Da parecchi anni, almeno una decina suppergiù, ci sono due dischi a cui torno spesso quando mi passa la voglia di ascoltare sempre e solo qualcosa di nuovo: Young machetes dei compianti Blood Brothers (compianti nel senso che si sono sciolti, i componenti che io sappia stanno tutti bene) e Slow focus dei Fuck Buttons. Sono dischi che, in maniera completamente diversa, appagano la mia sete di varietà, di costruzione semplice e allo stesso tempo cervellotica delle canzoni, di qualcosa in cui perdermi ogni volta come fosse la prima. Posso dire con certezza che stanno nella mia top ten degli album migliori mai ascoltati e sono fra le poche esperienze musicali che mi fanno dire “eh, ne facessero più spesso di dischi così”, li adoro anche nelle loro imperfezioni e forse anche per questo: le imperfezioni stanno lì a dimostrare che chi li ha creati e suonati non pensava ad altro che alla Musica, con la M maiuscola, e non al pubblico che ne avrebbe fruito. Quando ho ascoltato per la prima volta, in colpevolissimo ritardo (è uscito nel giugno scorso), O monolith dei britannici Squid per una volta sono riuscito a ritrovare quelle stesse sensazioni, ed è questo il motivo per cui inauguro il 2024 di Tremila Battute parlandovi di un album dello scorso anno, introducendolo parlando di album di dieci e più anni fa.
Degli Squid non sapevo niente fino a inizio gennaio. So ancora poco, visto che ho ascoltato solo qualche brano del precedente Bright green field e niente dall’Ep d’esordio Town centre, ma quel poco non mi ha preparato psicologicamente all’esperienza. Il buongiorno però si vede dal mattino, come dice un famoso detto non sempre veritiero, e allora già l’inizio di Swing (In a dream), brano d’apertura del disco, fa promesse che vengono poi mantenute alla grande: un minuto scarso per passare con nonchalance da una tastierina d’atmosfera a un incastro di chitarra, basso e batteria (a cui si aggiunge pure una meravigliosa tromba) che stravolge quello che sembra essere l’andazzo, creandone fluidamente un altro che poi verrà stravolto ancora e ancora, sempre lasciando l’impressione che ci sia una sorpresa dietro l’angolo e che sarà quella giusta. Un buon brano può essere comunque uno specchietto per le allodole, anche quando finisce in caciara dopo aver mantenuto alta la tensione con strofe mai uguali e ritornelli che ti tirano dentro come pochi, ma questo è il caso in cui le cose vanno per il verso giusto e quando arriva Devil’s den si capisce già che qui ci sarà da divertirsi.

Sono in cinque gli Squid, Ollie Judje (voce e batteria), Louis Borlase (chitarra, basso e cori), Anton Pearson (chitarra, basso, percussioni e cori), Laurie Nankiveli (basso, fiati e percussioni) e Arthur Leadbetter (tastiere, archi e percussioni), e basta già la voce di Judge a tradirne la provenienza dalla perfida albione. Alla voce “genere” wikipedia mi dice subito post-punk ma è riduttivo, imbrigliante, e il fatto che escano per un’etichetta dedita alla ricerca sonora (nel bene e nel male) come la Warp Records dovrebbe già stabilire che non è tutto lì e anzi. Devil’s den inizia sussurrata, un arpeggio claudicante di chitarra ad accompagnare la voce, poi arrivano brevi bordate in quelli che potremmo chiamare con molta fantasia ritornelli e una tastiera acida e malata per portarci verso un mondo schizofrenico, in cui il tiro si alza sempre più e la crescita sembra infinita (altro che il capitalismo) salvo che poi si chiude di botto e passiamo ancora ad altro. Sono bravi a portare al parossismo le loro idee gli Squid, a salire con dinamiche calcolate al millesimo per ottenere l’effetto più dirompente, ma sono bravi anche a variare il tono e riportarti giù per poi farti schizzare un’altra volta, in maniera diversa eppure simbiotica: Siphon song fa esattamente questo, rappresenta l’anello di congiunzione fra gli Air e il noise e ci mette i suoi bei minuti per rivelarlo, passando dalla vocina vocoderizzata a un connubio di chitarre impazzite e cori affastellati uno sopra l’altro, poi cala di botto e comincia a risalire, senza l’intenzione di ritornare a dov’era arrivata ma semplicemente dicendoti “ah sì, ci eravamo dimenticato che potevamo fare anche questo”, e allora lo fanno. Post-punk? Sì, se Nick Cave e i suoi The Birthday Party si fossero drogati (ancora) di più (e non sto dicendo che gli Squid si droghino).
