Memorie di un vecchio videogiocatore: Fallout

Sono un vecchio videogiocatore, e come tale ho visto cose che… no dai, basta con le citazioni da Blade Runner. Però ho fatto in tempo, guarda un po’, a giocare anche al videogioco di Blade Runner, un videogioco che pur avendo una produzione costosissima non aveva comunque i diritti del film: niente Harrison Ford, niente nomi dei protagonisti (alcuni erano mutuati da quelli di Ubik, il capolavoro di Philip K. Dick che pure ebbe una trasposizione videoludica, mentre per quella cinematografica stiamo ancora attendendo), ma tanta tecnica che ai tempi sembrava miracolosa. Fra la fine degli anni 90 e i primi anni 2000 c’erano continui passi avanti nella grafica, il fotorealismo sembrava a un passo (che poi, a riguardarli oggi, certi di quei videogiochi di passi ne dovevano fare ancora molti, ma si arrivava da pixel grossi come la mia testa che ora, guarda un po’, passano per “pixel art”) e l’industria videoludica, allargandosi, stava iniziando a lasciarsi indietro la nomea di corruttrice di giovani menti per ripulirsi l’immagine in quanto fabbrica di soldi.

Sono un vecchio videogiocatore, quindi ricordo anche i momenti in cui si era già tentato di sfruttare i videogiochi per farci dei soldi, anche al di fuori del contesto videoludico in sé. Non ho mai visto Super Mario Bros, quello in cui Bob Hoskins si è dato all’alcol per non essere costretto a pensare alla merda che stava girando, ma di trasposizioni videoludiche terribili è pieno il mare della cinematografia. Molte sono state realizzate dal famigerato Uwe Boll, regista tedesco su cui andrebbe scritto un articolo a parte (e chissà che non lo faremo) che per anni ha preso dei videogiochi e non gli ha reso giustizia con cose terribili, che chiamarli film è forse troppo, come House of the dead e Alone in the dark (dal peggiore di questi, lo scorrettissimo Postal, riuscì però a tirar fuori qualcosa di divertente), ma per anni il meglio che si poteva trovare, a parte rare perle come Silent Hill, era quella tamarrata della saga di Resident Evil. Poi qualcosa è cambiato, non totalmente ma un po’ sì.

Ecco, ora Uwe Boll vuole sfidare anche noi a un incontro di boxe

Il punto di svolta, o almeno quello in cui se ne sono accort* tutt*, è stato The last of us, forse perché già pescava da un videogioco che faceva della trama il suo punto di forza (ho visto trame migliori comunque), ma in generale l’equazione “film/serie tv tratta da un videogioco = merda” sta venendo sfatata: la serie su Fallout, saga videoludica il cui capostipite è uscito nel 1997 (solo per PC, ai tempi le console dovevano ancora prendere il sopravvento), ne è la dimostrazione.

Back to 1997, with isometric visual

Sono un vecchio videogiocatore, quindi ricordo le anteprime sulla rivista The Games Machine in cui si parlava dei diritti di sfruttamento a cui gli sviluppatori di Interplay Entertainment è stato dapprima concesso e poi negato l’utilizzo. Il primo Fallout era un gioco di ruolo che avrebbe dovuto basarsi su G.U.R.P.S., un set di regole molto meno famoso di Dungeons & Dragons ma con un’ambientazione futuristica e ironica che gli aveva garantito una comunità di appassionati, poi non se ne fece niente e gli sviluppatori dovettero camuffare quel set di regole e modificare anche dettagli dell’ambientazione: certe idee geniali nascono anche così, tipo il look retrofuturistico da società anni 50 andata avanti ben oltre il limite consentito, o il Vault Boy che spiega col suo sorrisone fiducioso quali caratteristiche sviluppare per fare un headshot come si deve a un super mutante. Sono dettagli che un videogiocatore porta nel cuore, le prime cose a cui pensa quando scava nella memoria, e per anni sono state le prime a venire sacrificate sull’altare del “va be’, abbiamo il titolo del videogioco scritto in grosso, che vogliono di più se non darci i soldi?” (ora ci vorrebbe il meme di Fry, facciamo come se l’avessi messo): Jonathan Nolan e Lisa Joy per fortuna non sono di quella scuola.

