Se non sai cos’è allora è weird: >>>> dei Beak>

Scrivere di musica è come ballare di architettura, diceva qualcuno il cui nome ora non è importante andare a cercare su Google (davvero, potete farlo dopo. Non fatelo. Vi ho visto!), scrivere di musica senza avere il giusto bagaglio di conoscenze è come ballare di architettura senza avere né il senso del ritmo né la minima conoscenza di cosa sia un edificio. Ho già confessato più volte la mia scarsa conoscenza della strumentazione utilizzata da chi fa musica elettronica (ma torno comunque sul luogo del delitto, come se bastasse dire “non posso smettere” per non farsi incarcerare dopo aver rapinato la ventesima banca), ma la verità è che ho una scarsa conoscenza di tutto (o quasi) ciò che esula dall’armamentario rock classico. Che suono fa un oboe? Fatemelo ascoltare, aspettate due giorni, suonatelo mentre io non vedo e probabilmente vi chiederò che strumento è. A livello sonoro so cosa mi piace, so cosa non mi piace, ma la mia memoria di ciò che sento solamente poche volte è più simile a quello della pesciolina Dory che a quella eidetica: so anche però che quando non capisco qualcosa mi sale la curiosità.

I Beak> li ho scoperti per caso tramite Spotify, in una delle playlist ad hoc che l’algoritmo crea pensando di intercettare i miei gusti mentre io, rebel without a cause, faccio di tutto per impedirgli di capire quali siano. Con questa canzone però ci avevano azzeccato in Svezia, perché la prima traccia di >>>, il disco precedente del trio di Bristol (Billy Fuller, Matt Williams e l’ex Portishead Geoff Barrow, sotto la cui etichetta Invada escono tutti i loro dischi), aveva sia una certa potenza trattenuta che un andamento sghembo e imprevedibile: il primo incontro mi ha portato a flirtare un po’ con quel disco, ascoltato un paio di volte prima di accorgermi che qualcosa era scattato ma non il classico colpo di fulmine, poi io e i Beak> ci siamo lasciati da buoni amici e ci siamo detti alla prossima, che è la classica cosa che dici quando pensi che non vi rivedrete mai. Infatti non ci siamo rivisti, almeno fino a quando non è uscito >>>>.

Non ho seguito tutta la carriera del trio di Bristol, ma ad un ascolto distratto dei precedenti album la loro carriera mi pare la continua affinazione di un sound che frulla dentro il rock della tradizione più lisergica e una componente elettronica a suo modo hauntologica, figlia del presente ma ancorata all’illusione di un passato edenico o di un retrofuturo irrealizzato, più un tot di altre cose che vanno dal post punk alle colonne sonore degli anni 70. >>>> è il punto esatto in cui tutte queste influenze arrivano alla loro amalgama migliore, ridefinendosi in maniera apparentemente caotica nella forma di nove brani fra cui non troverete un solo doppione ma la sensazione, quella sì vivissima, di trovarvi in un posto che non pensavate di voler raggiungere ma che, una volta passatoci un po’ di tempo, rivela la magia dietro al brivido che continua imperterrito a corrervi lungo il collo.

Non ci tengono a gettarci velocemente nel loro mondo i Beak>, anzi lo fanno con tutta la calma del mondo. In un disco dove i brani durano mediamente oltre cinque minuti Strawberry line ci accoglie con un organo ecclesiastico che per metà degli otto minuti del percorso sonoro predica nel deserto con la sola flebile voce di Barrow a fargli compagnia: poi entrano basso e batteria dal sapore vintage e solo tastiere e synth nel finale ci ricordano che non siamo negli anni 60 ma nel loro riflesso distorto, una parodia si direbbe se non fosse che qui c’è amore per la fonte e non il semplice scimmiottamento di qualcuno che la utilizza solo per fare tutt’altro. Se la Summer of love non ti è entrata un po’ dentro, tanto nel cuore quanto nel cervello, non ti esce il bucolico viaggio introspettivo di Hungry are we, un brano che avrebbero potuto benissimo suonare a Woodstock con la gente davanti beatamente seduta nella posizione del loto senza che nessuno si accorgesse del loro provenire da un’altra epoca se non quando sul finale si lasciano andare a un ritmo più concitato. La cosa strana è che brani simili, già distanti parecchio l’uno dall’altro, si amalgamano perfettamente all’interno del costrutto sonoro architettato (ma non ballato) dal trio, che spande quella bizzarra atmosfera atemporale su tutto e fa sembrare ovvie le derive più imprevedibili, solo non abbastanza da non riuscire a stupirci ogni volta.

Ma vogliamo parlare di questa cover? Vogliamo parlare di quanto è fuori questa cover?

