Esco dal mio corpo e ho molta paura: The substance e It’s what’s inside

Da che David Cronenberg si è messo a fare cinema, sdoganando forse non per primo ma almeno per più influente un rapporto disturbante fra corpo umano e settima arte, di mutazioni ne sono passate parecchie davanti alla cinepresa. L’horror è ovviamente il genere che più ha esplorato il modo in cui un corpo poteva essere piegato alle leggi della cinepresa, motivo per cui è stata appropriatamente coniata l’etichetta body horror, anche se parecchie pellicole si sono poste a margine fra i generi nel loro tentativo di dire qualcosa al riguardo. La fantascienza in particolare, in maniera connaturata alla sua aspirazione a prefigurarsi il futuro dell’umanità (o, nei casi più estremi, oltre l’umano) è un terreno altrettanto fertile per le riflessioni corporee: La mosca dello stesso Cronenberg viaggia sulla linea di confine dove la scienza porta all’orrore, ma possiamo infilarci senza grossi problemi anche La cosa di John Carpenter o Stati di allucinazione di Ken Russell.

Su quel confine viaggiano anche due film recenti, uno spostato più verso il lato horror e l’altro più verso il lato fantascientifico. Il primo l’avete probabilmente visto arrivare, spinto da un battage pubblicitario abbastanza corposo (che non gli ha comunque fruttato una presenza in sala delle grandi occasioni, almeno per la mia limitata esperienza milanese) ovvero The substance, opera seconda della regista francese Coralie Fargeat; l’altro è un originale Netflix uscito direttamente su piattaforma, It’s what’s inside, che oltre a sembrare uno scioglilingua è l’esordio sulla lunga distanza del regista Greg Jardin.

Femminismo splatter?

Elisabeth Sparkle (Demi Moore) ha un grosso problema: sta compiendo cinquant’anni, e il network per cui conduce un programma di fitness ha deciso come regalo di recapitarle un bel licenziamento. Troppo vecchia per quel ruolo, per qualsiasi ruolo in realtà, questa l’amara verità che scopre nella maniera peggiore, origliando involontariamente la conversazione telefonica in cui il produttore dello show Harvey (Dennis Quaid) prefigura con commenti umilianti la sua sostituzione. Dato che la fortuna è cieca ma una sceneggiatura impietosa ci vede benissimo la nostra eroina sul viale del tramonto riesce a infilare nel conto delle sfighe anche un bell’incidente automobilistico sulla via di casa, per fortuna senza conseguenze come le evidenzia il dottore all’ospedale: peccato che lei, comprensibilmente, non sia dell’umore per godersi l’unica buona notizia della giornata. A tirarle su il morale ci prova allora un medico più giovane, che trattenendola per un ulteriore esame la giudica idonea a un trattamento che, come scoprirà successivamente contattando un numero misterioso, le darà una seconda possibilità… Attraverso un’altra versione di sé. Con una semplice procedura in tre fasi dal corpo violato di Elisabeth spunta Sue (Margaret Qualley), giovane, bella e intraprendente, pronta a prendersi tutto ciò che la vecchia star non può più avere. C’è una sola regola da non infrangere: le due donne sono una, e devono scrupolosamente dividersi il tempo una settimana ciascuna. Cosa può andare storto?

Sarà mica così difficile ricordarsi un unico concetto

Il mondo dello spettacolo è una merda, sfrutta i corpi delle donne e li butta via quando non sono più all’altezza degli standard che vecchi maschi bianchi hanno decretato. È una verità assodata che Fargeat urla alle orecchie e agli occhi del pubblico, senza problematizzare granché perché in fondo ormai lo sappiamo tutt*, come sappiamo che saperlo non impedisce al sistema di funzionare (quasi) alla stessa maniera ancora oggi. Sbarcando a Hollywood la regista dimostra poco interesse per un’accurata analisi del mondo dello spettacolo, tantomeno per una edificante storia di riscatto: presi gli elementi di cui sopra, l’unico interesse di Fargeat è alzare il volume al massimo. Ne esce fuori un film esteticamente eccessivo, pieno di primi piani esasperati e di scelte stilistiche aggressive, condito da una trama che lascia le sfumature e la plausibilità a qualche chilometro di distanza (nel pacchetto “versione migliore di te” pare siano compresi anche gli upgrade “ingegnere” e “muratore”) e si allontana velocemente anche da ogni pretesa di vedere Sue nei panni di chi cambierà le cose dall’interno o Elisabeth in quelli del personaggio per cui provare empatia: The substance è un film di gente terribile, invischiata nel patriarcato e nelle sue lusinghe di successo senza alcuna possibilità di distaccarsene.

