Ci sono artist* la cui carriera è un inaspettato processo di maturazione. Vale un po’ in qualsiasi ambito: ci si sarebbe aspettati dal Leonardo Di Caprio ragazzino di Genitori in Blue Jeans (ma anche solo di Romeo + Juliet) performance attoriali come quella che l’ha portato all’Oscar per The revenant (anche se la scena in cui continuo a preferirlo è questa)? Da una Melissa Panarello che inizia la carriera letteraria col caso mediatico pruriginoso 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire (passando per Mistero su Italia 1, giusto per non farsi mancare nulla) ci si sarebbe aspettati una lunga carriera che l’ha portata anche, nel novembre 2020, ad aprire una propria agenzia letteraria (che porta alla pubblicazione libri che ci sono piaciuti molto come questo)? Spostandoci in un ambito e in una zona più vicini a ciò di cui stiamo per parlare, chi riconoscerebbe Blur e Radiohead ascoltando in fila il loro primo disco e l’ultimo? Ebbene, tutto questo impallidisce al confronto della multiforme carriera di Sam Shepherd da Manchester, in arte Floating Points.
Dai club al desert rock, dalla musica orchestrale all’ambient, dal 2009 il nome Floating Points è sinonimo di ricerca, sperimentazione, movimento in direzioni inaspettate. Sam esordisce con questo nome nel 2009 col 12″ J&W beat, fondando nello stesso anno la sua etichetta Eglo Records, e per qualche anno si muove nell’alveo della musica elettronica con libertà e curiosità, passando da composizioni più ariose ad altre perfette per il dancefloor (potrei parlarvi di 2-step, house, techno e compagnia cantante, ma mi sentirei falso come pochi: il mio amore per certa musica elettronica non mi rende affatto un esperto), il tutto mischiato a un certo amore per il jazz. Fino al 2015 Sam si “limita” a fare uscire 12″ ed Ep come Shadows (2011), ma sotto comincia a covare qualcosa di diverso: è infatti un vero e proprio gruppo di musicisti (il Floating Points Ensemble) quello che dopo anni di session porta al primo vero album, Elaenia, uscito per le etichette Luaka Bop e Pluto Records.
Elaenia è quello che nella carriera di un artista normale potrebbe essere definito uno “spartiacque”. La vena ballabile, percepibile in sottofondo, è coperta da una coltre di algidità sognante che rende il disco un viaggio introspettivo, composto da brani in continua evoluzione e crescita come la conclusiva Peroration six. L’anno successivo Sam e la sua banda alzano ancora la posta, prima sbizzarrendosi per i 32 minuti complessivi, per sole due tracce, dell’Ep Kuiper (la cui monumentale e multiforme title track è stata il mio battesimo del fuoco con la musica di Floating Points), poi con l’esperimento crossmediale Reflections – Mojave Desert, partito come cortometraggio della regista Anna Diaz Ortuño basato sulle registrazioni della band nel deserto californiano e diventato un vero e proprio disco che flirta pesantemente col desert rock più lisergico (mammia mia Kelso dunes!) e con il post rock più sperimentale. Ecco quindi che Floating Points si dà alle droghe e fugge per la psichedelia, giusto? No.
Sam prima se ne parte in tour con gli XX, aprendo i loro concerti con il solo supporto di un modulare e di una drum machine, descrivendo l’esperienza come “la cosa più aggressiva mai prodotta fino a quel punto” (informazione tratta, come molte di questo articolo, dalla splendida disamina della sua carriera fatta da Luca Roncoroni di Sentireascoltare a questo link), poi comincia a produrre nuovi brani che tornano a flirtare in maniera più pesante col dancefloor: Crush, l’album uscito nel 2019 per Ninja Tune, è un riuscito ibrido fra un ritorno alle atmosfere da club con lo spirito più arioso degli esperimenti avvenuti nel mezzo, un disco in cui si può partire sognanti per finire con la testa che martella su beat aggressivi (Bias), lasciarsi cullare (Requiem for CS70 and Strings) o farsi trasportare dal ritmo in territori mutevoli che non lasciano mai il corpo immobile (LesAlpx). Floating Points è quindi tornato un progetto prettamente elettronico? Figuriamoci! Nel 2021 esce Promises, disco in cui Sam collabora addirittura con la London Philarmonic Orchestra e con il leggendario sassofonista (recentemente scomparso) Pharoah Sanders, lanciandosi in un territorio che ha a che fare tanto col jazz quanto con la musica concreta, nove movimenti in cui i silenzi contano quanto le note. Non stupisce che le nuove canzoni di Floating Points uscite nel 2022 (l’ultima, Problems, solo due mesi fa) puntino di nuovo pesantemente sulla ballabilità: Sam Shepherd è uno che evidentemente si annoia a fare sempre la stessa cosa o, perlomeno, ha bisogno di prendere direzioni inaspettate ogni tanto. A quando un disco di black metal ibridato con la house?
