coi nostri potenti (?!?) mezzi siamo riusciti a trovarne uno pubblicato da Racconticon che nel titolo, neanche a farlo apposta, richiama proprio una bella canzone.

La discografia di Lamante, all’anagrafe Giorgia Pietribiasi, è composta da un solo album, ma già è bastato a metterla sotto i riflettori: a farla finire sotto i nostri è stata la curiosità derivata dal primo posto nella classifica di fine anno di Rockit, con cui non sempre concordiamo ma che ci dà spesso modo di scoprire la musica di artist* che, usando una frase che in contesto sanremese è stata largamente utilizzata nell’ultima settimana, non avevamo visto arrivare. Nata nel 1999 a Schio, in provincia di Vicenza, a Pietribiasi il padre cerca di mettere una chitarra in mano già a sei anni ma è lei a decidere quando imbracciarla, segno di un rapporto con la musica che vuole essere personale e indipendente. Indipendente anche nel senso più stretto che noi diamo a questa parola, perché in questo articolo apparso su Rolling Stone in occasione dell’uscita del disco d’esordio accenna a come si addormentava da piccola sulle note dei CCCP e alla reazione viscerale avuta al suo primo concerto, i Massimo Volume (a nove anni, scopro in questa intervista: tanta invidia, io ho dovuto aspettare oltre i diciotto anni per andare a vedere i Punkreas): parla anche di tante altre cose, del nonno con cui ha abitato fino ai sette anni nei campi a tirar su patate e mungere vacche, di una zia morta di overdose prima che lei nascesse e di cui in famiglia non si parlava, dell’incontro con il produttore Taketo Gohara che la scopre tramite una preproduzione fatta con cuffiette e Garageband e decide insieme ad Andrea Rodini, che già lavorava con Pietribiasi, di produrre con lei i brani che comporranno In memoria di, uscito a maggio 2024 per Artist First.

Che dire del disco? Pietribiasi afferma di avere concentrato venticinque anni di vita in questi undici brani (scelti fra più di cento che aveva), e la sua biografia entra sicuramente all’interno dei testi che però non spiegano dettagliatamente, creano un’atmosfera con le note che è ora delicata (Prima di te), ora incazzata (Non chiamarmi bella), spesso un mix delle due cose perché come condensi in un solo stato d’animo una vita che in soli ventiquattro anni l’ha vista andarsene di casa a sedici anni, trasferirsi a Milano in tempo per trovarci una pandemia, tornare a Schio, iniziare lì a scrivere e registrare un disco per ritrovarsi poi, perché questo non lo poteva sapere mentre In memoria di nasceva, ad aprire il concerto al Flowers Festival di Collegno di quei CCCP con cui si addormentava da piccola (qui una testimonianza diretta di quell’esperienza)? Al fianco delle parole con cui esprime la sua memoria e in particolare quella delle donne della famiglia (riprendendo le sue parole dall’articolo di Rolling Stone: “Questa violenza degli uomini, questo voler fare la storia delle donne della mia famiglia si è propagata generazione dopo generazione fino a me. Per me è molto importante quest’album, perché qui finalmente sono le donne a parlare”) anche la musica si fa eterogenea, cantautorato scarno basato principalmente su voce e chitarra in brani come Ed è proprio così e potenza rock trattenuta fino a farne percepire la tensione sottopelle in Rossetto, il tutto coadiuvato da una efficacissima sezione fatti che riesce a rendere tutto migliore (ma ammetto che quando si parla di fiati sono assolutamente di parte). Da questi undici brani sono nate tante cose, un tour che non è ancora finito ad oggi, tante collaborazioni con Levante, Delicatoni e Paolo Benvegnù, il premio di Rockol come Miglior artista emergente 2024 (che, giusto per essere completisti, si somma al secondo posto del Rock Contest 2022 di Controradio e al premio NUOVOIMAIE 2023 di Musicultura, quest’ultimo conseguito col brano L’ultimo piano) e di sicuro ci staremo dimenticando qualcosa, così come ci siamo dimenticati di approfondire quel moniker, Lamante. Lo facciamo qui, riprendendo le sue parole da un’intervista su YouTube con il giornale online Musica 361: “Lamante, in francese, vuol dire mantide religiosa, una figura, un concetto di potenza femminile per me molto forte e che mi appartiene molto. Un altro significato è quello che nelle relazioni l’amante è quella terza figura che si prende sia il meglio che il peggio, nel senso che non ha alcuna responsabilità però non può nemmeno viversi una relazione a pieno, e io molte volte ho avuto questo rapporto con il mondo in generale. E poi l’assenza di apostrofo per me rappresenta anche l’unione di quello che per me è l’amore, che è stato sempre un rapporto molto travagliato, per me casa ha sempre significato inferno e quindi mi chiedo cosa vuol dire per me l’amore se casa vuol dire questo; e quindi l’assenza di apostrofo è per unire questi concetti”.

Ed è proprio così è la quinta traccia di In memoria di, un brano che nella leggerezza della sua atmosfera racchiude tutta la complicatezza di un amore che sfiorisce e la difficoltà che comporta restare sol*. Il racconto di Barbara, nato in realtà sulla base di un’altra canzone (traducete il titolo in inglese se volete un indizio), ci è sembrato sposarsi bene con le parole di Pietribiasi: la solitudine che spinge il protagonista del racconto sempre nello stesso bar, anelando di riuscire a parlare prima o poi con la cameriera, è emblematico di una difficoltà di comunicazione universale che da sempre ci coglie quando cerchiamo di esprimere quel sentimento strano e al tempo stesso basilare che chiamiamo amore. Potete scoprire più in basso se questa storia avrà un lieto fine o meno, non prima di aver ascoltato il brano a cui abbiamo deciso di associarlo, mentre a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero l* artist* accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Cuore di vetro, di Barbara Rendina

La guardava come ogni giovedì sera da quattro mesi a quella parte, seduto a un angolo del bancone, mentre lei, indaffarata, passava senza sosta da un tavolo all’altro, cercando di accontentare tutti i clienti. I capelli raccolti, il grembiule stretto in vita e quel modo tutto suo di prendere le ordinazioni sul taccuino: era per lei che frequentava quel locale, sedendosi sempre sullo stesso sgabello, ripromettendosi invano di parlarle. Qualche volta gli era parso di cogliere uno sguardo prolungato nella sua direzione, a cui lui aveva risposto con un sorriso.

Dopo aver sorseggiato la birra si alzò per andare in bagno e, nel tornare verso il bancone, se la ritrovò davanti. Per un attimo furono faccia a faccia.

Lui sussultò. «Mi scusi», disse a voce bassa.

«Si figuri», rispose lei sorridendo.

Lui aprì la bocca per parlare ancora, senza sapere cosa dire, ma lei fu più veloce: «È la prima volta che viene qui da noi?», chiese.

La guardò, come se davvero fosse la prima volta, poi rispose. «Sì», disse, abbassando la testa.

«Per i clienti nuovi, abbiamo una tessera fedeltà, ogni dieci consumazioni ce n’è una gratis», rispose lei sorridendo, come se fosse un nastro registrato.

Lui bofonchiò un grazie quando era già troppo lontana per sentirlo, poi raggiunse il bancone ancora frastornato, inciampando nella giaccia di un uomo seduto a un tavolo.

«E stai più attento», disse il tizio.

«Mi spiace», rispose lui impacciato.

Abbassò gli occhi. La giacca appena calpestata era di un arancione sgargiante. Pensò che sarebbe stato bello, anziché i suoi jeans e felpa anonimi, avere addosso qualcosa che lo rendesse visibile.