In pensione però si sta peggio

La cosa strana è che, nella sua totale mancanza di approfondimento a livello di trama (Fargeat fa dire chiaramente le cose ai personaggi, con tutti i puntini sulle i, in maniera così didascalica che viene da chiedersi se abbia paura che i tre concetti in croce possano sfuggire o se sia una bizzarra scelta volontaria: a Cannes le hanno dato il premio alla miglior sceneggiatura, presumo propendendo per la seconda opzione), il film riesce ad essere tematicamente efficace proprio grazie alle immagini. The substance butta in faccia all* spettator* culi e tette talmente spesso e in maniera talmente ravvicinata che provoca nausea piuttosto che eccitazione, giocando con gli zoom e il ritmo al punto da far sembrare anche il consumare un cocktail di gamberi qualcosa di disgustoso. L’assalto sensoriale non impedisce di annoiarsi in alcuni punti, nonostante lo sviluppo della storia fughi subito qualunque dubbio sul fatto che le cose andranno male (dopo quante settimane secondo voi Sue violerà la sacra regola?) e nonostante l* attor* facciano del loro meglio per dare il peggio (Quaid si diverte un sacco a farsi odiare, e vederlo a un certo punto in mezzo a un board dirigenziale di soli maschi bianchi anziani strappa una grossa risata): poi però si arriva alla fine.

Approvato dalla direzione!

The substance è il classico film pubblicizzato tramite gli svenimenti avvenuti in sala. Quante ne avete sentite di storie del genere? Tante. E quante volte siete rimast* delus* una volta arrivat* in sala? Troppe. Il film di Fargeat, al netto di una componente di body horror piuttosto corposa e debitamente disturbante, sembra andare sulla stessa china fino a quando la regista non decide che il volume  a dieci su dieci non sia abbastanza e prova ad arrivare a quindici: più mutazione, più sangue, più TUTTO. Ho sentito spendere paragoni con un sacco di film, e di questi probabilmente quello più azzeccato (e per intenditori) è con Society di Brian Yuzna, analogamente apocalittico nel finale ma forse ancora un passo indietro: il finale di The substance sembra più un liberatorio scontro fra il film di Yuzna e (riferimento ancora più di nicchia) Tokyo Gore Police, qualcosa di talmente oltre che, per la prima volta in vita mia, ho capito almeno in parte il punto di vista di chi è uscito dalla sala in posizione orizzontale. Avrei preferito un film più profondo? Sì. Sarei disposto a sacrificare questo finale per averlo? Non lo so, ma il dubbio è già un mezzo consiglio per fiondarvi al cinema.

Cambia il tuo corpo con un click

Avete presente quella specie di screen saver che parte quando lasciate una serie o un film in standby su Netflix per troppo tempo? La grande N comincia a proporre altri contenuti, la maggior parte dei quali è pubblicizzata tramite immagini statiche in cui tutt* l* membr* del cast guardano in camera in maniera palesemente artificiosa. Non so a voi, ma a me fa venire voglia di tenermi il più possibile alla larga da quei film/serie: per lo stesso motivo, quando ho visto l* protagonist* di It’s what’s inside nella stessa posa, ancora più estremizzata, ho pensato “questo non lo guardo neanche morto”. Poi però ho letto questa recensione che mi ha convinto a dargli una chance, e con mia grande sorpresa ho scoperto che quello era uno screenshot del film e che aveva il suo senso, anche se non mi toglie la convinzione che sia la scelta sbagliata: fa infatti sembrare stupido un film che non lo è per niente.

