Musica e attivismo: la formula di Hanif Abdurraqib in Finché non ci ammazzano

Mi è tornato in mente di recente un breve racconto autobiografico di Chuck Palahniuk. Si intitola La mia vita da cane ed è contenuto in La scimmia pensa, la scimmia fa, anno di grazia 2006: il buon Palahniuk racconta di quando con un amica andò in giro per Seattle travestito da cane dalmata (lei da orso bruno), subendo di tutto da forze dell’ordine, guardie di sicurezza e semplici passanti, dall’essere buttati fuori da un museo (ma DOPO aver pagato il biglietto) all’essere presi a pugni, calci e sassate. Non è chiaro se lo scrittore avesse preventivato le reazioni della gente, di certo lo è il motivo che lo ha spinto a travestirsi in quella maniera: “da maschio bianco” dice Palahniuk, “puoi passare tutta la vita senza mai provare la sensazione di non essere integrato”.

Di certo quella sensazione la conosce bene Hanif Abdurraqib, cresciuto a Columbus, in Ohio, uno stato in cui “vi sono tutte le peculiarità del razzismo schietto, di quel genere abbastanza palese che viene espresso vistosamente e con insolenza”. Cresciuto in un quartiere dei sobborghi da cui i bianchi si tenevano alla larga, unico ragazzo nero e musulmano nel suo college, il tutto in una nazione in cui i corpi dei neri fanno paura e devono fare i conti con la violenza che viene riversata loro addosso per questa stessa paura, Abdurraqib ha reagito alla stessa maniera di molti altri ragazzi che si sentono fuori posto: si è gettato nella musica, quella rap ascoltata in casa e con gli amici (levando le etichette “explicit lyrics”, quando ancora erano appiccicate e non stampate sulle cover) e quella punk e emo vissuta ai concerti. Poi, crescendo, il ragazzo è diventato un giornalista musicale che ha preso il suo amore per la musica e ne ha fatto uno strumento per parlare di altro, per sensibilizzare il mondo su ciò che ancora facciamo fatica a vedere a proposito di razzismo.

Il problema è che tutti vogliono parlare di linguaggio slegandolo da qualsiasi forma di violenza si sia accumulata nel corso del tempo per via dell’esistenza stessa di quel linguaggio. Ad esempio, se una parola può essere urlata nel momento in cui uno scarpone colpisce un volto, allora va presa in considerazione anche questa parte della storia di quel termine. Qualsiasi linguaggio che sia il potenziale precursore di uno spargimento di sangue è provvisto di una storia da cui non può essere scisso.

ScHoolboy Q vuole che i bianchi lo dicano ad alta voce

Finché non ci ammazzano, pubblicato nel 2017 e portato in Italia quest’anno da Edizioni Black Coffee, prende il titolo da un biglietto appeso sopra la targa in memoria di Michael Brown Jr., una delle tante vittime nere della polizia statunitense ucciso il 9 agosto 2014: il biglietto recitava “non ci ammazzano finché non ci ammazzano”, e questa risolutezza emerge appieno dalle parole dell’autore, sia quando parla del lutto attraverso un album dei My Chemical Romance che quando analizza la decisione del rapper ScHoolboy Q di lasciar gridare ad alta voce la N word al pubblico bianco dei suoi concerti. C’è tanta morte che aleggia nei brevi saggi di cui è composto questo libro, quella di chi ha condiviso parte della vita con Abdurraqib e quella delle vittime della storia razzista del paese, ma c’è anche la vitalità di chi non si arrende e riesce a coniugare questi temi con il sincero amore per la musica, raccontata con una foga trascinante.

E così, in uno skate park al coperto di LaGrange, in Illinois, ecco che il gruppo conosciuto come Fall Out Boy viene assalito dai disturbatori mentre dalla cima di una rampa esegue una canzone più moscia dell’altra. Là dentro tutti stanno pressoché fermi nella tradizionale posa hardcore: braccia incrociate e testa che fa su e giù, aria impassibile. Da sotto il palco qualcuno grida, «Ma che cazzo? Suonate qualcosa per darci la carica!»

Pete lancia uno sguardo a Patrick, fa una smorfia al pubblico e, sicuro di sé, dice: «E va bene. Questa canzone è nuova. Si chiama “Dead on arrival”».

Dopo trenta secondi le braccia cominciano a sciogliersi. Qualcuno inizia a pogare e i corpi si scontrano, prima piano e poi con forza sempre maggiore.

Fall Out Boy forever

Diviso in cinque capitoli introdotti da frammenti riguardanti la figura di Marvin Gaye (il sesto capitolo contiene solo una chiusa finale sul musicista soul), la narrazione di Finché non ci ammazzano è politica fin dal pezzo su Chance The Rapper che apre la raccolta, e lo diventa sempre più con l’avanzare delle pagine. La musica fa da padrona nei primi capitoli, mettendo in luce in maniera originale la valenza universale delle canzoni di Carly Rae Jepsen (sì, quella che in Italia conosciamo solo per Call me maybe) o la pochezza delle sfuriate emo sui cuori spezzati perpetrate a un decennio di distanza dai misconosciuti (almeno da noi) Cute Is What We Aim For. Poi la coltre di oscurità causata dall’avvento di Donald Trump si fa sempre più pesante man mano che si prosegue nella lettura e investe articoli che indagano a fondo cosa voglia dire essere nero negli Stati Uniti, da sempre e soprattutto in un periodo in cui a un Presidente come Barack Obama, che porta i rapper alla Casa Bianca e ASCOLTA cosa hanno da dire (pur nella sua fallibilità, che Abdurraqib non nasconde), ne segue uno che è riuscito persino ad aizzare una folla di estremisti all’assalto del Congresso nel momento della sua uscita di scena.

