Racconto in musica 166: Costruire un porto (Paolo Benvegnù – Il mare verticale)

Settimana scorsa ero al Book Pride, la fiera dell’editoria indipendente di Milano, uno dei motivi per cui questo blog/aspirante rivista letteraria si è preso una settimana di pausa (insieme alla nostra ben nota e fallimentare propensione al superare il senso di colpa relativo al dover essere produttivi a tutti i costi). Fra parecchi giri per gli stand e vari talk molto interessanti che si sono succeduti mi è capitato di finire a vedere Umberto Maria Giardini (ricordate? Ne abbiamo parlato qui) che parlava dei libri della sua vita: fra le varie cose uscite nella conversazione con lo scrittore Marco Amerighi UMG ha anche fatto un elogio degli anni ’90 come un periodo unico da vivere, una sorta di nuovi anni ’60 in cui, dalle sue parole, tutto sembrava bello e splendente e pieno di speranza per il futuro.

Sarà, ma io in quel periodo ero perlopiù infognato nel grunge e nel post-grunge e di queste aspettative per un futuro luminoso non vedevo neanche il riflesso. Non lo vedevo neanche a livello cinematografico perché, per dire, la fantascienza ti proponeva perlopiù cose tipo Matrix e Strange days, che non è che fossero proprio utopie positive (detto che le utopie positive nella fantascienza si contano sulla punta delle dita) e condividevano un certo immaginario dark che fatico ad associare alla speranza. Certo era un periodo di sconvolgimenti, Internet era appena arrivato (da noi) e ci sembrava, quella sì, una promessa di libertà e scambio: inoltre Umberto Maria Giardini in quegli anni era agli inizi della propria carriera (nel 1999 pubblica il primo album Natura in replay, passando anche su Mtv), e vivere un certo periodo dal di dentro di una scena musicale in formazione ti dà sicuramente un’impressione diversa rispetto a vivere lo stesso periodo nella tua cameretta ad ascoltare la radio. Quella scena, che per un ascoltatore come me poteva abbracciare i C.S.I. passando per i Marlene Kuntz e gli Afterhours (giusto per citare quelli che a fine anni ’90 erano già affermati), aveva anche un lato cantautorale che io scoprii solo più avanti, nomi tipo Marco Parente, Andrea Chimenti, lo stesso UMG e anche un cantante e chitarrista che dal 1993 al 2000 ha suonato in una band che ha avuto meno riflettori puntati rispetto ad altre, ma che ricordo con affetto anche solo per quella manciata di canzoni che mi è passata attraverso le orecchie: la band erano gli Scisma e quel cantante e chitarrista, che tuttora è attivo come cantautore, è Paolo Benvegnù.

A permetterci di parlare di lui è Gabriele Bitossi, un altro piacevole ritorno sulle schermate di Tremila Battute. Gabriele negli anni ’90 ci è nato, a differenza di me, e a differenza di me nel mondo letterario si è già fatto strada, collaborando, dopo il diploma in Sceneggiatura alla Scuola Internazionale di Comics, con Spaghetti Comics, Kleiner Flug, Coltello Comics, Radici e Future Fiction. Proprio quest’ultima casa editrice a Book Pride festeggiava il suo decennale di attività e ci sembrava giusto segnalarvi, fra le tante opere a cui ha dato il suo contributo, La nave verde, trasposizione a fumetti di un racconto di Francesco Verso (che di Future Fiction è anche editore) che Gabriele ha sceneggiato, Pietro Depalma ha illustrato, Cristina Tomasini ha colorato ed Erica Benvenuti ha letterato: ci sembra anche un buon modo per uscire dalla fantascienza cupa e disillusa con cui sono cresciuto consigliarvi una storia che tratta di migrazione con un afflato di speranza verso il futuro, e ci sembra cosa buona e giusta anche consigliarvi la lettura del primo racconto che Gabriele (che a ottobre 2023 si è anche laureato con lode in Italianistica a Pisa) ci ha donato, che potete trovare qui.