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Il punto di partenza di It’s what’s inside è la classica riunione di gruppo fra ex compagni di scuola, quella che nei casi migliori (cinematograficamente) porta a Il grande freddo e nei casi peggiori (sempre cinematograficamente) al terzo American Pie. Analogamente a quest’ultimo è il matrimonio di un componente della vecchia banda a fungere da collante, mentre come nel primo basta poco per mettere sotto i riflettori problematiche irrisolte: quel poco però assume le sembianze di uno strano macchinario analogico, portato alla festa dal classico elemento “genio e sregolatezza” Forbes (David W. Thompson), che promette di far vedere a tutt* le cose dal punto di vista dell* altr*. E mantiene quella promessa.

Vuoi non fidarti di una faccia così?

Fin dai primi minuti si capisce che Jardin, al pari di Fargeat, ci tiene a fare del suo film una lezione di stile. Laddove però Fargeat si affida a una messinscena solida e stabile, almeno fino a quando non decide di sbroccare diabolicamente, Jardin applica il pericoloso metodo del “guarda mamma senza mani” che Foster Wallace ha magnificamente delineato (pur non riuscendo a tenersene lontano), ovvero la tendenza a mettersi in mostra facendo vedere quante cose si sanno fare: fermo immagine, telecamera rotante attorno ai personaggi, utilizzo artistico dei colori, didascalie, cani e gatti che dormono insieme, tutto mischiato in una maniera che nel 99% dei casi porta alla noia. It’s what’s inside ha però al suo arco una freccia che lo fa ricadere in quel misero e meritevole 1%, cioè un’ottima sceneggiatura, scritta anche in questo caso dal regista stesso e arzigogolata abbastanza da giustificarne i vezzi stilistici. Gran parte del fascino della pellicola è data proprio dalla trama, dalla curiosità di vedere come reagiranno l* presenti all’esperienza sulle prime scioccante di trovarsi nei panni di qualcun* altr*. Quale sarà il loro primo pensiero?

SCOPARE!

Scusate ma non sono riuscito a trattenermi dal mettere un Maccio Capatonda d’annata, anche perché in fondo è proprio l’attrazione fisica il motore degli eventi. Il promesso sposo Reuben (Devon Terrel) è attratto dalla spirituale Maya (Nina Bloomgarden) la coppia composta da Shelby (Brittany O’Grady) e Cyrus (James Morosini) ha grossi problemi relazionali acuiti dalla fascinazione di quest’ultimo per l’ex compagna e ora influencer di successo Nikki (Alycia Debnam-Carey), le smanie giovanili del figlio di papà Dennis (Gavin Leatherwood) per Beatrice (Madison Davenport), la sorella di Forbes, hanno portato a incomprensioni che si riverberano nel presente e anche Brooke (Reina Hardesty), più interessata allo sballo che al sesso, sembra mutare d’opinioni una volta che la propria mente si ritrova in un corpo diverso. O forse è la propria anima? In questa situazione esplosiva la valigetta che contiene il misterioso macchinario di Forbes fa da detonatore, ma i veri problemi devono ancora arrivare e spoilerarli significherebbe togliere gran parte del piacere della visione.

“Ma va, starà esagerando!”

C’è poco horror in It’s what’s inside, ma i “body” rivestono un ruolo fondamentale. Il cast, composto completamente da sconosciut* (almeno a me) di belle speranze, riesce in maniera perlopiù credibile a restituire il diverso modo di abitare un corpo da parte di una diversa persona, un elemento fondamentale per sorreggere la sceneggiatura di Jardin che, efficaci e spesso giustificati trucchi registici a parte, vince la propria scommessa proprio grazie all* attor*. Il film non ha la carica sovversiva e divisiva di The substance, ma è un congegno ad orologeria ben interpretato, ben diretto, ottimamente scritto (alcuni spunti non approfonditi, tipo l’utilizzo della parola con la N da parte di chi si potrebbe trovare nel corpo di Reuben, fanno ragionare anche una volta finita la visione) e capace nel finale di spiazzare anche senza bisogno di alzare il volume oltre scala: bravo Jardin, speriamo che la prossima volta non cerchino di segarti le gambe in sede di promozione.

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Pubblicato da Ficky

Nel (poco) tempo libero scrivo racconti, guardo film e serie tv, leggo libri, recito in una compagnia teatrale, partecipo a eventi culturali e vado a vedere un sacco di concerti. Ho scritto per anni di musica (Indie-zone, Stordisco, Asapfanzine) e spero di trovare il tempo di farlo ancora per molti anni a venire.

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