Sono narrazioni in note quelle della band nata a Brighton, merito di musiche che si sposano alla perfezione con la camaleontica voce di Judje e con testi allusivi e inquietanti, mai chiari nel loro delineare scenari che forse è meglio non esplorare a fondo. Il vocalist principale della band si trova a suo agio in ogni situazione, che sia il monocorde crescendo di After the flash o l’alternarsi di ammiccamenti e improvvisi squilli in Undergrowth, brano che si apre con un clamoroso giro di basso che ti pompa il sangue nelle vene e continua nonostante la meravigliosa distrazione di una chitarra zoppicante, messa lì apposta per dare fastidio nella maniera il più appagante possibile. Gli Squid sanno anche essere pettinati e orecchiabili, questo inizio lo dimostra e fanno altrettanto i frammenti più ammiccanti di Green light, dove la band si traveste efficacemente da The Strokes, e l’inizio di The blades, uno dei pezzi più migliori del disco, che li mostra così tanto indie fino a che non iniziano a strapparsi i vestiti di dosso arrivando dopo continui saliscendi a un punto in cui una coltre di fiati da giorno del giudizio in un vecchio west steampunk accompagna Judje che sbraita come un predicatore folle di persone con le braccia spalancate pronte ad essere potate come vecchi fili d’erba (scusate dovevo dirla tutta d’un fiato, chissenefrega delle virgole): nel caos che si crea ci sta anche che il finale sia sussurrato in un silenzio relativo, deludente per il modo in cui ti toglie il boccone di bocca ma adorabile nel suo fregarsene della tua delusione.
O monolith sembra il frutto di sessioni e sessioni di improvvisazione tanto sregolata quanto ragionata, e il modo più adatto di esemplificarlo è probabilmente After the flash. La sesta traccia del disco inizia nella maniera più secca e scarna possibile, sospinta dolentemente avanti dal cantato monocorde cui accennavo più in alto e da un riff semplice e ipnotico, una ripetizione che sale di dinamica quanto la tensione, ma quando ti aspetti l’esplosione gli Squid invece interrompono le trasmissioni, salvo riprenderle con un synth che emerge ad infondere di luce angelica il tutto, anche quando voce, chitarra e il codazzo di strumenti a seguire tornano a farsi vivi, sempre ossessivi, sempre malignamente in agguato come la tromba che entra e si fa pian piano dissonante, facendo cadere a pezzi l’impalcatura di una impossibile gloria. Svolte del genere non le pensi razionalmente, non puoi arrivare in sala prove e la prima cosa che ti viene in mente è questa: serve tempo per sperimentare, lasciarsi andare a tutto ciò che ti può venire in mente… O forse chissà, è stato tutto davvero naturale e fluido e oso sperarlo, perché vorrebbe dire che dalle mani di questi cinque inglesi può venire fuori qualsiasi cosa anche in futuro.
Tutto perfetto? Mi verrebbe da dire di sì, in tutte le svolte improvvise e assolutamente azzeccate che prende O monolith, curve a U e invasioni di corsia comprese, ma la verità è che l’ultimo brano del lotto è una parziale (parzialissima) delusione. Ma non è colpa del brano in sé, trascinato da una sezione ritmica intricata e morbida al tempo stesso che nel finale sfocia in una malevola marcia inquisitoria in cui le voci all’unisono dei membri fanno sembrare rassicurante il coro dei freaks dell’omonimo di film di Tod Browning, quanto del titolo: se chiami una canzone If you had seen the bull’s swimming attempts you would have stayed away alzi l’asticella delle aspettative al massimo, e non era facile soddisfare la drammaticità epica e banale della storia che mi ero creato in testa. Per il resto ho solo un dispiacere: quando a fine anno mi chiederanno qual è stato il mio disco preferito dei dodici mesi che verranno temo che dovrò rispondere con un disco dell’anno precedente.
Ti è piaciuto questo racconto/articolo? Segui la pagina Facebook di Tremila Battute!
Scarica il numero Zero e il numero Uno della fanzine di Tremila Battute!
Una opinione su "Doverosi recuperi dal 2023: O monolith degli Squid"