Il mio amore per lo stoner e la scena desertica in generale non poteva che portarmi a pescare da Reflections per farmi suggestionare, e da lì arriva il brano Silurian blue: una lenta e atmosferica ascesa che, nel racconto scaturito dalle sue note, diventa al contrario un progressivo rallentamento dovuto a uno strano fenomeno. A voi il piacere (spero) di scoprire questo bizzarro futuro subito dopo il brano che lo ha ispirato, a me invece non resta che augurarvi, come al solito, buon ascolto e buona lettura.
Se volete ascoltare questo e tutti (o quasi) gli altri brani che hanno ispirato i racconti di Tremila battute ora potete farlo tramite questa comodissima playlist su Spotify: in attesa di trovare un canale che ricompensi davvero gli artisti accontentiamoci di quel che passa il convento e ascoltate, condividete, supportate (e se avete canali alternativi suggeriteli nei commenti).
Scarica il numero Zero della fanzine di Tremila Battute a questo link!
Piano
A furia di elogi della lentezza, della contemplazione, della capacità di assaporare le esperienze senza fretta, finì che iniziammo davvero a rallentare.
Fu una cosa graduale, ma ce ne accorgemmo quasi all’unisono, chi lamentandosi con tono cantilenante delle code sempre più lunghe alle poste, chi maledicendo i pedoni che attraversavano con passo da lumaca fuori dalle strisce, un’attesa snervante da cui ripartivamo schiacciando con parsimonia l’acceleratore.
Rallentammo nel corpo, ma non nell’animo. Dentro eravamo tutti attanagliati dalla stessa smania di fare che ci aveva tormentato per anni, un po’ meno le giovani generazioni che si sa, si abituano prima ai cambiamenti, il che ci dava perlomeno un po’ di speranza per il futuro. Un futuro che ci avrebbe visti più poveri, la maggior parte di noi almeno, perché sul lavoro si pretendeva la stessa efficienza di prima: con l’andatura del bradipo, capiturno e responsabili d’ufficio continuavano a vessarci dall’alto del loro rendimento invariato, visto che meno di niente non potevano fare. Gli stipendi diminuirono, la qualità della vita pure, per consolarci ci restava solo da scherzare sul fatto che prima o poi ci saremmo fermati del tutto, una prospettiva che alimentava i nostri incubi notturni.
Gli studiosi diedero la colpa del fenomeno a una strana sfumatura di blu, che aveva preso ad avvolgere tutto dall’ultima eclissi di luna. Incapaci di prendercela con altro, visto che dovevamo dosare i movimenti, rivolgemmo il nostro odio verso il satellite estromettendolo dalle poesie e dalle canzoni d’amore. Fu l’ora della disperazione, in cui alzavamo i pugni al cielo chiedendo “perché?”, gesti futili che innervosivano chi, tutto attorno, vedeva svolgersi quel vano rituale alla velocità della moviola.
Poi un noto premio Nobel, dopo mesi di calcoli che in tempi normali lo avrebbero impegnato per massimo una settimana, ci disse quanto progrediva il nostro rallentamento, quanto ancora ci rimaneva da muoverci prima di sviluppare una completa affinità con le rocce e le piante, ed era più di quanto ci aspettassimo.
Di fronte a quelle stime le cose tornarono più o meno normali, ci calmammo tutti quanti. Qualche decennio di relativa velocità ci permetteva una comoda scappatoia, quella della delega: era solo un altro problema che avrebbe risolto chi avrebbe dovuto conviverci dopo di noi.
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