Finì la birra più in fretta del solito, gettò ancora una rapida occhiata verso la cameriera, poi lasciò i soldi sul bancone e, prima di andarsene, fece scivolare il bicchiere vuoto nella tasca della giacca. Percorse quasi di corsa la strada fino a casa, aprì la porta e andò in camera da letto. Tirò fuori il bicchiere, appoggiandolo sul pavimento. Si sedette sul letto, poi lo afferrò nuovamente e lo osservò per qualche minuto: sulle sue pareti lisce, visibili soltanto a un occhio attento, custodiva, tra i residui di schiuma, le impronte delle dita della cameriera. Inspirando, lo strinse al petto. Lasciarsi toccare dal vetro era l’unico modo per raggiungerla.

Ma ancora non era abbastanza.

Scagliò il bicchiere a terra, tolse le scarpe e si lasciò graffiare le piante dei piedi dai frammenti sparsi sul pavimento. Prima le schegge lo punsero appena, quasi accarezzandolo, poi lui premette più forte e il sangue iniziò a macchiare la spugna bianca dei calzini.

Guardò ancora quei piccoli pezzi finché, zoppicando, andò a prendere la scopa e li accumulò nella paletta. Poi raggiunse l’armadietto dei medicinali e tirò fuori il disinfettante.

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Racconto in musica 193: La figlia del pastore (Ethel Cain – Ptolemaea)

Ogni epoca ha le sue ricette per il successo nel mondo musicale, più o meno funzionanti, e io, che non sono capace di capire ciò che funziona da ciò che non funziona nemmeno di fronte a un tostapane rotto, ovviamente non sono capace di parlarvene. Nel mio mondo fatato in cui le cose funzionano per magia (tipo gli aerei) i calcoli sono qualcosa di prescindibile, le formule non servono: al massimo riesco a ipotizzare che per fare successo negli anni ’80 servisse assolutamente stuprare la batteria fino a farne assomigliare il suono a quello di una serie di fustini di detersivo, o che negli anni ’90 c’è stato un brevissimo periodo in cui se facevi finta di vestirti male, non lavarti i capelli (sempre per finta) e grattavi un po’ la voce sotto chitarroni distorti potevi avere il tuo momento di gloria nel fantastico mondo del post-grunge, una delle più grandi illusioni collettive di proseguimento di un movimento nato dal basso.

Se c’è una cosa però che mi hanno insegnato l’ascolto di Radio Deejay al mattino e la convivenza con una capa comunicazione è che Tik Tok è un formidabile mezzo per ficcare la tua musica nelle orecchie di tutt*, pure di chi Tik Tok non ce l’ha, a patto che la tua canzone duri poco e abbia un qualche punto estremamente invasivo e altrettanto breve che si associ bene a un balletto o a qualche contenuto che comunque richieda un’attenzione limitata (tipo una bambina che urla alla luna, mia nuova scoperta sui social e appiccicosa come manco le bestemmie vintage di Germano Mosconi). Quindi ci aspetta un’epoca di canzoni brevissime fatte di momenti ancora più brevi costruiti per essere estremamente invasivi per il cervello? Non bastava Sanremo, che tipo io ho in testa per motivi fuori da ogni logica del mio cervello la canzone di Marcella Bella?

Forte. Tosta. Indipendente (non nel senso della musica)

Nì. Perché le formule, per chi le sa usare e chi le sa ideare, funzionano di sicuro, altrimenti Petrella e Simonetta non avrebbero scritto un terzo delle canzoni del Festival di Sanremo (arieccoci), ma poi per fortuna viene fuori sempre qualcun* che ti fa vedere che il talento, comunque necessario, lo puoi anche veicolare in territori che secondo le logiche del mercato non dovrebbero funzionare: tipo Ethel Cain, che in un’epoca che dovrebbe essere adatta al fast food musicale convince tutta la critica con un disco oscuro, denso e dilatato che dura più di un’ora e ha metà dei pezzi che durano oltre i dieci minuti.

A donarmi più fiducia in un mondo che bacia col suo plauso anche chi non sottostà alle regole stringenti del mercato è stato Achille Monteforte, che Ethel Cain me l’ha fatta scoprire grazie al suo racconto. Classe 1992, cosentino di nascita e milanese d’adozione, Achille è un creativo e designer della comunicazione. Nel 2015 ha pubblicato la raccolta di poesie illustrate Umani (Altrimedia Edizioni), ma la scrittura è ritornata prepotente nella sua vita dal 2023, attraverso racconti multigenere pubblicati su riviste e in raccolte antologiche di Einaudi Ragazzi, Edizioni Della Sera, Il Lettore Di Fantasia e Storie Bizzarre. Dal 2025 fa parte del consiglio direttivo di Dracones, l’Associazione per la scrittura fantasy in Italia, e siamo ben lieti di dire che fa parte anche del novero di autor* della nostra aspirante rivista!

La carriera di Ethel Cain è una di quelle che sembra baciata dal successo qualunque cosa faccia e in qualunque modo la faccia. Certo, non stiamo parlando del successo di Taylor Swift, ma mettendo le cose in prospettiva neanche Swift riempirebbe gli stadi con le scelte di carriera fatte da Cain, cantautrice classe 1998 che di vero nome fa Hayden Silas Anhedönia. Cresciuta in una piccola città della Florida all’interno della comunità battista, di cui il padre era diacono, l’avvicinamento alla musica di Cain avviene proprio tramite il coro della chiesa per poi proseguire, già all’età di otto anni, con lo studio di pianoforte e musica classica. Bisogna però aspettare il 2017 per cominciare ad ascoltare qualcosa di suo, sperimentazioni con l’applicazione GarageBand che avvengono dopo un lungo periodo in cui si forma la sua personalità: a dodici anni si dichiara gay di fronte alla famiglia, lascia la chiesa a sedici e successivamente si identifica come donna transgender bisessuale, il tutto mantenendo un rapporto personale con la spiritualità che è parte integrante della forza della sua musica. Il suo primo singolo Bruises è del 2019, pubblicato già con lo pseudonimo di Ethel Cain, ed è abbastanza per attirare l’attenzione dell’artista canadese Nicole Dollanger, che la contatta e le fa aprire un suo concerto a Chicago: nel frattempo Cain fa uscire, a distanza di pochi mesi, gli Ep autoprodotti (distribuiti sotto l’egida della propria etichetta Daughters Of Cain) Carpet bed e Golden age, in cui si comincia a delineare il suo stile fatto di atmosfere eteree e dilatate, un connubio particolare fra folk e indie à la Lana Del Rey in cui la voce di Cain spicca melodiosa.