Ripercorrere un’intera carriera trentennale è un’impresa improba, soprattutto se la si è guardata da lontano. Quella di Paolo Benvegnù poi, milanese di nascita e fiorentino d’adozione, è talmente piena di svolte, collaborazioni, progetti intra ed extra musicali che raccapezzarcisi diventa ancora più complicato: sette album in studio dal 2004, anno di Piccoli fragilissimi film (Stoutmusic/Santeria) a oggi (È inutile parlare d’amore, pubblicato a inizio anno dall’etichetta Woodworm e comprendente duetti con Brunori Sas e Neri Marcorè) più un disco dal vivo e la doppietta Delle inutili premonizioni (2021, Black Candy), una sorta di Best of in cui rilegge in versione acustica i suoi brani, e Delle inutili premonizioni – Vol. 2 (2022, sempre per Black Candy), in cui omaggia invece con delle cover artisti new wave come New Order, Tears For Fears e Faust’O; uno studio di registrazione aperto a Prato in cui ha prodotto, fra gli altri, album di Perturbazione e Terje Nordgarden; collaborazioni a pioggia con David Riondino, Stefano Bollani, Mauro Pagani, Marina Rei, C.F.F. e il Nomade Venerabile, Marta Sui Tubi e Lettera 22, giusto per citarne alcuni fra noti e meno noti; progetti paralleli come Proiettili buoni con Marco Parente, il cui omonimo album esce nel 2008, e I racconti delle nebbie, duo letterario-musicale creato con lo scrittore ed autore Nicholas Ciuferri che pubblica un disco omonimo nel 2019 e si espande a quartetto poco dopo con l’ingresso dello sperimentatore elettronico Nicola Cappelletti e di Riccardo Tesio dei Marlene Kuntz; brani suoi ricantati da altre, come Il mare verticale ripreso sia da Marina Rei che da Giusy Ferreri, È solo un sogno da Irene Grandi ed Io e te da Mina (che, va detto, ha sempre avuto un occhio di riguardo per la musica indipendente). E tutto questo senza parlare degli Scisma e, a ben vedere, senza aver ancora accennato alla sua musica.

Autore di un cantautorato intimo e intenso, rock nei suoni ma dilatato nelle atmosfere, Paolo Benvegnù è soprattutto un cantore dell’amore in tutte le sue forme, perlopiù malinconiche ma intrise di poesia. Non aspettatevi però qualcosa di asettico e sentimentale perché Benvegnù riesce a toccare anche corde morbose e oscure, legate (volontariamente o involontariamente, che la storia del cantautorato è fatta anche di patriarcato introiettato) a dinamiche di possesso e non accettazione della fine: di certo raggela il testo di Quando passa lei, inserita nel suo disco d’esordio, con quel “e io non so perché la uccido” che riverbera di tutti i cosiddetti raptus di violenza dietro cui si nasconde il problema culturale che porta ai femminicidi; inquieta il rapporto simbiotico di La schiena, il “dove vai? Cosa fai? Con chi stai parlando? Cosa stai bevendo?” che esplicita un controllo e una dipendenza romanticizzata (ma non eliminata) dalla frase “è così che ogni goccia di me scava la tua schiena lentamente, con un ritmo costante/ è così che ogni goccia di te scava la mia schiena lentamente, con un ritmo costante”; ci spinge a pensare ai nostri rapporti Piccola pornografia urbana (ma quanto è bella l’immagine nella cover di Earth Hotel?), un amore intriso di manipolazione e rivalsa (“ed è per questo che io insisto per amarti/ ed è per questo che tu gioisci nell’usarmi”); e poi l’amore inteso in senso più largo, l’amore come unica salvezza di fronte ai mali del mondo, che sembra tanto banale come concetto finché non ascolti l’alternarsi di sublime e di terribile nelle strofe di Io e il mio amore, la canzone con cui Benvegnù ha partecipato alla compilation Il paese è reale promossa dagli Afterhours. C’è molto altro nella musica di Benvegnù, non certo solo questo, e molto altro anche da dire sul suo rapporto con l’amore: prendete queste righe come spunto e ascoltate, problematizzate, diffondete.