Precedenti illustri

La coppia, sia sul lavoro che nella vita, si era già meritata l’affetto di molti appassionati di fantascienza con la prima stagione di Westworld, serie che richiedeva un certo impegno a livello di attenzione (diciamo che non saprei riassumere tutti i passaggi della trama) ma che ricambiava con uno sviluppo appassionante, personaggi credibili (e che cast, basti citare Ed Harris e Anthony Hopkins), temi profondi e un finale che se non è perfetto poco ci manca. Westworld era la classica serie che sarebbe dovuta finire così, invece Joy e Nolan hanno fatto la mossa Lost e ci hanno ricamato su, hanno complicato ulteriormente il loro canovaccio sulla coscienza e l’intelligenza artificiale e allargato la prospettiva: io ho perso interesse dopo due puntate della seconda stagione, le opinioni generali non sono state molto generose e alla fine la serie è stata cancellata dopo la terza stagione. In Fallout l* due si limitano a produrre (ideator* della serie sono Graham Wagner e Geneva Robertson-Dworet, quest’ultima già sceneggiatrice dell’ultimo film dedicato alla saga di Tomb Raider), anche se alcune caratteristiche del loro precedente lavoro rimangono nel tono spesso sopra le righe degli eventi, qui più sul fronte violenza che non su quello sessuale (avere un bordello fra le ambientazioni è stato l’escamotage con cui Westworld si concedeva una quota di nudità piuttosto alta, perché come recita il motto “It’s not porn, it’s HBO!”).

Ovviamente la trasposizione cinematografica perfetta di un videogioco non consiste nel filmare tutto in soggettiva se stai facendo un film su uno sparatutto (cosa che nell’altrimenti dimenticabile Doom veniva fatta, in una sequenza che come omaggio era piuttosto riuscito), ma nel riuscire a restituire lo stesso spirito. Per fare questo Fallout doveva restituire alcune caratteristiche ben note ai cultori della saga, che hanno a che fare con l’ambientazione geografica, l’ironia di fondo e una cura per le sottotrame, oltre a investire come ogni serie che si rispetti (anche non tratta da un videogioco) in una trama appassionante e personaggi ben scritti. E partiamo proprio da questi ultimi allora.

Ci sono un ghoul, un soldato e una sopravvissuta…

A far fare il salto di qualità alla saga videoludica di Fallout è stata la software house Bethesda, che nel 2008 sviluppò Fallout 3 portando il gioco nella “nuova generazione”: non più grafica isometrica, ma una soggettiva figlia dell’altra famosa saga dello studio, Elder Scrolls (scusate la parentesi nerd, ma magari avete anche voi sentito parlare di Skyrim), e un sistema di gioco che univa le logiche di un first person shooter a quello del gioco di ruolo. Va da sé che il personaggio principale era un semplice specchio muto del giocatore, ma tutto attorno a lui l’ambientazione postapocalittica ricreata da Bethesda pullulava di personaggi bizzarri e unici, da compagn* che potevano unirsi a te (non più di uno alla volta) a sceriffi robot, ghoul amichevoli e affaristi senza scrupoli. Wagner e Robertson-Dworet hanno avuto la buona idea di valorizzare questa diversità, sviluppando la trama attorno a tre personaggi che si ritrovano costretti a interagire fra loro: Lucy MacLean (Ella Purnell), una giovane donna che ha vissuto la sua intera esistenza nel Vault 33 (uno dei rifugi antiatomici autosufficienti costruiti due secoli prima e ancora isolati dalla superficie) e ne fugge per ritrovare il padre rapito da alcuni predoni, il soldato Maximus (Aaron Moten), recluta della Confraternità d’Acciaio che aspira a diventare cavaliere, e il Ghoul (Walton Goggins), un cacciatore di taglie mezzo scarnificato dalle radiazioni che pare in giro da secoli e ha imparato a cavarsela in ogni situazione, con poco interesse per le vite che calpesta nel percorso.

