Racconto in musica 164: Laika (Verme – Lo squallore del tonno)

Per me la scoperta del punk è andata di pari passo con la scena del varesotto degli anni 90: Punkreas, Pornoriviste, P.A.Y., Skruigners, più un sacco di band che la storia ha dimenticato (Wild Onions, Drunkin’ Donuts e tutti gli incroci possibili con le parole punk e ska tipo i Punkina Skassata) o avrebbe fatto meglio a dimenticare (Moravagine, Peter Punk). Per il me ventenne che non aveva mai visto un centro sociale manco di striscio quello sembrava un mondo musicale di rara coesione e autenticità, perché andavi ai concerti e ci vedevi membri delle altre band, spesso suonavano insieme e, nel caso dei P.A.Y. in particolare, si sfottevano anche un po’ vicendevolmente: è anche stato un momento in cui le cose si sono conformate nella maniera giusta, seppur per un breve periodo, fra musicisti che facevano anche i deejay, passaggi televisivi su MTV (solo i Punkreas, anche se giuro di aver visto a tarda notte anche un video dei Crummy Stuff) e concerti in tutta Italia. Poi il vento è cambiato, i Punkreas hanno cominciato a fare anche le ballad (giuro che mi era arrivato un comunicato stampa che pubblicizzava fieramente questo orrore), i Pornoriviste hanno perseguito altri obiettivi singolarmente e a me il punk sembrava morto e sepolto… Se non fosse che c’era un’altra scena, in parte contigua e in parte successiva a quella del varesotto, che sottotraccia si faceva strada ed è apparsa sui miei radar solo molto, molto tardi. È la scena emo-punk dei vari Laghetto e Fine Before You Came, un movimento che non ho mai approfondito a dovere ma che tuttora resiste e lotta con noi, ed anzi ha influenzato l’odierno punk probabilmente più di quanto abbiano fatto le band del varesotto di ormai trenta e passa anni fa, una scena di cui per una manciata di anni hanno fatto parte anche i Verme, la resident band della settimana.

Ad offrirci il gancio per parlarne è il benemerito Alex Roggero, diventato ufficialmente recordman di contributi sul blog grazie a questo suo quinto racconto (potete trovare gli altri qui, qui, qua e quo). Intervistato a seguito di questo traguardo Alex ha affermato “sono davvero euforico, vado a farmi una birra”, e noi riportiamo volentieri questa sua dichiarazione, insieme alla notizia che ha terminato il suo secondo romanzo e ha già iniziato a spedirlo in giro: ricordandovi che il primo, Non farlo, potete trovarlo qui, interrompiamo il collegamento e passiamo a parlarvi di musica.

Qual è la definizione ideale di supergruppo? Per chi frequentava la scena emocore intorno al 2010 probabilmente i Verme erano LA risposta, ma non la risposta che si aspetta chi non bazzica l’underground. Jacopo Lietti (FBYC) alla voce, Violetta Merli (in quel periodo nelle Agatha e successivamente nei Minnie’s) al basso, Giacomo Zatti (Hot Gossip: ma quanto era bello il loro ultimo disco, Hopeless?) alla batteria e Tommaso (Dummo: oh scusate ma i potenti mezzi di Tremila Battute non sono riusciti a trovarne il cognome) alla chitarra formano la band nel 2009 e neanche il tempo di iniziare a suonare insieme che, come capita alla gente sgamata che sa come fare le cose, sono già in sala di registrazione, per la precisione il 21 dicembre 2009 al Mobsound, una giornata in cui ci tengono a precisare su Bandcamp “ha nevicato un bel po’ e noi indossavamo tutti scarpe di tela (il che mi rassicura sul fatto che non sono l’unico che d’inverno si veste come se l’inverno non esistesse): i primi quattro brani dei Verme vengono alla luce lì e dati in pasto alle masse neanche due settimane dopo, a inizio 2010, su cassetta oltretutto che adesso è un’usanza che sta prendendo un po’ piede (non la capisco granché, e sono abbastanza vecchio da averci avuto a che fare molto con le cassette) ma ai tempi boh, io ricordo solo una cassetta dei P.A.Y. e nient’altro. Suonano veloci i Verme di Un verme resta un verme, suonano diretti, cantano disagi comuni soffocati dentro o meglio li urlano, con la voce di Lietti che si fa spazio a fatica fra gli strumenti e si lamenta quasi arreso di “questa città che non mi vuole più forte, questa città che non mi vuole affatto” (Città), espone con frasi perentorie come “finché ti riempi le scarpe di piombo non riuscirò a portarti ovunque” problemi di benessere psicologico e relazionali che sono comuni a tant* ma che di solito nascondiamo sotto il tappeto.