Il mare verticale è la prima traccia di Piccoli fragilissimi film, una canzone che parla di immobilità e rinascita, di momenti passati a lasciare che “le cose passino e si sfiorino/ perché non sono in grado di comprenderle” alternati ad attimi di vitalità figli dell’urgenza (“nuotare in un oceano congelato per sentire il cuore che ti esplode dentro il petto”) o destinati alla violenza (“bere il sangue del nemico solo per gustarne la diversità”). Il testo della canzone è parso a me e Gabriele un buon contraltare alle vicende di G., il protagonista del suo racconto, che al mare evocato da Benvegnù giunge solitario e affamato di libertà e ne ritorna cambiato: per quali motivi lo lascio scoprire a voi subito dopo la canzone che accompagna la vicenda, a me non resta che augurarvi buon ascolto e buona lettura.

Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).

Scarica il numero Zero e il numero Uno della fanzine di Tremila Battute!

Costruire un porto, di Gabriele Bitossi

Quella sera G. aveva sete di libertà, quindi uscì di casa e iniziò a camminare. Gli amici erano dietro ai primi amori, conditi da sbaciucchiamenti vista tramonto: lui, sempre indietro rispetto a loro, decise invece di cercare rifugio nella salsedine e nel tabacco.

Solo una volta arrivato al mare, pronto per la prima sigaretta della sua vita, si mise alla ricerca di un accendino.

Iniziò la perlustrazione delle viuzze che davano sul mare, senza trovarvi anima viva. L’unico locale aperto era un edificio enorme, diroccato, mai notato prima. Sbirciò all’interno e vide un semicerchio formato da un numero indefinibile di sedie occupate. Al centro, in piedi, c’era un uomo che stava declamando dei versi. Quando si mise a sedere una donna, prima seduta tra il pubblico, prese il suo posto. G. rimase in piedi ancora per qualche poesia, poi si avvicinò al semicerchio e si sedette sul pavimento, in contemplazione.

I versi che più lo colpirono li recitò un ragazzo che sembrava fuori contesto, anche in quel contesto già fuori di per sé. Ancora oggi ricorda quelle parole e le sussurra di notte all’ego per prendere sonno, consapevole del fatto che si sveglierà e affronterà un nuovo giorno.

“Bottiglie nel mare rivelano volontà.

Individui solitari, abbandonati,

umani come mosche bianche

racchiudono una stanza.

Formano il libro, seguono le navi.”

Dopo i versi del giovane poeta nessuno si alzò, forse per paura del confronto, forse per lasciarli riecheggiare il più a lungo possibile. Lasciarli respirare, lasciarli volare. G. attese ancora a lungo, anche dopo che le persone intorno a lui cominciarono a uscire: voleva ubriacarsi ancora, assaporare ogni istante.

Dopo qualche minuto le luci si spensero. Accese la torcia per ritrovare l’uscita e notò un accendino, abbandonato, vicino ai suoi piedi. Aprì il pacchetto, si infilò la sigaretta in bocca e tornò sui suoi passi. Tra il catrame e la nicotina, con la gola in fiamme, decise che la sera successiva sarebbe tornato in quel locale.

Da quella sera iniziò a fumare.

Da quella notte iniziò a scrivere poesie.

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Pubblicato da Ficky

Nel (poco) tempo libero scrivo racconti, guardo film e serie tv, leggo libri, recito in una compagnia teatrale, partecipo a eventi culturali e vado a vedere un sacco di concerti. Ho scritto per anni di musica (Indie-zone, Stordisco, Asapfanzine) e spero di trovare il tempo di farlo ancora per molti anni a venire.

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