Il salto successivo lo deve al rapper Lil Aaron, che dopo aver scoperto la sua musica nel gennaio 2020 la spinge a prendere appuntamento con la propria etichetta Prescription Songs. Cain sottoscrive un contratto e si trasferisce in una chiesa ristrutturata in Indiana, fedele al mondo religioso/spirituale che permea la sua musica: il risultato delle sessioni di registrazioni è l’Ep Inbred (2021), a cui partecipa anche lo stesso Lil Aaron, sei brani dalla produzione più curata che sembrano portare Cain in una direzione folk-pop più classica nonostante gli scarti laterali esemplificati da God’s Country, canzone di otto minuti in cui la cantautrice duetta con il musicista elettronico Wicca Phase Springs Eternal. Passa solo un anno prima del primo album ufficiale, ma a sorpresa esce per la propria etichetta: Preacher’s daughter torna in maniera più convinta alle atmosfere dei primi brani, piazza senza problemi una durata generale delle canzoni intorno ai cinque minuti (spesso sopra piuttosto che sotto) e, al netto del terzo singolo American teenager che ha un sapore smaccatamente più pop (ma un testo apertamente critico verso il patriottismo e la cultura delle armi negli USA, tanto che l’artista stessa si stupirà di vederlo nella playlist dei brani preferiti a fine anno dell’ex Presidente Obama). in generale non fa niente per essere più accomodante verso un pubblico generalista: la sua è una musica morbida, avvolgente, in cui asperità come l’oscura Ptolemaea o la breve parentesi pianistica di Televangelism fanno parte di un’esperienza che richiede tempo e attenzione, non approcci mordi e fuggi. Il primo disco di Cain, che lei fa rientrare in una ipotetica trilogia di là da venire all’interno del “Ethel Cain Cinematic Universe” (dichiaratamente autistica, Cain ha un approccio verso l’arte molto sinestetico e afferma di vedere la musica mentre la compone, e all’interno del disco è il suo stesso moniker di cui seguiamo le vicende), è un successo che la proietta fra festival statunitensi e internazionali (Coachella, Reading e Leeds) e sul palco dei Florence And The Machine, di cui apre un concerto a Denver: lei stessa parte ovviamente in tour, ben tre volte, e nel frattempo nella sua testa pensa già probabilmente al nuovo disco che, però, non farà parte della trilogia. Quello che Cain ha in mente, fra un singolo (Famous last words) ispirato al film Bones and all di Luca Guadagnino, uno (من النهر) dedicato al popolo palestinese, la partecipazione a una compilation tributo agli American Football, campagne da modella per Givenchy, Miu Miu e Marc Jacobs e controverse dichiarazioni politiche (Cain ha attaccato in maniera piuttosto brutale l’ex Presidente Biden per il suo obiettivamente discutibile supporto alla guerra in Palestina, e successivamente all’omicidio del CEO di un’assicurazione medica multimilionaria Brian Thompson si è apertamente schierata dalla parte del sospetto assassino, adottando su Instagram l’hashtag #KillMoreCeos), è un album che nessuno si aspetta.

Perverts è uscito a inizio 2025 e, al primo ascolto, mi è sembrata la tipica mossa di chi del successo può fare tranquillamente a meno, ma non della propria libertà artistica. Nove brani espansi in un’ora e mezza quasi di musica in cui la dilatazione si fa ancora più eccessiva e le atmosfere, da eteree che erano, si fanno funeree, inquietanti, oscillanti fra un’ambient hauntologica (Onanist ricorda i Boards Of Canada filtrati attraverso un incubo notturno) e un post-industrial oppressivo che in episodi come la raggelante Houseofpsychoticwomn ipnotizzano attraverso suoni che fanno della reiterazione ossessiva la loro ragion d’essere e i vocalizzi distanti di Cain… il tutto per tredici minuti abbondanti. Cain non considera Perverts un album, ma non ha nemmeno specificato come dovremmo inserirlo all’interno del suo cammino artistico: approcciatelo con attenzione, pronti alle asperità minacciose di brani come Pulldrone (quindici minuti introdotti unicamente dalla voce salmodiante di Cain che lascia poi spazio a un’infinita coda di drone music minimale e minacciosa), ma mentre lo ascoltate ringraziate che il mondo della musica funziona anche così, attraverso potenziali suicidi artistici che ricevono l’unanime plauso della critica musicale (Trump invece non penso la inserirà fra i suoi ascolti).

Ptolemaea è la nona traccia di Preacher’s daughter, e l’abbiamo già menzionata più in alto. All’interno di un disco musicalmente arioso arriva come un’ombra inquietante, illuminata solo in alcuni punti dalla voce angelica di Cain: proprio un’ombra perseguita la protagonista del racconto, in fuga da immagini violente fatte di sangue e mosche, e Achille cuce sapientemente in un’atmosfera decadente fra il bucolico e il sacrilego la sua vicenda di crescita attraverso il trauma. Potete leggere la storia subito dopo il brano che l’ha ispirata, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

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La figlia del pastore, di Achille Monteforte

Un freddo umido infestava l’aria e i polmoni della figlia del pastore. Il suo cuore affamato non le dava tregua. Le chiedeva di affilare lo sguardo, di andare oltre l’angoscia che le opprimeva il petto. La pregava di ignorare la sete di sangue degli insetti che brulicavano sulle macchie della tunica.
La figlia del pastore temeva che l’ombra l’avrebbe trovata da un momento all’altro. L’incubo le si era insinuato sotto pelle dopo aver abbandonato il corpo del pastore assalito dalle mosche. Era scappata nel bosco senza voltarsi, convinta che prima o poi avrebbe trovato un riparo.
Arrivò all’abbazia prima del tramonto, col fiato corto e le mani ancora tremanti. Spalancò la porta senza lucchetto, il cigolio dei cardini rimbombò nel silenzio.
Dentro, il buio colmava ogni spazio.
Si inginocchiò all’altare, stremata, sopraffatta dalle immagini del pastore nel granaio. Il suo colletto bianco macchiato di rosso. La Bibbia stracciata nella mangiatoia. La croce sul muro che sembrava al rovescio quando giacevano insieme sulla paglia.
Un freddo improvviso la costrinse ad aprire gli occhi.
La vide sulla soglia, abbastanza vicina da distinguerne la bocca distorta dal dolore. Il volto così simile al suo, le stesse cicatrici, lo stesso sguardo da cui l’infanzia era fuggita troppo presto.
D’istinto, urlò. L’ombra non aspettava altro. Sorrise, uno squarcio di bianco sul nero, e fluttuò verso di lei. Porse una mano con il palmo verso l’alto.
La ragazza arretrò, ogni passo un tormento.
Per porre fine allo strazio, tese il braccio per stringerla. Sentì un bruciore che si prolungò su tutto il corpo per un istante che le sembrò l’eternità.
Poi, tutto svanì. La paura, l’ombra, le immagini del corpo del pastore aperto dal coltello.
Era sola, nel buio. Questa volta la croce sul muro non sembrava al rovescio. Tentò di pronunciare il proprio nome, ma dalla bocca uscì solo un sussurro cristallizzato.
Si allontanò dall’altare, lasciandosi alle spalle l’abbazia silenziosa.
Nella notte, la strada appariva trasfigurata. Gli alberi, cariati dal muschio, si inchinavano come in segno di rispetto, i loro rami si allungavano sulle pietre, tracciando un sentiero che prima non c’era. Il suo.
Aveva toccato l’ombra, e l’ombra le aveva sussurrato chi era.
Ethel, mai più la figlia del pastore.

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Qualche domanda sulla scrittura, parte uno: Francesca Mattei e Sergio Oricci

Tremila Battute compie cinque anni! Come festeggiare? Un grande regalo di compleanno ce lo ha fatto il Circolo Masada, che fino a giugno ci ospiterà una volta al mese per parlare con autor* della rivista delle loro pubblicazioni, dei loro racconti e, ovviamente, di musica e letteratura (tenete d’occhio la pagina Facebook per essere aggiornat* sul calendario): un altro abbiamo deciso di farcelo/farvelo contattando autori e autrici che qui apprezziamo un sacco, facendo loro alcune domande che ci ronzavano in testa da un po’ riguardo al loro rapporto con la letteratura, con la scrittura e con tutto ciò che gira intorno all’ispirazione, al metodo e al modo in cui scrivono coloro di cui abbiamo adorato i libri.

Per questo primo appuntamento abbiamo contattato Francesca Mattei e Sergio Oricci, che hanno gentilmente risposto ai nostri quesiti.

Da quanto scrivi?

FM – Scrivo da circa sei anni in modo non molto regolare. In alcuni periodi ho scritto tutti i giorni, nell’ultimo anno invece molto poco.

