Nell’anno di grazia 2015 avevo già deciso con largo anticipo quale sarebbe stato il mio concerto dell’anno: Russian Circles (ve ne ho parlato svariate volte, in particolare qui) al Lo Fi di Milano. Se non siete mai stati al Lo Fi, locale che tristemente trovò la sua ingiusta fine alla fine dell’anno seguente (ma chi lo gestiva è ancora attivo nell’organizzazione di concerti, seguiteli), vi siete persi tanta roba: inculato alla fine di una strada senza uscita, attorniato da una parte dai binari del treno e dall’altra da strade sporche e capannoni industriali, si trovava proprio all’interno di uno di questi capannoni e organizzava concerti fra i più storti e pesanti che si trovassero in quel del capoluogo lombardo. il 3 aprile di quell’anno (non lo ricordo a memoria, ho controllato su Google) ci entrai per la prima volta, innamorandomene subito anche per la sua atmosfera fra l’industriale (era pur sempre in un capannone) e cyberpunk: mentre attendevo il “piatto principale” vidi salire sul palco, con uno sfondo torreggiante di schermi televisivi impilati uno sull’altro, la band di supporto composta da 1) chitarrista simil-vichingo che alterna vocalizzi e urla belluine 2) bassista rocciosa che dimostra un’insospettabile voce melodiosa 3) batterista ipertatuata che canta pure lei mentre si perde in ritmi belli contorti. Anche l’occhio vuole la sua parte, ma fu naturalmente la musica a farmi decidere di seguire da lì in avanti anche gli Helms Alee (che, curiosità, hanno supportato i Russian Circles in Italia anche quest’anno), ovvero (come avrete già intuito) la band ospite di questa settimana.
Quando li incrociai a Milano il trio composto da Ben Verellen (chitarra e voce), Dana James (basso e voce) e Hozoji Matheson-Margullis (batteria e voce) era già attivo da qualche anno, precisamente dal 2007. Formatisi a Seattle, del suono che rese famosa la città come capitale del grunge non hanno praticamente niente: gli Helms Alee uniscono sapientemente sfoghi urticanti e melodie soffuse, incroci fra gli strumenti dal vago sapore math e rallentamenti gonfi di bassosità più vicini allo sludge metal, voci angeliche e urla aggressive. Dopo un Ep omonimo pubblicato nell’anno della formazione, il loro primo disco Night terror esce per l’etichetta Hydra Head Records nel 2008 e fissa già la base del loro suono, portato avanti con coerenza (ma senza mai difettare di fantasia) nei successivi cinque album. Dopo l’uscita del secondo disco Weatherhead nel 2011 (da cui vi prego, se siete appassionati di Beavis & Butthead, di recuperare il video della canzone 8/16, insieme un omaggio alla serie di Mike Judge e una parodia dei video che andavano per la maggiore negli anni 90, tipo quelli di November rain e Under the bridge) avviene il passaggio alla Sargent House (etichetta anche degli stranominati Russian Circles), per la quale pubblicano nel 2014 Sleepwalking sailors, album dalla cover magnifica e con cui imparo a conoscerl* e apprezzarl*, prima del quale piazzano una sfilza di tre split in due anni con band come Ladder Devils, Tacos! e Young Widow. I successivi Stillicide (2016) e Noctulica (2019) amplificano la vena ossessiva e oscura della loro musica, ma la pandemia invece di rinchiuderli ancora di più in una gabbia di pessimismo e fastidio espande i loro orizzonti: Keep this by the way (2022), registrato dalla band stessa in totale autonomia in uno studio ricavato nel negozio di amplificatori di Verellen, si apre a suoni più ariosi della norma (Big Louise ne è l’esempio massimo) mantenendo comunque la grinta che dal vivo li rende un’esperienza unica.