Che bella compagnia!

Tutt* loro si ritrovano coinvolt* nella ricerca di un misterioso artefatto, rubato in un laboratorio segreto da uno scienziato che lo deve consegnare alla fantomatica Lee Moldaver (Sarita Choudhury), e i vari passaggi di mano del prezioso congegno (di cui nessuno conosce la natura) portano l* tre ad allearsi, rincorrersi, cooperare e cercare di uccidersi a seconda della situazione, ognuno coi propri obiettivi da perseguire: costruiti su una caratterizzazione piuttosto marcata (ingenua e ottimista Lucy, ombroso e arrivista Maximus, cinico e sempre a suo agio il Ghoul), i personaggi se ne distaccheranno parzialmente con l’avanzare delle puntate, sfuggendo al pericolo macchietta e assumendo anche grazie ad alcuni flashback (particolarmente importanti per il Ghoul, ex star di Hollywood quando ancora si chiamava Cooper Howard) maggiore profondità. Attorno a loro il mondo della California nuclearizzata è pieno di gente bizzarra di cui è difficile fidarsi, dal “dottore” che cerca di vendere sottobanco i propri rimedi miracolosi ai predoni che gestiscono tramite robot medici un giro di compravendita di organi passando per comunità di mutanti dalle dubbie motivazioni, queste sì macchiette ma funzionali a rendere vivida e palpabile la mancanza totale di legge che vige nella Zona contaminata.

… che vagavano in mezzo alle macerie…

Una cartolina dalla Zona contaminata

Avete visto Mad Max: Fury Road? Se avete risposto “no” recuperatelo prima di ieri, perché è un’esperienza cinematografica incredibile, un miracolo di azione spasmodica corroborato da un world building essenziale ma tutt’altro che sobrio. La sobrietà non è di casa nemmeno in Fallout, che alla rassicurante patina anni 50 del mondo pre-guerra nucleare affianca edifici ridotti a scheletri, deserti mortali, strutture automatizzate che hanno smarrito la loro funzione e bidonville putride: l’unica parvenza di ordine sembra resistere nei Vault, ma anche gli angusti corridoi sotterranei ci metteranno poco a sembrare meno sicuri di quanto sembri. Fallout la serie riesce a replicare i Fallout videoludici nel senso di meraviglia di fronte a questo mondo alieno, donando all’ambientazione un carattere che non si limita al “postapocalittico standard” e lo rende vivo, unico. A questo contribuisce sicuramente il look retrofuturistico, dove accanto alle tute avanzatissime dei Cavalieri della Confraternità d’Acciaio convivono le pubblicità zuccherose di prodotti come la Nuka Cola, i cui tappi sono ormai moneta corrente nella Zona contaminata: una buona ambientazione la si (ri)crea anche così, attraverso piccoli dettagli che fanno il mondo, e certo il farmaco che toglie le radiazioni non può rivaleggiare con il chitarrista fiammeggiante del già citato Fury Road, ma quando scopri che quel farmaco si chiama “Rad-Away” ti viene da sorridere riguardo alla lapalissiana qualità di quel nome, e quel sorriso ti ha catturato ancora un po’.