SO – Ho iniziato a scrivere più o meno nel 2011, intorno ai 29 anni. Non ero spinto da motivazioni particolari; ho provato a farlo, come avevo provato a fare altre cose prima, per vedere cosa ne sarebbe venuto fuori. Quattordici anni dopo sto ancora scrivendo, e il modo in cui la scrittura si è presa a poco a poco spazio e tempo è una delle cose più sorprendenti che mi siano capitate.

Quando hai pensato la prima volta “sono brav* a fare questa cosa”?

FM – La risposta sincera è che non lo so, non me lo sono mai chiesta, quindi non riesco a risalire a un momento in cui ho fatto questo pensiero, perché non l’ho mai fatto. Non perché non creda di essere brava, molte delle cose che ho scritto mi piacciono, ma perché proprio non mi sono mai concentrata su questo punto. Poi si può essere “bravi” nello scrivere qualcosa il cui risultato ci soddisfa e “non bravi” nello scrivere qualcosa che poi risulta meno bello (a te che lo scrivi, intendo). Quindi forse essere “bravi” non è una condizione.

SO – Sicuramente l’ho pensato in più occasioni, non ricordo la prima, e a volte lo penso ancora, ma si tratta di impulsi direi irrazionali, non di qualcosa di cui sono effettivamente convinto. Non mi interessa essere bravo, o in ogni caso non penso alla scrittura in questi termini; quello che mi interessa è scrivere come voglio e avere gli strumenti per farlo. Mi capita di pensare con più convinzione “questa cosa che ho scritto è venuta bene”; non ricordo con precisione la prima volta ma potrebbe essere successo nel 2018 dopo aver scritto un racconto intitolato Volevo essere Vincent Gallo, il primo racconto in cui ho giocato un po’ con il montaggio e con la costruzione.

Hai un metodo di scrittura?

FM – No, per niente! Non essendo la mia principale occupazione, né desiderando che lo sia, non ho mai pensato di crearmi un metodo. Qualora dovessi averne bisogno forse ci penserei. L’unica cosa fissa nei miei testi è il Times New Roman 12 testo giustificato.

SO – Ho una sorta di metodo, nel senso che da qualche anno lavoro ai testi più o meno sempre nello stesso modo: dopo aver trovato l’idea centrale, cerco di capire quale lingua usare e in quale struttura far muovere la storia, e spesso inserisco almeno una difficoltà, qualcosa che non faccio spesso, per provare ad avere in futuro uno strumento in più. Di solito riscrivo più volte il primo capitolo o i primi capitoli, per trovare una certa frequenza, un certo ritmo. Una volta stabiliti questi elementi per me fondamentali, lingua e struttura, e aver finito con i primi capitoli, semplicemente continuo a scrivere restando sempre in ascolto di possibili deviazioni che potrebbero anche modificare molto l’idea di partenza durante il processo.

Ti è capitato di avere il blocco dell* scrittor* e/o pensare “non ho più un cazzo da dire”?

FM – Non proprio, anche se non ho scritto per lunghi periodi, ma non sento la pressione di scrivere, quindi per me direi che non esiste il blocco dello scrittore, ecco. Avere e non avere qualcosa da dire è un argomento interessante. Tutti hanno qualcosa da dire, quindi immagino anche io, ma non sempre riusciamo a dirlo nel modo più “fedele” possibile.

SO – Non mi è ancora successo; senza dubbio prima di stancarmi di scrivere mi stancherò di pubblicare.

Hai una bacheca dei rifiuti modello Stephen King? Se sì (o se no e hai una buona memoria) quanti ne hai ricevuti?

FM – Se ci avessi pensato li avrei raccolti. Quando ho cominciato a proporre i miei testi a delle riviste letterarie, alcuni sono stati rifiutati. Purtroppo non ricordo quali e quanti, però obiettivamente quei racconti non erano un granché.

SO – Non conservo i rifiuti e neanche le risposte positive. Non sono affezionato né ai primi né alle seconde. Di rifiuti espliciti ne ho ricevuti pochi, forse una decina, quasi nessuno ne manda più, ma ho ricevuto molti silenzi, non saprei dire quanti.

Quale autor* quando lo leggi ti fa pensare “ecco, io non sarò mai così brav*”?

FM – Purtroppo non so rispondere neanche a questa domanda. Non vedo la scrittura, soprattutto la mia, in modo prestazionale. Non lo dico per retorica, se fosse il mio lavoro probabilmente ragionerei in questi termini, cercherei cioè di migliorarmi e scriverei in modo forse più progettuale. Ci sono tanti autori e tante autrici molto molto più bravi/e di me. Posso pensare a quelli che sono i viventi italiani che preferisco, tra i nomi più o meno noti, come Paolo Nori, Ferruccio Mazzanti, Beatrice Alemagna, Nadia Terranova.

SO – Nessuno.

Qual è il testo che hai pubblicato su rivista, o che magari non hai mai neanche pubblicato, di cui sei più orgoglios*?

FM – Mi piace molto “Trappola” che uscì su Narrandom e poi fu inserito, leggermente modificato, nella raccolta di racconti “Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa”. Tra quelli più recenti mi piace un racconto uscito su Lay0ut che si intitola “Papaveri”. Parlano entrambi della mia città, quindi ci sono legata.

SO – Tendo a liberarmi abbastanza presto delle cose che pubblico, e in generale non mi pare di aver pubblicato su rivista cose a cui sono rimasto particolarmente legato. I testi che sono più felice di aver pubblicato su rivista sono testi che non ho scritto io. Curo uno spazio online, Clean, in cui pubblico testi di altri; sono quelli i testi su rivista di cui sono più orgoglioso.


Francesca Mattei ha esordito con Pidgin Edizioni con la raccolta di racconti “Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa” (finalista premio “POP” e premio “John Fante”). Suoi testi sono apparsi su diverse riviste (Verde rivista, Narrandom, Malgrado le Mosche ed altre) e antologie tra le quali “Vite sottopelle. Racconti sull’identità” (Tuga Edizioni), “Human/” (MoscaBianca Edizioni), “Cloris” (Pidgin Edizioni). Ha preso parte a “È giusto che finisca così”, primo volume della “Trilogia della vertigine”, edito da CTRL Magazine, che raccoglie undici reportage narrativi e un reportage fotografico. Nel novembre 2022 è uscita la sua novella “Gli stessi occhi”, nella collana 42 Nodi per Zona 42. Nel 2024 ha partecipato all’antologia “L’ora senza ombre” curata da Pidgin edizioni e In allarmata radura con un saggio personale intitolato “Le radici e le ali”.


Sergio Oricci (Fiesole, 1982) vive a Cluj-Napoca, in Romania, dove lavora come traduttore. Alcuni suoi testi sono apparsi su riviste come GAMMM, ‘tina, Nazione Indiana. Ha pubblicato la raccolta di racconti Volevo essere Vincent Gallo (Pidgin Edizioni) e i romanzi La casa viola (Castelvecchi) e Materia Prima (Transeuropa). Ha fondato la rivista Clean.

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Racconto in musica 192: Momenti fluidi (Fat Dog – King of the slugs)

Voi siete mai stati a un rave? Io no. Ne ho letto, ne ho scritto senza alcuna base legittima se non racconti di amici e la conoscenza di una fabbrica dismessa del mio paesello dove ne hanno organizzato uno (fabbrica dove ho lavorato e dove sono andato, quando era già abbandonata da anni, a fare foto con una mia vecchia band per un disco che non abbiamo mai realizzato), ne ho sentito i bassi da lontano quando, per puro caso, mi sono trovato nella stessa zona del famoso rave vicino a Viterbo dove si sono inventati che c’erano cani morti sotto al sole (agosto 2021) e sono stato fra quelli che ha alzato gli occhi al cielo quando, nell’autunno 2022, l’attuale governo ha deciso che quello era il problema più pressante del paese, varando una legge che è stata talmente modificata da risultare quasi inutile (con la quale ha anche annullato, senza alcun nesso logico, le multe ai cinquantenni che non avevano rispettato l’obbligo vaccinale ai tempi del Covid) se non per terrorismo psicologico, cioè la stessa motivazione che ha portato alle nuove leggi del codice della strada. Ho forse deragliato verso la politica? Scusate, capita.