“Il 17 luglio a Milano faceva un gran caldo eppure un manipolo di amici ha trovato il coraggio di uscire di casa e andare a fare dei cori alla Vasco Rossi. Per cui grazie. Senza di voi tutto questo farebbe cacare.” Il posto è lo stesso, il Mobsound, ma il clima è cambiato completamente, almeno quello atmosferico: in sala di registrazione invece è tutto uguale, c’è la stessa urgenza comunicativa, la stessa voglia di fare le cose velocemente ma fatte bene, dove bene non significa linde e pulite ma energiche, reali, necessarie. Vai verme vai esce il 30 luglio 2010, ancora su cassetta grazie all’etichetta Two Two Cats, ancora formato da soli quattro brani e ancora intriso di malessere quotidiano, quello che ti fa accorgere che “la gente muore e io sto attento a non accostare il nero al blu” (Figlio). Suonano in giro i Verme, non potrebbe essere altrimenti, suonano ovunque e anche in posti improbabili come un barettino a Varazze sul lungomare, testimonianza diretta di Andrea Vecchio che su Impatto Sonoro firma un articolo molto più esaustivo del mio perché lui quel periodo l’ha vissuto, era sotto il palco a gridare quei testi (e pare pure a gridarli sotto altri palchi, ma questa è un’altra faccenda). Salto a dicembre, un anno solo di distanza dal primo Ep, stessa catena produttiva: ancora il Mobsound, ancora Alessandro Caneva a registrarl* ma stavolta solo due brani compongono Bad verme, due brani dai titoli che sono tutto un programma come Va tutto malone e Va tutto marchette perché non cambia niente neanche nel loro disagio, nella loro energia nel cantarlo, nella loro voglia di non arrendersi.

Poi però la festa finisce poco dopo l’uscita di Vermica, il disco che condensa i tre Ep fin lì prodotti, poco dopo l’uscita dello Splittone paura con Do Nascimiento e Gazebo Penguins (che con Lietti avevano collaborato nella celeberrima Senza di te). Nel 2012 i Verme dicono basta, Tommaso (di cui ancora non ho trovato il cognome) sta per trasferirsi in Canada e sempre dall’esauriente articolo di Vecchio trovo questa dichiarazione: “quando abbiamo iniziato a essere presi troppo seriamente ci siamo un po’ spaventati. Abbiamo avuto paura di perdere la genuinità con cui il tutto era partito. Così ci siam sciolti. Che lo scherzo è bello quando dura poco. Questa raccolta contiene tutti i pezzi che abbiamo fatto e registrato tra il 2009 e il 2012. Sono stati anni divertenti. Ora basta però. Addio merde”. La raccolta è RIP, esce in vinile a fine 2017 per l’eccelsa To Lose La Track e mette la pietra tombale su un periodo che non si ripeterà perché, a scanso di equivoci, Lietti afferma che “le reunion non sono mai belle. Non mi piacerebbe nemmeno quella dei miei genitori”. Breve ma intenso, va bene così.