Perché poi non finisce qui eh? Mentre ci trasportano in un mondo malinconicamente fatato i Beak> non si dimenticano della componente weird che ho messo nel titolo dell’articolo, e basta andare a Windmill Hill per fare il pieno di inquietudine, ritrovandosi nella colonna sonora di un film horror drogato fino alla punta dei capelli (e di colonne sonore Barrow se ne intende, andate a vedervi i film in cui ha lavorato). I suoni della terza traccia hanno una grezzaggine allucinata che grattugia il già labile confine con la realtà, fra le fuzzate del basso, gli accordi obliqui della chitarra e un maelstrom di suoni elettronici che provengono da un’altra dimensione, forse quella da dove la voce riverberata salmodia acuta per poi acquietarsi e farsi narcotica nella seguente Denim, un lento viaggio iniziatico dove le storture sono appannaggio dei synth e di qualche sporadico accordo ubriaco ma la furia, una delle poche volte che si scatena, è tutta distorta e vicina allo sludge, il che non è niente male per un pezzo iniziato nella parte più in ombra del bosco fatato.

Ho parlato a inizio articolo della mia difficoltà a riconoscere gli elementi sonori in un disco: ho parzialmente mentito. Il motivo della premessa ha a che fare col fascino che >>>> ha su di me, la sua capacità di variare all’interno di un’atmosfera sonora stabilita e rispettata con la coerenza di chi ha raggiunto la stabilità. L’ultimo disco dei Beak> non prevede l’utilizzo di mille strumenti ma quello accorto e spesso spiazzante degli stessi, un riutilizzo creativo che passa anche solo per la capacità di ottenere il massimo risultato dal minimo cambiamento, evidenziandolo con la lente d’ingrandimento in modo da farlo diventare l’elemento preponderante, Prendiamo il basso di Fuller, timido e pronto a farsi tappeto in alcuni punti per poi esplodere rimbombante a metà di Bloody miles, lo scontro che non sapevate di volere fra l’esoterismo dei Boards of Canada e la bucolicità tutta tastierosa di un film di Miyazaki, o ad unirsi ad una batteria da Love Parade nel post-punk ipnotico e acido di Secrets (parentesi sinestetica: Secrets è verde acido, chiudete gli occhi e vedrete tutto verde acido coi miei occhi); prendiamo la batteria stessa, che coadiuvata dalle percussioni in Ah yeh ci raduna attorno al fuoco a ballare spiritati ed estatici; prendiamo la voce, che invece resta sempre dimessa e tranquilla, una guida della normalità in un mondo sonoro che fa solo finta di essere normale.

La chiusura con Cellophane arriva a giustificare le influenze stoner che wikipedia attribuisce al trio, ma è uno stoner di lentezza narcotica che si intrattiene in una lisergia pura come non la sentivo dall’esordio dei dimenticati Notorious Hi-Fi Killers (sentite qua) prima di virare, o meglio naufragare, verso uno scoglio di distorsioni che sembrano essere lo sfascio finale per cui abbiamo pagato il biglietto e invece no, si mangiano tutto di nuovo tastiere e synth malaticci. Nell’imprescindibile, almeno se siete appassionati di critica musicale (quella dei balli e dell’architettura), Exmachina di Valerio Mattioli l’autore parla della musica dei già citati Boards of Canada in questi termini: “Alla percezione del suono digitale preferiscono antiquate strumentazioni analogiche che sembrano ripescate dal magazzino di un radioamatore in pensione […] Trasmettono lo stesso calore più che umano di una polaroid sbiadita dal passare degli anni”: in >>>> c’è questo e molto altro, c’è l’immagine di un altrove in cui è tanto facile aspettarsi una pace estatica quanto temere di ritrovarsi invischiati in una setta dalle dubbie intenzioni, il tutto condito da una fantasia e da una lucidità invidiabili. Ascoltate l’ultimo disco dei Beak>, sprofondate e ascendete al tempo stesso nel loro mondo: noi vi promettiamo di tornare sul pezzo molto presto.

Ti è piaciuto questo racconto/articolo? Segui la pagina Facebook di Tremila Battute!

Scarica il numero Zero e il numero Uno della fanzine di Tremila Battute!

Pubblicato da Ficky

Nel (poco) tempo libero scrivo racconti, guardo film e serie tv, leggo libri, recito in una compagnia teatrale, partecipo a eventi culturali e vado a vedere un sacco di concerti. Ho scritto per anni di musica (Indie-zone, Stordisco, Asapfanzine) e spero di trovare il tempo di farlo ancora per molti anni a venire.

Una opinione su "Se non sai cos’è allora è weird: >>>> dei Beak>"

Lascia un commento

Progetta un sito come questo con WordPress.com
Comincia ora