Recap elettronico: tre dischi usciti nell’ultimo mese che potreste voler recuperare

La vita è difficile, si ha sempre meno tempo di quello che si vorrebbe e, nel caso specifico di me (che pure sto scrivendo di lunedì mattina da casa, “godendomi” la cassa integrazione), finisco per avere un sacco di cose da dire e spesso mi tocca decidere se dirle oppure guardarmi un film, uscire a bere una birra, portare avanti il romanzo che sto cercando di scrivere e, qualsiasi sia la decisione, poi mi sento in colpa. Sono vittima della sindrome della performance? Sono in realtà un terribile fancazzista che si crogiola nella supposizione di essere vittima della sindrome della performance? E al popolo, di tutte ste fregnacce, che gliene frega? Niente, sicuramente, ma tutto sto pippone è solo per spiegare perché tante volte parlo di due cose alla volta, che siano dischi, film, serie tv o un mischione di tutto ciò: ebbene sì, lo sto facendo di nuovo, ma stavolta parlo di tre dischi.

In fondo ho trovato legami molto più arzigogolati di quelli che uniscono Niglio, The Hunting Dogs e Outblinker: tutte e tre le band giocano infatti in modi diversi con la musica elettronica e tutte sono all’esordio sulla lunga distanza, dopo una gavetta più o meno lunga. Bando alle ciance quindi, e sotto a chi tocca.

Ritmi danzerecci per giovani ombrosi

Sono due fratelli i Niglio, Pierdomenico (voce, elettronica, pianoforte, percussioni e chitarra elettrica) e Damiano (basso, contrabbasso, cori e sintetizzatore), lucani di Matera trasferitisi a Roma per continuare a inseguire il sogno di fare musica. Il loro obiettivo in Penombra (uscito il 10 maggio per Pluma Dischi e IRMA Records) è quello di mescolare le suggestioni elettroniche di fine anni ’90 e inizi anni ’00 alle tradizioni della terra natia, unendo a una strumentazione già di per sé variegata anche l’utilizzo, in un paio di brani (75100 e la title track), del cucù, fischietto in terracotta tipico di Matera.

Emerge sinceramente molto di più l’anima danzereccia nei nove brani del disco, pur se filtrata da chiaroscuri che giustificano in pieno la scelta del titolo. Penombra rimanda l’atmosfera di un party organizzato fra strutture in disuso, non un rave ma una situazione in cui la testa e le membra si agitano al ritmo di pulsioni ammorbidite, affogate in arrangiamenti che ne smorzano la tensione. Di per sé la scelta è azzeccata perché la varietà è uno dei pregi dell’album: Bersagli e Illusi rappresentano i lati più liberi e disincantati, quelli in cui si balla senza far troppo caso alle rovine tutto attorno mentre resiste ancora un po’ di luce, Tormenti con i suoi arpeggi di chitarra appoggiati a synth che fingono l’aggressività accoglie il buio, Amaranto vi si arrende con una lenta ascesa elettronica che dimentica in un angolo l’anima percussiva del duo, Essere aspira all’alba fra malinconia e ritmi che si fanno più trascinanti lungo i tre minuti scarsi del percorso. Potrei usare i termini 2-step e drum’n’bass per definire i confini elettronici della loro musica, così come fa il comunicato stampa, ma me ne intendo troppo poco per mettermeli in bocca senza citare la fonte: di sicuro i fratelli Niglio sono bravi a creare un mondo sonoro sfruttando svariati elementi (anche gli archi nell’intro della title track) che, ahimè, vengono però sminuiti dal cantato.

Non ho ascoltato molto la musica di Cosmo negli ultimi anni, eppure il suo influsso mi è sembrato chiaro prima ancora di scoprire che era effettivamente una delle tante influenze citate dai fratelli Niglio. Più che nella musica è nel modo di cantare di Pierdomenico (autore anche dei testi) che si sente, in quell’alternare citazionismo e malessere esistenziale che, sebbene ben calato nella contemporaneità,  appare più esposto che percepito e finisce per far calare una patina di scazzataggine su tutto. Nel party notturno organizzato dai Niglio si fa così caso prima ai partecipanti che si annoiano ai margini della pista, intenti a discorrere senza troppa enfasi dei fatti loro con un drink in mano, e serve del tempo per scaldarsi e lasciarsi andare: il mio consiglio è di concedere a Penombra più ascolti, senza fermarsi alla prima impressione, anche se nel mio caso nemmeno al decimo ascolto sono riuscito a levarmi di dosso l’impressione che il risultato finale sarebbe sembrato meno artificioso con un diverso utilizzo dell’elemento vocale.

Il connubio fra electro-pop e art-rock che non sapevate di aspettare

Sono un duo anche The Hunting Dogs, ma le atmosfere che ricreano con la loro musica sono completamente diverse da quelle dei Niglio. Alba Nacinovich (voce, harmonizer, chitarra, percussioni, beatbox) e Marco Germini (tastiere, synth, drum machines, vibrafono, percussioni) con We are (uscito il 10 maggio per Alka Record Label) puntano a un sound più allegro e scanzonato, provvisto di un sapore pop sconfessato sia dalla durata dei brani (spesso oltre i cinque minuti) che dagli arrangiamenti. Basta ascoltare Click clack, la terza traccia, per accorgersi di questa tendenza: un brano all’apparenza semplice, incalzante nel suo affidarsi al cassa-rullante più basico possibile e ad un riff di chitarra semplice e trascinante, cui si appoggiano tastiere e synth a comporre un quadro di pura leggerezza gioiosa, che a metà parte per una divagazione strumentale con tanto di assolo distorto inaspettata ma perfettamente amalgamata col resto.