Perché faccio questa domanda? Fondamentalmente per assoluzione preventiva, perché l’ho fatto di nuovo: ho scritto un racconto basato su un’esperienza che non ho vissuto, ma è l’immagine di un rave la prima che mi è venuta in mente quando ho pensato di creare una storia prendendo ispirazione da una canzone dei Fat Dog.

La carriera della band formata attualmente da Joe Love (voce e chitarra), Johnny Hutch (batteria e percussioni, soprannominato Doghead perché suona con una maschera da cane in lattice che, essendo nello spettro dell’autismo, lo aiuta anche a confrontarsi col pubblico), Chris Hughes (synth e tastiere), Morgan Wallace (tastiere e sax) e Jacqui Wheeler (basso) è storia recentissima. Il primo nucleo si forma infatti a Londra nel 2020 (oltre Love e Hutch c’erano allora Ben Harris, Jazz Grant e Will Cox), in piena pandemia, e se vogliamo possiamo vedere la loro musica come influenzata dall’eredità raver del Regno Unito e dalla necessità di sfogo causata dai vari lockdown (ma Love, secondo Wikipedia, cita pure le musiche del videogioco Serious Sam fra le sue influenze): techno, punk, musiche balcaniche (sempre Wikipedia cita elementi di Klezmer nella loro musica, genere musicale tradizionale degli ebrei Ashkenazi suonato probabilmente perlopiù a funzioni come matrimoni et similia), tutto frullato per far saltare in aria l’ascoltatore e fargli battere la mano a tempo sul volante o sulla leva del cambio in macchina (ogni riferimento a cose che ho fatto io è puramente voluto). Prima ancora di pubblicare una canzone si fanno notare dal vivo, dove pare facciano performance selvagge e scatenate (qui un live report della loro data di settembre 2024 all’Arci Bellezza), così quando nell’agosto 2023 esce il primo singolo King of the slugs è un’etichettona come la Domino a farlo uscire: un esordio atipico, sette minuti di durata in cui a momenti trascinanti cassa dritta e folklore technotronico si alternano rallentamenti orchestrali in cui Love mostra il lato più morbido della band, minoritario nel loro pastiche sonoro ma comunque presente in larghi pezzo del fulminante disco d’esordio WOOF, uscito a settembre 2024 dopo una manciata di altri singoli.

Mezz’ora di bordate sonore che si aprono con l’EDM a lenta ebollizione con voce recitante in sottofondo di Vigilante, WOOF è esattamente quello di cui avete bisogno per sfogarvi dopo una giornata di frustrazioni o per partire con la carica giusta al mattino, energia pura mitigata in parte dalle oasi atmosferiche rappresentate da Clowns, voce autotunizzata su synth ariosi, e I am the king, con tastiere in lenta ascesa che preparano il prossimo balzo nell’iperspazio mentre Love ripete di continuo il titolo della canzone con la modestia che può contraddistinguere il frontman di una band simile. E quando si salta, cazzo se si salta! All the same è esattamente la canzone che ti immagini in grado di scompigliarti i capelli a causa dei bassi prepotenti che escono a folate dalle casse, Closer to God prepara con abilità momenti di puro headbanging prolungato mentre Wither e soprattutto Running sono una corsa continua (dal titolo della seconda cosa ci si poteva aspettare?) verso la perdita della cognizione. Quarantaquattro secondi di outro che ci accompagnano all’uscita con una voce recitante che ci ricorda “You can kill the man, but you cannot kill the dog” e siamo fuori dal frullatore, pronti a rientrarci ancora e ancora, cosa che farò non in Italia (il lungo tour che li vede ancora in giro tocca gran parte dell’Europa continentale, ma al momento non sono previste tappe da noi) ma al BBK di Bilbao, festival grazie al quale mi sono accorto di sta meraviglia che mi ero perso per strada. Ah, il nuovo singolo Peace song è, al netto di un gusto pop molto più accentuato, un’altra bella botta di adrenalina.

Di King of the slugs ho già accennato in apertura, e cosa si può aggiungere d’altro? Che ha un testo delirante in cui Love viene incoronato da una lumaca re delle stesse? Che nei punti in cui rallenta e si fa atmosferica emoziona addirittura? Si potrebbe dire molto, ma trarci una storia coerente sarebbe un’impresa: ecco perché il racconto che mi ha ispirato è composto di frammenti di un free party, voci e dialoghi in prima, seconda e terza persona frullate in un mix che spero renda giustizia alla sua fonte. Potete valutarlo da voi leggendo qui sotto e mettendo in sottofondo la canzone, che finirà di sicuro dopo che già avrete finito il racconto ma va bene così, avete tempo per saltare almeno: buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero l* artist* accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Momenti fluidi

Salta più in alto di tutti, fatti attorno più spazio di tutti. Attento a non perdere l’equilibrio però. Qua dentro è pieno di fango, tutto il posto è fango a ripetizione. Che ti aspettavi? Qui non c’è mai stato niente a parte le roulotte.

Getta la testa all’indietro. Non finire per terra. Hai bisogno d’acqua. Birra? Aria? Facciamo l’ultima, dai. Sguscia in mezzo ai corpi, fatti fluido. Esci.

«Hai visto le stelle?»

«Eh?»

Indica. «Quelle stelle».

«Cosa?»

«Quelle cazzo di stelle! Le stai guardando porca merda!»

«Oh ma che minchia! C’è un bordello qua che la metà basta e te sussurri!»

«Come sono belle».

«Eh?»

Rotea gli occhi.

«Ma non se ne vede una».

«Eh?»

«C’è troppa luce! Ma dove minchia le vedi le stelle?»

Nel gruppetto che ha appena stappato le bottiglie hanno tutti questa bella faccia da rissa e lui li mira deciso, va proprio lì con l’intenzione di chi cerca cazzi da cagare e pam, gli sbatte il culo della birra sul collo delle bottiglie, veloce come una cazzo di marmotta da prendere a martellate, senza che quelli facciano in tempo a succhiarsela tutta e poi parte a razzo e loro dietro, corre veloce il coglione ma quelli sono tanti e incazzati e va bene che lui è agile, sguscia fra i corpi, sembra una cazzo di lumaca ti giuro ma poi in mezzo alla pista non c’è più un cazzo di posto dove sgusciare e loro sono tutti attorno a lui e allora lo sai che fa? Lo sai che fanno?

Iniziano a saltare. BOMBOMBOMBOMBOMBOMBOMBOMBOM!

Dalla spianata si vedono le montagne. Dentro il casermone esce musica chillout per chi ancora si regge in piedi e per chi si sta facendo un sonnellino stravaccato per terra. Lei pensa che dovrà lavarsi i capelli una volta a casa. Quando tornerà a casa. Ammesso che ci torni, a casa.

Un tizio a petto nudo di fianco a lei indica qualcosa lontano, una nuvola di polvere che non aveva notato. Sorride come un ebete e dice qualcosa su una tempesta di polvere, neanche fossero nel deserto. Lei aguzza la vista e vede i furgoncini che si fermano, gli uomini che ne scendono, il luccichio del sole sui caschi. Capisce che la festa è finita. Che cazzo però, pensa, sempre sul più bello.