Trarre un racconto da una loro canzone è stata un’impresa che mi ha tenuto in ballo per settimane se non mesi, perché i loro testi sono tutto tranne che facilmente comprensibili (figuriamoci poi per me che con l’inglese non sono in rapporti strettissimi). Alla fine mi sono lasciato guidare dalle immagini che scaturivano nella mia testa all’ascolto di Tumescence, la seconda traccia di Sleepwalking sailors, insieme un bell’esempio dell’incrocio di voci e della carica energetica della band: protagonista del racconto è una piccola creatura, il Nogdrim, cui anni fa dedicai un racconto e che si fa rappresentazione di molte cose (alcune delle quali espresse in maniera un po’ pedante, me ne rendo conto), dalla medicalizzazione delle ansie senza che venga modificata la società che le crea alla mancanza di empatia verso il prossimo. Se vi sentite pronti potete leggere il racconto più in basso, subito dopo il brano che lo ha ispirato: buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).
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Nogdrim
Se solo potesse lo ammazzerebbe, affonderebbe le mani in quel pelo sudicio e stringerebbe fino a soffocarlo. Ma non può. Mentre guarda la creatura ai suoi piedi contorcersi sente già la rabbia svanire, cerca di tenerla con sé ma l’odio si tramuta in una lieve malinconia.
Il Nogdrim non lo giudica. Sbava e si agita, assorbe il suo malumore con la riluttanza di chi non può fare altro.
Nessuno terrebbe in casa un animale del genere: infatti non è una scelta, ma un’imposizione. Frutto di un esame di laboratorio andato troppo male o troppo bene, a seconda dei punti di vista, il Nogdrim si è rivelato una panacea per la convivenza pacifica, elimina lo stress dalle persone nutrendosene per sopravvivere. Nel Distretto 17 quasi tutti ne hanno uno, una sperimentazione su vasta scala dopo che i primi test sulla popolazione hanno dato esito positivo.
Dover assistere mentre il Nogdrim agisce è una delle cose che sopporta meno di quella creatura. La pelle chiazzata di escrescenze viola, che fanno pensare a tumori, pulsa violentemente mentre quelle che suppone siano zampe (inutili, il Nogdrim per spostarsi striscia in maniera patetica) si agitano in ogni direzione. È una sofferenza condivisa che alla fine lascia l’uno sazio e l’altro rasserenato, almeno per poco.
Sa che c’è qualcosa di sbagliato in tutto questo. Il Nogdrim è stato “donato” alle fasce meno abbienti della popolazione, gente sottopagata che per vivere fa lavori di merda e deve ringraziare di averne uno. Il Distretto 17 si è sempre distinto per le sue rivendicazioni, per i frequenti scontri con la polizia, ma dal di fuori è sempre stato visto come uno di quei posti dove non conviene aggirarsi di notte: ora, dopo un mese dall’arrivo dei Nogdrim, le occupazioni in fabbrica sono finite e il vociare per le strade fino a tarda notte è stato sostituito da un tenue brusio. L’amministrazione cittadina si vanta dei suoi risultati e gli abitanti sono felici, ma solo per il tempo che intercorre fra uno scoppio di rabbia e l’altro.
La verità è che non è cambiato niente. I problemi sono gli stessi di prima, ma chi dovrebbe occuparsene ha trovato una comoda soluzione, come curare una malattia invece di prevenirla. Al solo pensarci sente le vene pulsare sulla fronte, ma il Nogdrim è lì per quello: anestetizza, lenisce, stringe le pareti della gabbia di rispettabilità sociale e tutto al solo costo di una vita piena di dolore.
Sa che c’è qualcosa di sbagliato in tutto questo, ma fa sempre più fatica a dare un nome al suo disagio. Sa che c’è qualcosa di sbagliato anche nell’utilizzo di una creatura sventurata per migliorare una società malata, ma non riesce a provare empatia per il suo destino: quando il processo finisce, il Nogdrim si allontana lentamente e lui è troppo stanco per pensare.
I primi esami di laboratorio hanno evidenziato che, nell’assorbire lo stress che è la loro unica fonte di vita, i Nogdrim soffrono terribilmente, ma nessuno ha protestato per questo. A nessuno importa della vita dei Nogdrim.
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