È uno schema che replicano anche nella successiva White sheets i The Hunting Dogs, salvo che salta fuori in tutta la sua esplosività l’elemento “art” citato nel cappello introduttivo, affidato anche, ma non solo, alla voce caleidoscopica di Nacinovich. Un po’ Veronica Lucchesi de La Rappresentante di Lista, un po’ Courtney Swain dei Bent Knee, la voce dei The Hunting Dogs riesce a catalizzare sia gli aspetti più pop che quelli più bizzarri della musica del duo, senza mai strafare ma adattandosi anzi ad un contesto sonoro che già di suo cerca di essere il più mutevole possibile. Svariare nello stesso disco dalle fumose atmosfere jazz (genere che entramb* l* componenti della band hanno studiato a fondo) con tanto di sax della circolare Less yellow al pop elettronico dai ritornelli adorabilmente sghembi di Hunting dogs (su cui Nacinovich declama come se fosse la voce registrata vagamente schizoide di un treno senza ritorno) sarebbe già lodevole, ma il duo si permette incursioni in territori trip-hop (The dentist) e vira persino verso uno scarno e delicato episodio a base di piano, archi e voce (Voodoo wood, canzone inserita nella colonna sonora del film Il confine è un bosco di Giorgio Milocco).

È difficile al primo disco (pur se anticipato nel lontano 2015 da un Ep, Out to hunt, che testimonia della lunga militanza del duo) avere già un suono riconoscibile e una spiccata personalità: i The Hunting Dogs con il loro autodefinito Electro-shocked pop ci riescono in pieno, e all’interno delle nove tracce di We are troverete altre sorprese ad attendervi.

Synthwave-kraut.post-rock con attitudine DIY

Oltre che con le mie inutili premesse infarcite di parentesi c’è un’altra cosa con cui presumo di aver ammorbato gli affezionati quattro gatti che ancora popolano questo blog/aspirante rivista letteraria: i Fuck Buttons. Aspetto da un decennio buono un disco che arrivi alla magnificenza esagerata e fieramente tamarra di Slow focus, l’ultimo disco di Andrew Hung e Benjamin Power, ma i due hanno preso carriere separate e all’orizzonte di album del genere non ne ho visti avvicinarsi: quando però mi è arrivato il comunicato stampa di Outblinker, disco omonimo della band scozzese, e ho visto il nome di Power alla produzione mi sono brillati gli occhi. Quando poi ho ascoltato la prima traccia Walter Peck gli occhi hanno smesso di brillare e sono diventati definitivamente a cuore, perché nella canzone che apre il disco d’esordio degli Outblinker (uscito il 31 maggio per la francese Araki Records, la britannica GoldMold Records e l’italiana Bloody Sound) c’è tutta quella capacità di affastellamento di suoni equilibrata ed esagerata allo stesso tempo che non ho più ritrovato nei singoli progetti dei due Fuck Buttons.

Come i The Hunting Dogs la band di Glasgow è in giro dal 2015, e negli anni ha prodotto una manciata di Ep prima di affrontare con una certa difficoltà (ma chi non lo ha fatto) il periodo della pandemia. Nove anni sono comunque un tempo più che rispettabile per delineare un proprio suono (e una propria filosofia, orgogliosamente impostata sul Do It Yourself) che, a dispetto della prima canzone, è molto più sfaccettato di quanto mi potessi aspettare. Più si avanza nell’ascolto di Outblinker più emerge l’amore per il post-rock del gruppo, un post-rock fortemente elettronico in cui i synth la fanno da padroni ma che assembla attorno a questo impianto una batteria sempre più presente, arrangiamenti che smettono già dalla seconda traccia Techno viking di basarsi esclusivamente sull’accumulo e che sfruttano una voce fortemente robotizzata come ulteriore elemento sonoro. La band composta da Fraser McPhail, Luigi Pasquini, Chris Cusack e David Ian Warner muta nell’arco di sei sole tracce in un mix di elementi che mescola suggestioni orientaleggianti (la già citata Techno viking, affine e allo stesso tempo distante anni luce da questa figura) al rock sintetico dei Mutiny On The Bounty (Cerimor e alcuni momenti di Grimey, che si apre con un riff monolitico che farebbe la felicità di qualsiasi gruppo e invece lo molla per avviarsi con dinamica ondeggiante verso il paradiso dei synth: la palma di miglior brano del lotto è assegnata) per poi lanciarsi nello spazio con le synthate siderali di DDDavid e chiudere in bellezza, in un percorso coerente nella sua amplificazione di orizzonti, con gli otto minuti abbondanti della mutevole Cargo 200, trascinata da una chitarra fuzzosa che a tratti alterni detta legge in un mare di suoni elettronici.

Sapevo di volere un disco che battagliasse ad armi pari con Slow focus, ma non sapevo che potesse essere un disco così diverso da quel capolavoro. Gli Outblinker vanno a riempire un vuoto personale e sono consapevole di essere di parte nel giudicare questo disco, ma penso di riuscire anche a mantenere un certo margine di oggettività nel definirli qualcosa di diverso e più ampio rispetto ai Fuck Buttons, qualcosa che può piacere tanto agli appassionati di una certa elettronica che accumula synth su synth quanto agli ascoltatori di post-rock dalla mente aperta, più un sacco di gente nel mezzo: non aspettatevi solo qualcosa di sobrio, qui le orecchie vengono prese amorevolmente a randellate.

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Pubblicato da Ficky

Nel (poco) tempo libero scrivo racconti, guardo film e serie tv, leggo libri, recito in una compagnia teatrale, partecipo a eventi culturali e vado a vedere un sacco di concerti. Ho scritto per anni di musica (Indie-zone, Stordisco, Asapfanzine) e spero di trovare il tempo di farlo ancora per molti anni a venire.

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