Ci penso mentre il fumo si dirada, mentre vediamo fare ai giovani musulmani di oggi ciò che abbiamo visto fare sempre ai giovani musulmani in situazioni del genere: implorare di essere risparmiati. Lavorano senza sosta per dare sfoggio della propria umanità, per mostrare a tutti noi il bene che hanno fatto. Dicono al mondo che loro non sono come chi ha ucciso, come se il mondo, macchiato di sangue com’è, meritasse questa spiegazione da parte di un innocente.”

Su Parigi

Ecco allora che si fanno largo esperienze biografiche dell’autore ed eventi segnanti di cronaca recente, accanto ad articoli che mettono in luce altri protagonisti della storia nera statunitense come il campione NBA Allen Iverson o la tennista Serena Williams, di cui l’autore rivendica le origini e la libertà di esultare come vuole affermando, quasi in chiusura del pezzo, “stiamo dicendo a uno degli atleti più dominanti del pianeta che forse dovrebbe contenersi un po’, come se fosse possibile dominare uno sport avanzando in punta di piedi”. Abdurraqib mette sempre sé stesso anche in queste storie, la sua empatia, la sua rabbia, la sua disillusione momentanea che continua a combattere con fatica, arrancando, ma vedendo sempre quella flebile luce in fondo al tunnel.

Uno degli articoli forse più spassosi e allo stesso tempo forieri di spunti di riflessione è Lo scherzo del rapper bianco, in cui l’autore analizza la storia di quello che, soprattutto negli Stati Uniti, è ancora visto come una sorta di “scippo culturale” alle radici dei neri. Partendo dai nomi che tutti conoscono, dal precursore Vanilla Ice al successo di Eminem, Abdurraqib crea una vera e propria mappa della musica rap degli ultimi trent’anni, pescando nomi perlopiù sconosciuti da noi (qualcuno ha mai ascoltato il rap/bluegrass di Bubba?) e seguendo un filo logico che porta fino a Macklemore, uno che “ha fatto quello che nessun altro rapper bianco è stato in grado di fare prima di lui”…”intenzionalmente o meno, ha deciso di usare il proprio privilegio per cannibalizzare il fatto di essere bianco, intaccando così la sua stessa mitologia”. La chiusa, una battuta che prometteva fin dalle prime righe dell’articolo, è perfetta:

In un paese che voleva con tutte le forze che diventasse colui che avrebbe dato al rap un futuro migliore, Macklemore ha invece scelto di diventare un uomo senza un Paese. Non è divertente?”

Lo scherzo del rapper bianco

Ho ripensato al racconto La mia vita da cane leggendo questo articolo, a giorni di distanza dalla prima volta, e rileggendola quella storiella vagamente edificante ha assunto una nuova luce. Palahniuk alla fine sembra soddisfatto dell’esperimento, nonostante le botte e le umiliazioni subite, tanto da affermare di provare “il genere di distacco, quella sensazione di autocontrollo, che un bianco può non provare mai per una vita intera”. Palahniuk (spiace dirlo perché sono sicuro che era in buona fede quel patatone) dà l’idea di aver fatto turismo nell’esclusione sociale ed esserne uscito con la convinzione che potrebbe sopravvivere a quella pressione ogni giorno del resto della sua vita: chissà cosa penserebbe Abdurraqib di questo scherzo dello scrittore bianco.

“No, Chuck, non la prendere così!”

Leggere Finché non ci ammazzano mi ha dato tanto su cui riflettere, mi ha trascinato in un vortice sonoro da cui sono emerso più consapevole, anche solo della mia ignoranza su certe situazioni e, per quanto faccia vergognare, è importante ricordarsene ogni tanto (e, certo, non fermarsi lì). Perciò grazie, Hanif, per avermi evitato la figuraccia di emulare Palahniuk andando in giro per Milano vestito da gatto: ora so che non avrei capito niente di più di quel che penso di sapere su cosa voglia dire sentirsi esclusi e minacciati costantemente.

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Pubblicato da Ficky

Nel (poco) tempo libero scrivo racconti, guardo film e serie tv, leggo libri, recito in una compagnia teatrale, partecipo a eventi culturali e vado a vedere un sacco di concerti. Ho scritto per anni di musica (Indie-zone, Stordisco, Asapfanzine) e spero di trovare il tempo di farlo ancora per molti anni a venire.

2 pensieri riguardo “Musica e attivismo: la formula di Hanif Abdurraqib in Finché non ci ammazzano

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