Lo squallore del tonno è il secondo brano dei Verme nello Splittone paura, nonché l’ultimo brano in assoluto della band. L* quattro membr* del supergruppo urlano per l’ultima volta il loro malessere quotidiano e lo fanno prendendo a emblema qualcosa di comune come una scatoletta di tonno, l’emblema del pasto veloce e ignorante per eccellenza che qui assume quasi un valore positivo perché “ci sono cose assai più squallide di mangiar tonno dalla scatoletta”: Lietti che urla “Dio ti prego credi in me” nel silenzio, sul finire del brano, un Dio in cui non crede e che a sua volta non crede in lui, è una delle cose più intense che l’emocore e il punk in generale ci abbiano regalato. Alex innaffia il tonno con della birra e porta quel disagio esistenziale sul bancone di un bar, col protagonista scorato che riflette sulla sua esistenza e su tutti i cani mandati nello spazio a morire per chissà quali traguardi: potete leggere i suoi pensieri subito dopo il brano che li ha ispirati, più in basso, mentre a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Scarica il numero Zero e il numero Uno della fanzine di Tremila Battute!

Laika, di Alex Roggero

Siamo quello che mangiamo, quindi, forse, siamo un po’ anche quello che beviamo.

Io, ad esempio, ora sto bevendo una birra buonissima. Una Zhulka del birrificio Muttnik, un birrificio che dà alle sue birre solo nomi di cani andati nello spazio.

Bellissimo.

Zhulka. Ryzhik. Strelka. Albina. Belka. Bolik. Leika. Damka.

E allora com’è che io oggi mi sento così uno schifo?

Forse devo berne un’altra.

“Scusa! Sì scusa, un’altra Zhulka.”

“Una che?”

“Una Zhulka!”

“Una Zhulka?”

“Sì cazzo, una Zhulka!”

“Uei, calmino eh.”

“Sì scusa, giornataccia.”

Mi infilo nelle orecchie le mie cuffiette. Mi viene istintivo farlo, forse per proteggermi. Penso siano le ultime cuffie rimaste sul mercato senza questi cazzo di “in-ear”. Ma come fa a piacere alla gente ‘sta cosa di avere un pezzo di gomma che gli penetra l’orecchio? Forse è un mezzo fetish. Non ne sono ancora sicuro, ma ogni volta che vado in un negozio e chiedo un paio di cuffie non “in-ear” mi sa che mi prendono per matto. Iniziano a parlarmi al rallentatore, come se avessi la 104.

Ma che cazzo.

Comunque oggi è proprio una di quelle giornate che vorresti solo finissero il prima possibile. Se siamo davvero quello che mangiamo probabilmente io, nel sonno, stanotte ho mangiato un bel tocco di merda.

C’è solo una cosa che mi può far tornare di buon umore in questo momento.

Metto su i Verme. Parte “Lo squallore del tonno”. Avrò sentito questa canzone almeno duemila volte, eppure mi fa sempre tornare il sorriso.

Oggi ho venduto la mia chitarra elettrica.

Ma che cazzo mi è saltato in mente.

Era bellissima.

Cazzo.

E per cosa l’ho venduta? Per pagare una rata di un appartamento in cui forse nemmeno voglio più vivere.

È vero, ci son cose assi più squallide di mangiar tonno dalla scatoletta.

Ma perché cazzo fa così schifo essere responsabili?

Penso a Bukowski e quella roba sull’arte di sprecare la vita.

Sto veramente buttando nel cesso la mia vita?

Penso a quei cani andati nello spazio. Saranno tornati vivi?

Penso a Leika. Che poi forse in realtà era Laika. Cosa avrà pensato mentre lasciava l’atmosfera terrestre a 40.000 km/h?

Probabilmente che quella era davvero una gran bella giornata di merda.

Come ti capisco piccola Laika.

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Pubblicato da Ficky

Nel (poco) tempo libero scrivo racconti, guardo film e serie tv, leggo libri, recito in una compagnia teatrale, partecipo a eventi culturali e vado a vedere un sacco di concerti. Ho scritto per anni di musica (Indie-zone, Stordisco, Asapfanzine) e spero di trovare il tempo di farlo ancora per molti anni a venire.

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