Dobbiamo levare le tende, dice al tizio. Quello la guarda e dice che lui una tenda non ce l’ha. Lei sorride, gli dà una pacca sulla spalla. Andiamo dai, dice, dovremmo avere un po’ di tempo per scivolare via. Sgusch sgusch, dice lui, e si butta per terra a sbavare.

Che cazzo di gente che si incontra.

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Contro la narrazione unica di un continente: L’Africa non è un paese di Dipo Faloyin

In Nord Kivu, una regione della Repubblica Democratica del Congo ricca di minerali (dai diamanti a qualunque risorsa che possa far funzionare il dispositivo elettronico da cui state leggendo queste righe), i guerriglieri della milizia antigovernativa M23 hanno annunciato lunedì 27 gennaio di aver preso il controllo della più grande città della zona, Goma. La situazione attuale è solo l’ultima fase di una scontro che si protrae da quasi vent’anni e che ha motivazioni ufficiali (M23 sostiene di difendere i diritti dei Tutsi in Congo contro quelli degli Hutu, i maggiori gruppi etnici nella zona dei Grandi Laghi) e ufficiose (il controllo della zona porta alle milizie e al Ruanda, alleato ombra in questa diatriba, un enorme ritorno economico). La notizia ha avuto più risonanza mediatica di quanto mi aspettassi, perché la zona non è notoriamente fra le più coperte dalla stampa, sia essa cartacea, televisiva o radiofonica (esistono le eccezioni, e ne trovate qualcuna in questo articolo di marzo 2023 dove, guarda un po’, veniva citato anche il Nord Kivu): in generale la mancanza di approfondimenti costanti relativi ai conflitti nell’Africa tutta rischia di appiattire il discorso e renderlo generico, perché quello che tuttora viene soprannominato “continente nero” è un focolaio di conflitti, dalla guerra civile in Sudan ai vari golpe che falcidiano la zona del Sahel (zona dove oltretutto si muove parecchio anche l’ISIS, di cui però da queste parti ci scordiamo se non attentano alla nostra vita). Privati di elementi di contesto vien da pensare che sia nella loro natura essere bellicosi, no?

Ecco, proprio no. Ci può aiutare a capire come mai conflitti come quelli accennati sopra accadono conoscere, ad esempio, il modo in cui gli imperi coloniali hanno posti le basi per spartirsi a tavolino il continente nella Conferenza di Berlino, svoltasi fra il 15 novembre 1884 e il 26 febbraio 1885, delegittimando l’autodeterminazione delle popolazioni autoctone e dando il via a una stagione di saccheggi e barbarie giustificata con metodi che già nel 1915 lo scrittore e attivista W. E. B. Du Bois definiva “spregevoli e disonesti oltre ogni dire” e che, oltretutto, hanno portato alla creazione di confini che avevano senso per gli europei (gli Stati Uniti, che certo non hanno lesinato porcate in giro per il mondo, ebbero però la decenza di non firmare l’accordo trovato a Berlino), non certo per gli africani. E questo quando avevano un senso.

Solo il trenta per cento dei confini del mondo si trova in Africa, eppure quasi il sessanta per cento delle dispute territoriali che sono arrivate alla Corte internazionale di giustizia provengono da lì. Quel che alimenta tutte le tensioni è l’assoluta confusione su dove finisca un paese e ne cominci un altro. Due terzi dei paesi africani sono stati coinvolti in qualche lotta sulla loro forma e su ciò che costituisce la loro identità nazionale. Molte di queste dispute sono state mortali. Altre hanno chiesto la traduzione di confini imprecisi, che sembrano tracciati su una lavagna magica (e una lavagna magica è molto più facile da cancellare).

Esemplare il caso dei somali, che in un’area a cultura prevalentemente nomade si ritrovarono improvvisamente con le risorse idriche in uno stato e i pascoli in un altro, come spiega il professore universitario nigeriano Anthony Asiwaju in una delle pagine di L’Africa non è un paese, saggio scritto da Dipo Faloyin e pubblicato pochi mesi fa da Iperborea all’interno della collana Altrecose curata da Il Post. Giornalista britannico di origini nigeriane, nato a Chicago e cresciuto a Lagos, Faloyin ha concentrato all’interno del suo libro un compendio delle narrazioni sbagliate e deficitarie che contribuiscono a rendere un continente composto da più di cinquanta nazioni un corpus unico, dove ci si sveglia all’alba nella savana e le mosche gironzolano intorno a bambini denutriti, tanto per citare due delle immagini più abusate. Non lo fa però con rabbia, sentimento che sarebbe pure giustificato viste le storie che si trovano all’interno di queste quattrocento e passa pagine, ma con ironia, mostrando le crepe di quella narrazione unica e spiegando con invidiabile capacità divulgativa quelle differenze che difficilmente riusciamo a cogliere da così lontano, sulla scia di quanto fatto dallo scrittore e attivista keniota Binyavanga Wainaina.

Ovviamente riuscire a ridare dignità con un libro alla moltitudine di nazioni (e soprattutto di etnie all’interno e fra le nazioni) che compongono l’Africa è un’impresa titanica per cui non basterebbe una vita, e Faloyin ci tiene anche a precisare in una nota introduttiva che “Io non sono genericamente africano. Io sono nigeriano. E questo libro esprime il mio punto di vista di nigeriano”: quello che decide di fare è prendere spunto da alcuni fatti storici, come la Conferenza di Berlino di cui sopra o le razzie di manufatti e opere artistiche compiute dagli imperi coloniali, per mostrarci perché accadono determinati eventi e cosa c’è oltre questi, ovvero una realtà non così dissimile dalla nostra per alcune dinamiche e unica per altre.

T’Challa per esempio: è il re di una grande e orgogliosa nazione dell’Africa orientale, ne consegue che dovrebbe parlare la lingua di quella zona. Invece la Marvel, quando Boseman ha interpretato il ruolo per la prima volta in un cameo di Captain America: Civil War, ha voluto che avesse un accento britannico – ovvero quello del maggior colonizzatore in Africa. Si temeva che altrimenti il pubblico non sarebbe stato in grado di identificarsi con l’eroe, o di capire quello che diceva. Ma Wakanda non era mai stato colonizzato dagli inglesi, quindi da dove saltava fuori quell’accento? La Marvel ha pensato che far studiare T’Challa nel Regno Unito potesse offrire una spiegazione.

Boseman ha rifiutato.

In otto sezioni, alternando macrotemi come quello dei confini e del “mito” del salvatore bianco a questioni più popolari come la diatriba fra numerosi stati su quale sia la ricetta migliore del riso jollof (per l’autore, dichiaratamente di parte, è quella nigeriana), Faloyin getta luce su come ci siano dinamiche che noi fatichiamo a capire perché cerchiamo una chiave unica per un contesto multisfaccettato. Emblematica è la quarta parte, La storia della democrazia in sette dittature, dove attraverso esempi specifici mostra che il famigerato “fallimento dei leader africani” non è dovuto alla mancanza di capacità ma a situazioni complesse e uniche per ogni luogo, rese ancora più complicate da rimescolamenti etnici e lotte di potere su cui invece i governi esteri faticano ad ammettere il proprio contributo.

