Se volete farmi felice, fatemi scoprire qualcosa che non conosco. Ma se volete farmi DAVVERO felice, fatemi scoprire qualcosa che assomiglia a ciò che conosco già e che prova a superarlo a destra.
In fondo ognuno di noi ha una sua comfort zone, e le mie non funzionano in maniera così dissimile da quelle degli altri. La differenza, forse, è che a stimolarmi sono i paragoni non tanto con artist* che adoro, ma con artist* con cui ho un rapporto più complicato, gente che fa cose che mi piacciono magari la metà delle volte ma in cui vedo il potenziale di creare ciò che sarà la mia personale next big thing (oh, quanti termini stranieri oggi! Va a finire che il governo mette fuori legge Tremila Battute). Ça va sans dire (aridaje) la maggior parte delle volte resto deluso, ma non mi arrendo. Capita ad esempio ogni volta che esce un disco dei The Mars Volta, o che qualcosa viene paragonato a loro.

Quando mi è arrivato il comunicato stampa dell’album dei Klidas, band marchigiana attiva dal 2014 ma giunta solo oggi all’esordio discografico, il nome della formazione di El Paso campeggiava fra le influenze insieme a gente del calibro di Radiohead e Swans (ammetto di non conoscere né i Secret Chiefs 3 né i Pirate, altri punti di riferimento citati), e amen se l’ultimo disco di Bixler Zavala, Rodriguez-López e soci non mi aveva proprio entusiasmato: io questo ensemble di musicist* dovevo ascoltarlo.
No harmony, uscito il 2 giugno per l’etichetta australiana Bird’s Robe, è un disco bizzarro. La band (Emanuele Bury chitarra e voce, Francesco Coacci basso e voce, Samuele De Santis sassofono, Alberto Marchegiani tastiere e synth e Giorgio Staffolani batteria, cui si aggiungono live la voce e la chitarra di Lisa Luminari e il sax di Francesco Fratalocchi) spazia in maniera agile fra tempi dispari, atmosfere noir, sfoghi elettrici e momenti riflessivi, amalgamando bene il tutto senza che si avvertano scossoni in corsa. Dal jazz alla psichedelia, dal rock alternativo al prog, proprio come recita il comunicato stampa: ma c’è anche l’ispirazione?

All’inizio del disco, onestamente, sembra latitare un po’. Per un gruppo che fa musica quasi esclusivamente strumentale (la voce appare solo in brevi momenti di Shine e Arrival) l’atmosfera è fondamentale, ma Shores come apripista fallisce nel crearla: gli strumenti ci si dannano, evocano una malinconia che si fa forza delle note dolenti del sax e del phaser sulla chitarra, intessono alchimie efficaci, ma a conti fatti quando arriva la tempesta finale dopo la quiete ci si accorge che la tensione non è mai veramente montata. Shine, la seconda traccia, fa un po’ meglio, evocando inizialmente immagini di locali equivoci dove andare a bere il bicchiere della staffa con persone a cui la vita non ha tolto solo la dignità, poi però si fa prendere dalla frenesia di dire qualcosa in più e, pur intrattenendo fra continue rincorse e momenti di pausa, perde il fascino fin lì acquisito. Dimostrano di essere ancora acerbi i Klidas con questa mezza falsa partenza, parzialmente anche nei suoni perché la chitarra distorta che parte ad accordoni sul finale di Shine è una rasoiata di frequenze alte che ammazza dinamiche e poesia, e si fa notare (spesso negativamente) anche in altri punti del disco. Poi però arriva Not to dissect, e il discorso cambia.
La terza traccia di No harmony è la più breve del lotto, ma riesce comunque a dire tanto. Jazz-prog trascinante, non ha bisogno di cambiare pelle perché ne ha già una splendida: il sax si tira dietro la baracca gigioneggiando su una base ritmica e armonica coesa, efficace nei punti in cui deve spingere e capace di un’accelerazione finale che finisce di botto, lasciandoti sulla punta della lingua un “ancora” che fin lì non sapevi di voler pronunciare. È il primo asso nella manica che si giocano i Kildas, ma non l’unico.
Arrival gioca la carta della morbidezza, scorre placida cullando le orecchie ma rischia di passare inosservata finché nel finale il jazz non prende il sopravvento, lasciando ad una voce giapponese (quella di Manami Kunitomo) e a rade note di chitarra il compito di chiudere un conto sostanzialmente in pareggio. Circular, contrariamente alla traccia precedente, parte subito con un giro di chitarra che setta un ritmo indiavolato, farcito di pause che riescono a mantenere il mood anche quando a tirare avanti la baracca si trovano solo synth, tastiera e una batteria minimale: l’ascesa finale si prende i tempi giusti sia come volumi che come velocità e quando la butta in una caciara che sa di post-hardcore (che a me ha ricordato certe cose dei discioltissimi Triclops!, giusto per citare una band che da queste parti mi sa che ho ascoltato solo io) tutto esplode proprio come ti aspetti che dovrebbe fare. Partire con un arpeggio che ricorda un po’ i Tool nella conclusiva The trees are in misery a quel punto sembra un po’ un azzardo, invece basta che entri la batteria a ribaltare il giro di chitarra e ti ritrovi come il Di Caprio del meme di cui sopra: quando entra la distorsione/rasoio temi che tutto vada sprecato cercando la soluzione più facile, invece i Klidas hanno il coraggio di rallentare, alternare con precisione certosina chitarra e tastiera nella fase centrale mentre basso e batteria continuano a tessere la loro tela ritmica, rispolverare il sax in tempo per un assolo da applausi e chiudere ritornando con nonchalance a un giro esplorato cinque minuti prima. Ora gli assi sono tutti calati, e la partita è vinta.
Vinta sì, ma con riserva. I Klidas sprecano quasi mezzo album a far vedere cosa sanno fare prima di farlo sul serio, come la demo di un programma di cui devi saggiare le potenzialità. Non superano a destra i The Mars Volta, a ben guardare ci hanno a che fare solo marginalmente, ma mi sa tanto che il prossimo disco lo ascolterò sperando nel the next big thing: non deludetemi raga.
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