C’è un aneddoto lunghissimo e magari non così divertente che mi piace raccontare. Anni fa con la mia band Duranoia scrivemmo una canzone strumentale, soprannominata F.P.I. (Fanoste Private Investigation), che eseguimmo solo una volta dal vivo senza mai registrarla: l’idea di partenza, mia (non capita così spesso), era di far seguire alla musica l’andamento di una storia noir stereotipata, del tipo ingaggio dell’investigatore-dramma che coglie la sua vecchia fiamma-indagine-la donna si rivela una doppiogiochista-risoluzione finale (la uccide?). Da quello scheletro di idea anni dopo mi ritrovai a ricavare una recensione piuttosto folle, ovvero quella dell’album Il de’ blues dei Vonneumann, la quale a sua volta mi ispirò un racconto lungo (romanzo breve?) con quegli stessi elementi e l’aggiunta di un protagonista che man mano che la storia avanza diventa sempre più consapevole di essere il protagonista di una storia di finzione. Lo girai alla band, trovando nell’allora bassista e oggi batterista e manipolatore di suoni tout court Fabio Ricci un attento lettore, e da lì partì il mio contributo al loro progetto collaborativo sull’album tl;dl: un racconto a quattro mani scritto da me e lui, allegato al disco, e un piccolo contributo sonoro sull’ultimo brano dell’album, che come ogni miglior cerchio che si chiude veniva direttamente da quella F.P.I. di cui ho parlato a inizio articolo.
Perché raccontare tutta questa storia, che magari vi ha anche annoiato? Perché Fabio, assieme a Isobel Blank e Simone Lanari degli Ask the white, ha realizzato un nuovo progetto chiamato dTHEd, e il racconto di questa settimana è ispirato proprio ad un loro brano.
Descrivere la musica di dTHEd è davvero complicato. La base di partenza viene da un libro, Iperoggetti di Timothy Morton, in cui si teorizza fra speculazione filosofica e riflessione ecologista la presenza di entità di una tale dimensione spaziale e temporale da incrinare la nostra stessa idea di cosa un oggetto sia, ad esempio il riscaldamento globale: i dTHEd hanno fatto tesoro di queste nozioni, particolarmente del capitolo riguardante le musiche che a parere dell’autore possono essere considerate iperoggetti, e ragionando su questi concetti e su quello di neurodiversità hanno cercato di creare una musica diversa, una hyper music che andasse in qualche maniera al di là dell’umano, o almeno è l’impressione che ha fatto a me quando ci sono entrato in contatto. Nel 2019 è uscito il loro primo disco per Boring Machines, hyperbeatz vol.1, e il mio consiglio è di ascoltare con la mente il più aperta possibile l’incastro di suoni elettronici che formano i brani, per lasciarvi trasportare in un mondo altro che potrebbe essere il nostro visto con occhi diversi.
Il mio racconto è molto meno sperimentale, ma ragionando sulla percezione diversa delle cose, sui collegamenti fra esse e lasciandomi cullare da certe suggestioni sonore da parco giochi che ho trovato nel loro brano ªcçr_mщ ho partorito la storia che trovate più in basso, subito dopo il link al brano. Vi auguro come al solito buon ascolto, e buona lettura.
Ingranaggi
La giostra girava, i bambini urlavano, i genitori ridevano, la musica si ripeteva come un mantra e solo lui restava fermo in quel quadro idilliaco. Nemmeno la madre, intenta a fissarlo, riusciva a votarsi all’immobilità: la tradivano un lieve tremolio del labbro, il torcersi delle mani, segnali malcelati di una preoccupazione che era diventata sua compagna perenne.
Da principio le era parso un dono quel bambino così silenzioso, perché non la svegliava mai di notte ed era incapace di qualsiasi lamento. La invidiavano tutte le altre mamme, con le borse sotto gli occhi e piene di lamentele per i mariti assenti: lei poteva ostentare indifferenza verso quel distacco tipicamente maschile, era quasi come se loro figlio sapesse gestirsi da sé.
Cominciò a preoccuparsi quando, con la crescita, rimase fisso nel suo mutismo assorto. Le avevano detto già alla nascita che era speciale, ma a lei ora sembrava solo diverso. Il padre, peggio, lo considerava un ritardato. «Tanto valeva prenderci un gatto» disse una volta, guardandolo osservare il castagno di fronte alla finestra della cucina: lui non aveva tempo per capire.
Ma di fronte alla giostra, ai bambini felici, ai genitori che incoraggiavano i figli a prendere il codino, anche la madre veniva presa dallo sconforto. Vai a divertirti, gli aveva detto, sali sul cavallo bianco, ma lui non si era mosso di un passo. Restava fisso a guardare, chissà cosa, chissà perché, quando lei avrebbe voluto solo che fosse come tutti gli altri, che prendesse parte ai divertimenti di un giorno di festa.
La madre non poteva sapere che la giostra che girava era solo un ingranaggio, che i bambini e i genitori ne facevano parte, che loro stessi ne facevano parte. Assorto in contemplazione il figlio osservava i dettagli, cercava di capire gli incastri, metteva in relazione quel movimento circolare con quello della terra, degli astri, di tutte quelle cose che sentiva girare attorno a sé ma che ancora non capiva pienamente. Per questo non parlava, non voleva pronunciare una parola che non fosse esatta, che contenesse l’universo e non solo una parte di esso: percepiva il tutto, e non aveva fretta di metabolizzarlo.
Ignari delle loro intrinseche relazioni il padre lo ignorava, la madre si struggeva, la giostra girava e nel suo meccanismo il figlio cercava risposte più grandi di tutti loro. Un giorno le avrebbe trovate: chissà se per allora ci sarebbe stato qualcuno pronto ad ascoltarle.
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