Come si fa a risolvere in poco spazio ad esempio la storia di Paul Kagame, Presidente del già menzionato Ruanda? Cresciuto in un campo profughi in Uganda a causa della cacciata dei tutsi da parte degli hutu nel suo paese e diventato leader ribelle negli anni ’80, Kagame è al centro di una rete di eventi che ha la sua pagina più nera nel famigerato genocidio, quando nell’arco di cento giorni i leader hutu, manovrando mediaticamente a proprio favore l’uccisione del presidente ruandese Juvénal Habyarimana (tuttora è ignoto se siano stati i ribelli o gli stessi leader, motivati dal rifiuto per gli accordi di pace appena firmati, a pianificare l’abbattimento del suo aereo), spinsero la popolazione a massacrare i propri vicini di casa per motivazioni prettamente etniche: da vicepresidente e capo dell’esercito nel 1994 e da Presidente dal 2000 a oggi Kagame ha frenato il riemergere di violenze, promulgando ad esempio leggi contro i discorsi d’odio legati all’etnia (eh ma insomma, non si può più dire niente!), ed ha risollevato l’economia (il Ruanda mira a diventare una nazione ad alto reddito nei prossimi trent’anni), introdotto un sistema sanitario nazionale e progettato importanti riforme scolastiche; allo stesso tempo i suoi detrattori politici tendono a morire, le tensioni etniche, tenute a freno in patria, tendono a riverberarsi nella confinante Repubblica Democratica del Congo, dove milioni di hutu si sono traferiti dopo che il Fronte Patriottico Ruandese da lui comandato ha preso il controllo della nazione e, se proprio vogliamo mettere altra carne al fuoco, si è distinto anche per gli accordi (per fortuna falliti) stretti con il governo conservatore britannico (per fortuna caduto) per far deportare i migranti sul proprio suolo, un modello che in Italia abbiamo deciso di copiare invece di prendere esempio che so, dalla Spagna.

Può essere difficile da capire, ma solo se lasciate che lo sia. In realtà è tutto molto semplice.

Cominciamo da cose su cui c’è un ampio consenso: il novanta per cento dei beni che rappresentano l’eredità culturale dell’Africa è conservato fuori dal continente. La stragrande maggioranza di questi manufatti – centinaia di migliaia, forse di più – è stata trafugata durante le razzie coloniali. Poco dopo averli rubati gli invasori vendevano quei tesori, a volte il giorno stesso. Alcuni sono finiti in collezioni private, ma per lo più sono finiti nei musei, gli stessi musei in cui si trovano tuttora. Gli oggetti esposti rappresentano solo una piccola percentuale del totale in loro possesso. La maggior parte di questo prezioso bottino è stata accumulata, nascosta e chiusa nelle viscere delle più illustri istituzioni del mondo occidentale, lontana dalla portata dei visitatori e certamente fuori dalla portata dei paesi africani a cui è stata rubata, nazioni che da più di cinquant’anni sono costrette a mendicare i propri tesori.

Capire questo non può che portare a un’ovvia domanda etica: come hanno giustificato i musei la proprietà di tesori che sono stati sistematicamente e deliberatamente rubati con la violenza e i cui proprietari invocano da allora la loro restituzione?

Ecco come: i musei si sono accordati per una messinscena collettiva che presenta la questione come un enigma irrisolvibile. La realtà, ripeto, è molto semplice: il novanta per cento dei beni che rappresentano l’eredità culturale dell’Africa è conservato fuori dal continente. Ed è stato rubato mediante violente campagne militari.

Il “white savior” con cui i potenti della Terra giudicano l’operato dei leader di nazioni di cui ignorano la storia (quando la degnano d’attenzione o non la sfruttano per i propri fini, vedi USA e URSS ai tempi della guerra fredda e più o meno gli stessi attori tutt’oggi, con l’aggiunta della Cina e con dinamiche lievemente diverse) è paragonabile a quello descritto nella terza parte, La nascita del mito del salvatore bianco, ovvero come non essere un salvatore bianco e fare comunque la differenza, dove Faloyin, partendo dall’incredibile caso del documentario Kony 2012 (qui un breve riassunto wikipediaro), mostra come il mondo occidentale ha perlopiù pensato di aiutare le nazioni africane senza chiedere di cosa abbiano bisogno. Da Madonna che si stizzisce pubblicamente perché il governo del Malawi non la tratta da vip dopo che ha adottato due bambine di quella nazione a Bob Geldof che raccoglie fondi con una canzone, Do they know it’s christmas?, il cui testo oggi appare terribilmente cringe, per arrivare alle pubblicità di Ong che, ancora oggi, fanno leva sull’emotività (citando la dichiarazione dell’esperto di sviluppo Jorgen Lissner pubblicata nel libro “Un numero consistente di pubblicitari insisterà che nulla può battere il bambino che muore di fame in quanto a ­«redditività»… [ma] l’immagine del bambino che muore di fame va considerata immorale, in primo luogo perché si avvicina pericolosamente alla pornografia”), questo tipo di aiuto ha sicuramente dei meriti ma nel migliore dei casi aiuta anche a perpetuare stereotipi, quando non arriva a giustificare crimini politici (la carestia in Etiopia che ha dato la spinta morale a Geldof è stata prima nascosta e poi sfruttata dal governo etiope per finanziare una politica di spostamenti forzati) o danneggiare gli stessi governi che vuole aiutare (a seguito della diffusione incontrollata del video Kony 2012, e della campagna di sensibilizzazione a monte dello stesso, l’Uganda vide crollare il proprio flusso turistico dopo anni di forte ripresa).

Celebrità, potete prendere esempio da Marcus Rashford del Manchester United. Negli ultimi anni ha utilizzato la sua influenza per aiutare i bambini più poveri della Gran Bretagna, costringendo in più occasioni il governo a invertire le sue politiche sulle mense scolastiche gratuite e su altri programmi alimentari essenziali. Rashford ha ottenuto questo risultato senza dover condividere immagini di bambini bianchi britannici seminudi che rovistano nei cassonetti a Leeds o a Nottingham o in Cornovaglia, con un sottofondo di musica per pianoforte e i loro genitori rannicchiati in un angolo della stanza, abbattuti dalla miseria. Non ha chiesto a musicisti africani di riunirsi per girare un video musicale che mettesse in luce la cruda realtà della miseria nel Regno Unito. Rashford ha costruito un movimento attraverso fatti e informazioni. Ha usato la sua piattaforma per amplificare le voci di organizzazioni locali e di professionisti esperti nel comprendere i difetti del sistema e il modo migliore per risolverli. Si è rivolto direttamente alla persona più in alto, il primo ministro britannico Boris Johnson, e non, come gli autori di Kony 2012, ad altri leader stranieri, a migliaia di chilometri di distanza. Soprattutto, le famiglie in difficoltà sono state trattate con la dignità che meritavano.

Non ci sono solo problematiche portate alla luce in L’Africa non è un paese ma anche la descrizione di una Lagos tentacolare e affascinante, il resoconto di movimenti dal basso come le proteste in Nigeria contro la brutalità del corpo speciale di forze dell’ordine SARS (poi rinominato SWAT senza che nulla cambiasse) o la campagna politica del musicista ugandese Robert Kyagulanyi Ssentamu, conosciuto artisticamente come Bobi Wine, che ha cercato senza successo di spezzare l’egemonia semiautoritaria del Presidente Museveni, il racconto esilarante di tutti gli stereotipi hollywoodiani sull’Africa (la pagina su Indipendence Day da sola vale l’acquisto del libro) e, in generale, tante storie affascinanti a rappresentare puntini che, una volta uniti, ci possono aiutare ad alzare un sopracciglio la prossima volta che sentiremo una descrizione come questa:

Indipendentemente dalla trama, il film deve iniziare con la macchina da presa che sorvola praterie ondulate che si estendono a perdita d’occhio. Lasciate le immagini scorrere sui titoli di testa mentre i nostri occhi si adattano a questa Vera Africa. Nessun segno di una civiltà moderna, tecnologicamente avanzata, deve interrompere visivamente il panorama di queste pianure ondulate: niente edifici alti, strade asfaltate o cartelloni pubblicitari illuminati che reclamizzano costosi profumi.