… con una battuta sempre pronta sulla punta della lingua…

Ok, non stiamo parlando de L’ultimo boyscout, ma non è (solo) coi dialoghi che Fallout manifesta tutta la sua carica ironica. Il primo videogioco della saga iniziava col protagonista costretto a uscire dal suo Vault per salvare la propria comunità da un malfunzionamento, e la soluzione consisteva nel procurarsi un G.E.C.K., altrimenti detto in maniera estesa “Garden of Eden Creation Kit”. Come lo mettiamo a posto questo problema? Ma che domande, col kit di creazione del Giardino dell’Eden! Ribadiamolo: Fallout non se n’è mai fatto niente della sobrietà, e la sua trasposizione seriale questo spirito lo abbraccia in pieno, calcando la mano sull’ingenuità degli abitanti dei Vault, caratterizzando in maniera ambigua ogni fazione (la Confraternita d’Acciaio, emblema di ordine e civiltà, assume sempre più un’immagine pseudo-fascista con l’avanzare della trama) e facendo ringraziare i poveri abitanti della Zona contaminata quando qualcuno evita di ucciderli per partito preso. È un mondo malato quello uscito dalla guerra nucleare ma questo non significa che non si possa riderci sopra, anche solo vedendo un orso mutante che gioca all’apriscatole con un’armatura atomica.

Alle bestie mutanti le armature atomiche piacciono un sacco!

… mentre cercano di salvare il mondo.

Una delle cose che ricordo di più all’interno della saga videoludica di Fallout è l’esplorazione di un Vault abbandonato. Era un Vault trovato per caso, raggiunto svicolando dal percorso imposto dalla trama, lasciato dall* abitant* alla viglia di bizzarre elezioni: ogni candidat*, invece di fare campagna contro l* avversar*, tentava di minare la propria candidatura. Addentrandomi sempre più in profondità nei cunicoli scoprii che la struttura, completamente automatizzata, precedeva il sacrificio di un membro della comunità ogni tot tempo (questa la funzione delle “elezioni”), pena la mancanza di beni di sostentamento: arrivare alla camera di esecuzione (e sopravviverci) permetteva di scoprire che l’ultimo “sindaco” si era rifiutato di sottostare alla legge, scoprendo così che… non era davvero necessario, e anzi quel sacrificio continuo era una prova da superare per dimostrare di essere evoluti come società. In quella piccola storia, facilmente evitabile, ho riconosciuto l’abilità di Bethesda di portare avanti una narrazione che, nonostante l’ironia di fondo, sapeva anche coinvolgere ed assestare buoni pugni nello stomaco.

Fallout la serie non ha per forza la trama più originale del mondo, ma sa come raccontare una storia e lo dimostra ad ogni puntata. Mentre seguiamo la ricerca di Lucy, Maximus e Cooper veniamo messi a parte anche della situazione nel Vault 33, dove il fratello di Lucy Norman (Moisés Arias) scopre che la comunità idilliaca in cui è cresciuto nasconde strani segreti, e i vari flashback sulla vita di Cooper ci mostrano che la Vault-Tec, l’azienda creatrice dei Vault, ha interessi che vanno al di là della salvaguardia dei cittadini, in un clima di paranoia anticomunista che estremizza il Maccartismo reale. Joy e Nolan hanno già sfruttato efficacemente le sottotrame in Westworld, lasciando che lo spettatore si facesse domande a ogni svolta della narrazione, e altrettante domande ne lascia Fallout quando si arriva alla fine della decima puntata: speriamo che nella prossima stagione non si giochi troppo al rilancio, finendo nel macciocapatondiano “lì c’è un mistero più misterioso”, perché quanto fatto finora è quanto di meglio si possa augurare un vecchio videogiocatore quando fanno la trasposizione di una saga che ha amato.

Prossima fermata: New Vegas!

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Pubblicato da Ficky

Nel (poco) tempo libero scrivo racconti, guardo film e serie tv, leggo libri, recito in una compagnia teatrale, partecipo a eventi culturali e vado a vedere un sacco di concerti. Ho scritto per anni di musica (Indie-zone, Stordisco, Asapfanzine) e spero di trovare il tempo di farlo ancora per molti anni a venire.

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