Terra. Dobbiamo vedere solo la terra.

La risposta di Lagos a questa descrizione la potete vedere all’inizio dell’articolo.

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Racconto in musica 191: Da me o da te (Coca Puma – Tardi)

Le proprie azioni comportano delle conseguenze, a volte impreviste, e anche le proprie parole. Me ne sono accorto qualche anno fa intervistando i The R’s, band bresciana purtroppo disciolta i cui membri lottano e resistono insieme a noi con altri progetti: si chiacchiera, si divaga, si beve, si fuma e poi, all’improvviso, salta fuori una questione: il paragone coi Beatles. La band sostiene di non c’entrare niente con i fab four, ma di avere ormai da anni appiccicato questo paragone: non sanno chi sia stato il primo a farlo ma nelle recensioni se lo trovano spesso affibbiato, e certo fa più piacere che ritrovarselo che so, con i Venga Boys, ma è comunque il paragone sbagliato. E io, che dei The R’s avevo seguito tutta la carriera fin dal primo Ep, e che dei Beatles non avevo ancora mai ascoltato un disco per intero, alzo timidamente la manina e dico “mi sa che sono stato io”.

Eh già, nel fantastico mondo delle webzine musicali può accadere anche che un appassionato di musica con notevoli lacune (io) recensisca una band (i The R’s) e dica “assomigliano a X” senza che questo abbia effettivamente senso, e che non solo nessuno gli dica “ma che cazzo dici” ma che anche altr* recensor* gli vadano dietro, alimentando qualcosa che non esiste. Trovato il colpevole (magari era stato qualcuno di molto più influente di me, ma il primo Ep dei The R’s non ce lo eravamo proprio inculat* in tantissim*) la band non mi ha comunque defenestrato e la serata è finita bene, ma ho imparato che a volte si possono sparare delle parole senza avere ben chiaro cosa stai dicendo e quelle parole comunque attecchiscono: un po’ come per Coca Puma, artista ospite di questa settimana, che si è ritrovata la parola “jazz” spesso citata per definire il suo album d’esordio Panorama Olivia e non è che le faccia troppo piacere.

Non si può dire che Costanza Puma col jazz non ci abbia mai avuto a che fare, certo: romana classe 1998, laureata in conservatorio, prima di mettersi in proprio suonava in una formazione nu jazz con cui cantava in inglese, ma nel proprio percorso musicale sono entrate parecchie altre influenze. Se proprio deve definire Panorama Olivia, uscito l’anno scorso per Dischi Sotterranei e ODD, preferisce usare la parola pop, come fa in quest’intervista, anche se ovviamente è una parola altrettanto limitante: le dieci canzoni del suo disco d’esordio (di cui tre sono brevi interludi) si muovono fra suoni elettronici e anima soul, dream pop e una certa raffinatezza formale che forse è ciò che ti fa venire in mente il jazz, perché al jazz riserviamo uno status (mi ci metto pure io dentro eh) che al pop non siamo dispost* a concedere. Anche di post-rock parla Puma fra le sue influenze, e forse è ciò che fa deragliare a metà Tardi, animando il languido pop elettronico in una rincorsa fra piano, voce e distorsioni, e porta verso ariosità inaspettate la conclusiva Come vuoi, ma anche quando si rimane sul pezzo senza concedersi divagazioni improvvise la varietà è assicurata: la strumentale Tappeto trascina con la sua ritmica spezzata e i suoni elettronici da club, Porta Pia è morbidezza soul a cui Puma dona con la voce una languida scazzatezza, Lupo Volkswagen un viaggio notturno fatto di urban pop dal sapore vagamente nineties. Il più grosso difetto di Panorama Olivia è che dura poco, perché l’atmosfera che crea vorresti durasse di più: il suo più grande pregio è quello di costruire un suono che, pur cambiando da brano a brano, resta personale e ben delineato, il che per il disco un’artista di ventisei anni è da dare tutt’altro che per scontato.

Puma con le atmosfere ci sa fare dopotutto, perché a fianco della sua carriera sul palco ne ha una da sonorizzatrice: ha lavorato alla colonna sonora del film Quasi a casa della regista esordiente Carolina Pavone, sta lavorando per conto dell’Istituto Luce su alcune pillole d’archivio e per lo stesso Istituto ha già composto le musiche di La rivoluzione siamo Noi (2020), film che racconta il decennio artistico 67/77 in Italia. Un bagaglio d’esperienza non indifferente, che si somma a tutti gli attestati di stima che hanno reso Puma una delle artiste più chiacchierate all’interno del panorama musicale indipendente nostrano nell’ultimo anno: ora non resta che attendere pazientemente le sue prossime evoluzioni.

Di Tardi e del suo “deragliamento” ho già accennato sopra, e appena l’ho sentita ho subito pensato che avrei voluto trasporre in parole la sorpresa che mi ha suscitato sentire il brano mutare così improvvisamente e naturalmente: i testi di Puma sono scarni e talvolta criptici, il che mi ha permesso di colorare gli spazi vuoti e immaginare una coppia a letto che mette momentaneamente il mondo in standby, salvo dover far fronte a un cambiamento stupido nella sua banalità ma che, come capita talvolta con gli eventi piccoli e non così memorabili, finisce per fissarsi in testa e rappresentare più di quel che appare. Un sacco di parole per spiegare qualcosa che potete leggere poco più in basso, subito dopo il brano che ha ispirato il racconto, facendovene un’idea diretta: buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero l* artist* accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

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Da me o da te

È tardi. Non avremmo nemmeno dovuto rimboccarci le lenzuola. La vita ci chiama. Le diciamo di aspettare.

Come risolviamo il turno delle sei a lavoro? Chiama, mettiti in malattia. E la sessione mattutina in palestra? Saltala, abbiamo già fatto abbastanza allenamento qui.

Restiamo ancora un po’. Proviamo a restare per sempre. Resistiamo alle tentazioni del giorno, alla voglia di una tazzina di caffè. La moka è da pulire, da riempire, da aspettare. Liberiamoci di ogni voglia che non sia di noi. Continua ad abbracciarmi.

Vedo il tuo orecchio fremere. Non ascoltare la notifica sul cellulare. I tuoi occhi si aprono, il tuo braccio si allunga. Non guardare, dai. Non lasciare entrare il mondo.

«Cazzo».

«Mmm?»

«Mia mamma».

«Cosa? Sta male?»

«Sta venendo qui. Arriva tra mezz’ora al massimo».

«E non puoi dirle di aspettarti da qualche parte?»

«Mica posso lasciarla fuori da casa sua».

«Eh?»

«Dai, muoviti!»

«Abiti con tua mamma?»

«Secondo te posso permettermi un appartamento così?»

«Pensavo avessi affittato la stanza».

«Hai mai visto dei coinquilini?»

«Ma chi cazzo li ha cercati!»

«Va be’ senti, devi andare».

«Perché? Ti vergogni di avere una vita sessuale?»

«Vuoi conoscere mia madre?»

«…»

«Vorresti che io conosca tua madre?»

«Conoscessi».

«…»

«Mmm. Non ancora mi sa».

«Vestiti allora».

«Ma che palle».

«Eh. Doveva essere via per lavoro fino a stasera».

«E invece».

«Eh».

Restiamo sulla soglia. Ancora qualche minuto, ancora qualche secondo. Vado a prendere il caffè al bar di fronte. Dalla vetrata vedo la finestra di casa tua. Ti affacci. Mi guardi, ti guardo. Mimo con le mani, la prossima volta da me. Anche se c’è gente, anche se c’è casino. Sorridi. La prossima volta, se ci chiamano non rispondiamo più.

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